RIFLESSIONI SU UN LIBRO RECENTE DI CLAUDIO MARAZZINI
di Massimo Fanfani
Dal maggio 2014 Claudio Marazzini è alla guida dell’Accademia della Crusca e si devono a lui diverse importanti iniziative non solo a favore della lingua, ma per la società italiana nel suo complesso. Sul piano scientifico, ad esempio, la riapertura del cantiere lessicografico in vista di un nuovo vocabolario storico dell’italiano postunitario, e l’avvio di numerosi progetti di ricerca in collaborazione con altre istituzioni italiane e straniere. Sul piano dell’alta divulgazione, sia un maggior impegno nella comunicazione con gli utenti attraverso il potenziamento del portale informatico per la consulenza linguistica e l’attività su altri social media, sia la creazione della nuova agile rivista elettronica «Italiano digitale. La rivista della Crusca in rete», destinata a temi e problemi della lingua contemporanea.
Abbastanza recentemente la Bur ha ristampato il suo ultimo libro, L’italiano è meraviglioso. Come e perché dobbiamo salvare la nostra lingua, già uscito da Rizzoli nel 2018. In questo lucido e appassionato volume rivolto al largo pubblico, Marazzini presenta il frutto della sua militanza e delle sue esperienze, come recita il titolo della sua Introduzione, Dal ponte di comando di una portaerei della cultura. Una portaerei, com’è l’Accademia della Crusca, dotata dei migliori strumenti per sorvegliare l’orizzonte e poter intervenire in ogni frangente. Nel titolo scelto da Marazzini risuona una suadente eco cinematografica, ma il sottotitolo fa subito capire che le note saranno dolenti: Dobbiamo salvare la nostra lingua. Infatti dal volume emerge soprattutto un’allarmata preoccupazione – che talvolta sfocia in considerazioni assai pessimistiche – sul futuro di una lingua che richiede d’esser difesa appunto perché appare in cattive acque: «è facile intuire che la lingua italiana, nel mondo globalizzato, andrà incontro a una crisi di cui si manifestano ora i primi sintomi allarmanti, sintomi che spaventano anche altre lingue d’Europa» (p. 7).
Rispetto alle altre lingue, tuttavia, per l’italiano diagnosi e prognosi stilate in queste pagine sono ben più gravi. Per la sua natura e la sua storia – una lingua senza impero, troppo colta e poco popolare, che si sfalda in varietà discordanti ed è assediata da dialetti ancor vitali e da lingue minoritarie antiche e recenti – l’italiano presenta per Marazzini nodi irrisolti e segnali di crescente debolezza. Da una parte si assiste a una dilagante sopravvalutazione del dialetto considerato alla stregua di una lingua: «tutte le parlate presenti nel territorio italiano, lingue o dialetti che siano, sono di grande interesse culturale, meritano di essere studiate e rispettate, per la loro storia e i loro caratteri; ma non possono prendere il posto della lingua nazionale, che comunque è un bene di tutti e ha funzioni diverse» (p. 38); dall’altra si fa sempre più incombente un’esiziale minaccia forestiera: la «prevalenza universale e quasi dittatoriale dell’inglese» (p. 41).
A questo tema Marazzini dedica pagine dense di dati e di fatti, confrontando la situazione e la politica linguistica italiana con quella di altre nazioni, dove la lotta contro l’influenza linguistica angloamericana è stata ingaggiata da tempo, e dove il discorso intorno a tale “virus” endemico si è sviluppato in modo vario e rigoglioso sia a livello scientifico e istituzionale, sia sul piano, non meno importante, della divulgazione e della pubblica opinione. Già nel febbraio 2015 un’approfondita ricognizione in proposito era stata promossa proprio dalla Crusca, con un vivace convegno nei cui atti, dopo un intervento di Jean-Luc Egger sulla plurilingue realtà elvetica, compaiono tre significativi contributi dedicati appunto al panorama romanzo: John Humbley, La politique francophone a l’égard des anglicismes; Maria Teresa Rijo da Fonseca Lino, La langue portugaise face aux anglicismes; Gloria Clavería, El español y el catalan ante los anglicismos (Marazzini e Petralli 2015).
Per la Francia, oltre a ciò che scrive Humbley, va ricordato che già nel 1966 (due anni dopo la pubblicazione da Gallimard del celebre pamphlet di René Étiemble, Parlez-vous franglais?), il primo ministro Georges Pompidou aveva istituito lo Haut Comité pour la défense de la langue française che nel 1989, conformandosi ad analoghe istituzioni degli altri paesi francofoni, sarebbe diventato il Conseil supérieur de la langue française. E che, al di là delle istituzioni, delle iniziative ufficiali e degli effettivi risultati ottenuti, il dibattito culturale sul problema dell’influenza inglese ha avuto un notevole seguito fra gli intellettuali e gli studiosi, tanto che sono assai numerose, anche in questi ultimi tempi, le pubblicazioni di vario genere e spessore che ne trattano. Anche la secrétaire perpétuelle dell’Académie française, Hélène Carrère d’Encausse, è intervenuta ripetutamente su questi temi (di recente la si è potuta ascoltare al convegno Il patrimonio linguistico europeo. Un tesoro da proteggere, tenutosi alla Crusca il 28 settembre 2018); mentre la filosofa e filologa Barbara Cassin, pur’essa fra les immortels, ha rivolto le sue polemiche argomentazioni contro il globish, l’inglese della globalizzazione, nel volume Éloge de la traduction. Compliquer l’universel (Cassin 2016).
In tanta selva di rilevamenti e prese di posizione all’interno del dibattito pubblico che sulla lingua si svolge in Francia sono illuminanti soprattutto le pagine di un fine linguista, Claude Hagège, che sul tema è tornato più volte: Combat pour le français. Au nom de la diversité des langues et des cultures e Contre la pensée unique. Nell’odierno predomino universale dell’inglese, assecondato dall’atlantismo e dalla politica delle élites politico-finanziarie di Bruxelles, Hagège vede non solo un fattore d’impoverimento del francese, ma anche un segno di declino culturale e di generale appiattimento. Infatti l’inglese è per lui il principale veicolo della mondializzazione del “pensiero unico”, con gravi ricadute nel campo della ricerca scientifica e della formazione, viste le forti spinte volte ad anglicizzare l’insegnamento ad ogni livello.
La reazione nei confronti del dominio “dittatoriale” dell’inglese non riguarda, tuttavia, solo l’area romanza. Anche nella realtà germanofona la discussione sul cosiddetto Denglisch, il tedesco semisommerso dall’inglese, è all’ordine del giorno. Basti ricordare che da tre lustri, a cura delle istituzioni linguistiche ufficiali di Germania, Austria e Svizzera (analoghe al Conseil supérieur de la langue dei paesi francofoni), si pubblica annualmente, anche in versione elettronica, Der Anglizismen-Index, un prontuario di circa ottomila anglicismi, per l’ottanta per cento dei quali vengono indicati termini tedeschi dell’uso perfettamente corrispondenti (Junker 2019).
Dovunque si volga lo sguardo, insomma, si notano anglofobiche levate di scudi. L’espansione di un’unica lingua globale – dovuta alle conseguenze delle due guerre mondiali e agli sviluppi politico-economici e tecnologici dell’ultimo mezzo secolo – e, di conserva, le crescenti interferenze dell’inglese nelle varie lingue di cultura, hanno provocato nel nuovo millennio un moto reattivo, non tanto nei comuni parlanti (che, se si servono di anglicismi, lo fanno con parsimonia), quanto nell’immaginario collettivo di molte comunità nazionali. Il fenomeno è mondiale, ma in Europa è sentito in modo più acuto, perché la sudditanza linguistica all’inglese come lingua franca globale è rafforzata dal suo inevitabile prevalere nella nuova realtà politico-economica dell’Unione Europea, perfino dopo la Brexit. Di conseguenza molti intellettuali, come mai in passato, cominciano a sentir minacciate di marginalizzazione, o addirittura di estinzione, non solo le lingue minoritarie, ma anche le grandi lingue nazionali.
È sorto così, specie in certi settori delle élites culturali, un nuovo atteggiamento nei confronti della lingua e dell’insieme degli usi e dei rapporti interlinguistici: pur dovendo necessariamente fare i conti coll’inglese e non potendo rinunciare agli anglicismi (e nemmeno agli “angloidismi” di moda), emerge in molti ambienti una forma di radicalismo puristico postmoderno che, pur incidendo poco sull’effettivo comportamento linguistico, arriva spesso ad auspicare politiche di tutela linguistica e interventi istituzionali, che in qualche caso vengono pure messi in atto. Tale recente “postpurismo” non è altro che la versione aggiornata di quel sentimento d’avversione verso i forestierismi sempre riemergente nelle varie epoche storiche, ma che anche in passato ha avuto a che fare più con la mentalità e le ideologie che non con la realtà linguistica (Thomas 1991).
Va anche aggiunto, d’altra parte, che l’attuale posizione egemonica dell’inglese, paradossalmente, crea problemi paralleli anche nel mondo anglofono. L’inglese “globale”, infatti, è ormai una lingua basica ben diversa dall’inglese britannico o americano; una lingua per di più in rapida e inarrestabile frammentazione in varietà, generi e miscugli diversi a seconda delle regioni o dei settori in cui viene impiegata: una lingua con la quale anche i madrelingua inglesi son costretti ormai a fare i conti. Si vedano le illuminanti riflessioni che David Crystal va svolgendo da anni (Crystal 1997, 2002 e 2004). Si legge in quest’ultimo saggio:
Teachers of English as a foreign language are finding they must broaden the remit of their activities […] And mother-tongue teachers too are having to adapt, as they find themselves needing to replace a previously exclusive attention to the standard language with an approach which pays respectful attention to regional accents and dialects, both nationally and internationally. But it is not only teaching which is affected. Everyone has to come to terms with the linguistic potential (for good and evil) of the Internet, and to devise appropriate management strategies […] The prominence of English on the world stage, and the role of the Internet in contemporary society, in their different ways both reflect the same process of globalization which has caused such havoc in relation to the planet’s linguistic diversity. There is no doubt that the crisis facing the world’s languages is unprecedented in its scale and urgency, and in the twenty-first century is the main responsibility facing those governments, international organizations, philanthropists, artists and activists who profess to acknowledge the importance of language in their lives (Crystal 2004, 124–125).
Gli insegnanti d’inglese come lingua straniera si ritrovano a dover ampliare il campo delle loro attività […]. E anche gli insegnanti di madrelingua devono adattarsi: se prima la loro attenzione era riservata esclusivamente alla lingua standard, essi devono passare a un approccio che presti rispettosa attenzione agli accenti e ai dialetti regionali, a livello sia nazionale che internazionale. Ma non è solo l’insegnamento a essere condizionato. Ognuno deve venire a patti con il potenziale linguistico (in senso positivo e negativo) di Internet, e ideare strategie di controllo adeguate […]. La preminenza dell’inglese sulla scena mondiale e il ruolo di Internet nella società contemporanea riflettono entrambi, in modi diversi, il medesimo processo di globalizzazione che ha provocato tanti guasti nella diversità linguistica del pianeta. Non c’è dubbio che la crisi in essere fra le lingue mondiali è di una portata e di un’urgenza inedite, e nel nostro secolo essa costituisce la principale responsabilità cui sono chiamati a far fronte quei governi, quelle organizzazioni internazionali, quei filantropi, artisti e attivisti i quali professano di riconoscere l’importanza che il linguaggio ha nella loro vita (Forino 2005, 105–106).
Marazzini, che non ignora questo variegato e assai battagliero schieramento a difesa delle lingue nazionali, è nello stesso tempo consapevole che in Italia il medesimo fronte difensivo è quasi del tutto sguarnito, sia sul piano della discussione teorica, che su quello delle iniziative concrete. Riguardo alla sostituzione degli anglicismi, ad esempio, non c’è molto a cui ricorrere, a parte i lavori di Claudio Giovanardi, Riccardo Gualdo e Alessandra Coco, Inglese-Italiano 1 a 1. Tradurre o non tradurre le parole inglesi? (2008), e di Gabriele Valle, Italiano urgente. 500 anglicismi tradotti in italiano sul modello dello spagnolo (2016). Per la verità è ora scesa in campo anche l’Accademia della Crusca, col gruppo di lavoro Incipit, a cui partecipa lo stesso Marazzini con diversi altri studiosi di valore: un gruppo che si occupa dei neologismi e forestierismi “incipienti”, ovvero di quelli appena emersi nell’uso pubblico, così da fornire in tempo reale (uno degli ultimi casi affrontati a tambur battente è quello dell’espressione ancor fresca revenge porn) proposte alternative ai politici e ai responsabili della comunicazione.
Già nel saggio introduttivo agli atti del convegno tenutosi alla Crusca nel 2015 Marazzini s’interrogava sul senso di tale anomalia e sulle cause dell’indifferenza nei confronti delle interferenze linguistiche forestiere cui si assiste in Italia,
una nazione che non ha mai avuto confidenza con la propria lingua, in cui il consenso nazionalpopolare non è mai esistito, in cui il sentimento della dignità o potenza della nazione è stato sempre debole, e quando si è sviluppato ha ricevuto il marchio infamante del fascismo, che resta difficile da cancellare. A ciò si aggiunge che la linguistica moderna sconsiglia o vieta atteggiamenti interventistici e ha obliterato i pochi casi in cui si è guardato con favore all’intervento. (Marazzini e Petralli 2015, 21-22)
Il ragionamento è ora ripreso nel nuovo volume, dove si formulano ulteriori considerazioni sul predominio dell’angloamericano e, analizzando vari casi e tipologie delle interferenze in atto, si prospettano alcune strategie di difesa. Marazzini parte da una costatazione preliminare: «l’eccesso di anglismi produce un moto di ripulsa in condizioni particolari, cioè in presenza di anglismi privi di senso. Nei casi di importazione di prodotti tecnologici o di cose intelligenti che arrivano con il loro nome inglese, questa reazione non c’è» (p. 55). Ciò gli consente di distinguere gli «anglismi stupidi» da quelli «inevitabili», per i quali «la maggior difficoltà di indicare una traduzione soddisfacente vale come prova che in essi vi è comunque qualche elemento di novità, per cui possono esser presi un po’ più sul serio» (p. 53): un’aggiornata rivisitazione delle vecchie categorie del “lusso” e della “necessità”, che avevano pur esse una loro giustificazione, come certo la hanno quelle della “stupidità” e dell’“intelligenza”, sebbene in questo caso, e specie oggigiorno, non sia facile decidere per l’una o per l’altra.
Tuttavia anche i “prestiti di lusso” (e quelli davvero “stupidi”), che a prima vista sembrano superflui, banali o sgraziati non si possono cancellare con un colpo di spugna, perché, per quanto sia snobistico o ristretto il loro impiego, per quanto siano risibili i criteri che li giustificano e oscure le motivazioni dell’interferenza, se sono entrati nell’uso, qualcosa che li sostiene c’è sempre, una loro ragione ce l’hanno. E difatti, alla fin fine, risultano di più e appaiono più vivaci questi prestiti inutili (tanto che ce li rammentiamo meglio) di quelli necessari.
Si prenda ad esempio endorsement, uno dei forestierismi ritenuti sostituibili con corrispettivi italiani: nel caso particolare con termini come «adesione» e «sostegno» (p. 53). Per la verità endorsement era presente in italiano fin dagli anni sessanta del secolo scorso senza dar fastidio a nessuno, perché allora era limitato al gergo finanziario dove indicava la “girata” degli assegni; oggi però balza agli occhi di tutti il suo impiego con un altro significato e in un ambito diverso, quello del giornalismo politico. A guardar bene si scopre che il nuovo episodio d’interferenza non nasce da un casuale e vano capriccio esterofilo: almeno dagli anni ottanta il termine era stato occasionalmente usato nei giornali, per lo più in riferimento alla politica statunitense, dove esso indica qualcosa di specifico: il sostegno esplicito e talora eclatante e imprevisto (di solito prima di un voto o decisione importante) a un partito o a un uomo politico, da parte di giornali o personaggi influenti. Poi l’americanismo è stato applicato anche alle faccende politiche di casa nostra per designare qualcosa di simile: un caso che fece scalpore, ma che non era il primo, fu l’endorsement concesso alla coalizione dell’Ulivo dal direttore del «Corriere della sera» Paolo Mieli nel marzo 2006, nell’imminenza delle elezioni politiche. Se l’americanismo ha potuto attecchire è dipeso, oltre che dall’attrattiva della forma forestiera che rende immediatamente “visibile” endorsement come voce-bandiera, soprattutto dalla sua semantica univoca e fresca, riferita con precisione a una determinata mossa dell’attuale gioco politico o, per esser precisi, politico-mediatico; mentre i corrispettivi italiani quali «avallo», «adesione», «sostegno», «schieramento», secondo quanto propone Valle nel suo Italiano urgente (Valle 2016), si portano dietro l’alone generico dei loro consueti significati e quindi risultano piuttosto sbiaditi se usati nel nuovo contesto. Va aggiunto che in italiano endorsement, accanto al significato di «appoggio dichiarato esplicitamente», ne ha ben presto sviluppato un secondo: «dichiarazione di appoggio», tanto che è invalsa nell’uso l’espressione «fare un endorsement» (che non sarebbe possibile, perché avrebbe un altro senso, con voci come adesione, aiuto, appoggio, approvazione e simili). Potrà dispiacere ad alcuni, ma, stando così le cose, si può solo sperare che l’americanismo resti circoscritto al gergo politico-giornalistico.
Tuttavia Marazzini non si limita a elencare singoli casi di cedimento all’influenza dell’inglese, come questo di endorsement, ma cerca di individuare quelle che sono le profonde cause storiche e sociali di una tale carenza di anticorpi difensivi:
l’Italia è tendenzialmente un Paese con un sentimento di identità molto debole. Gli italiani sono rimasti al tempo del campanile. Non è solamente colpa del carattere degli italiani, poco abituati al senso civico e agli obiettivi comuni che non siano partite di calcio, ma è soprattutto frutto avvelenato ed eredità nociva di una storia politica molto molto debole, ogni volta che ha voluto avvalersi della forza (p. 47).
Più in generale egli lamenta il disinteresse delle classi superiori e l’atteggiamento di «scarsa fiducia che molti italiani hanno nella loro lingua, e spesso questi italiani privi di fiducia sono proprio quelli che hanno più responsabilità della conduzione della vita sociale» (pp. 56-57).
A questo proposito Marazzini si sofferma su alcune decisioni, prese di recente ad alto livello, che rivelano la volontà di «marginalizzare la lingua nazionale estromettendola da una serie di funzioni importanti», a cominciare da quelle che essa dovrebbe ricoprire nell’insegnamento scolastico e universitario. Viene, ad esempio, ben ricostruita nei particolari la tormentata vicenda dei corsi specialistici in inglese che nel 2012 il Politecnico di Milano aveva tentato di avviare e sui quali l’Accademia della Crusca scese subito in lizza con un convegno e un instant book: Fuori l’italiano dall’università? Inglese, internazionalizzazione, politica linguistica, a cura di Nicoletta Maraschio e Domenico De Martino (2013). Tale vicenda, dopo un ricorso giudiziario al Tar promosso dai docenti che avversavano la decisione del Politecnico, un controricorso di quest’ultimo e del Ministero dell’Istruzione al Consiglio di Stato, che da parte sua sollevò questione di costituzionalità, e dunque dopo una sentenza della Corte costituzionale, si è conclusa nel gennaio 2018 con la sentenza definitiva del Consiglio di Stato che dà ragione agli avversari dell’inglese. Per Marazzini le due sentenze, e in particolare quella della Consulta, possono essere l’occasione
per un grande percorso che aiuti a elaborare una politica linguistica moderna, capace di limitare in nome di principi comuni l’autonomia sconsiderata di atenei travolti non dall’ansia dell’internazionalizzazione (come vogliono farci credere), ma massacrati e ridotti ai minimi termini da defatiganti e artificiose gare di concorrenza pseudo-aziendale in cui si consumano le poche risorse che restano (p. 73)
Rivelano il medesimo atteggiamento di avversione all’italiano, secondo Marazzini, anche alcune decisioni del Ministero dell’Istruzione, come l’obbligatorietà dell’uso dell’inglese nelle domande del 2017 per il finanziamento di ricerche d’interesse nazionale; o come l’introduzione nelle scuole secondarie dell’insegnamento di alcune materie in una lingua straniera, il cosiddetto CLIL (Content and Language Integrated Learning). Di fronte alle prevedibili difficoltà provocate da un tale provvedimento («l’effetto è una didattica scadente, che non giova né alla conoscenza della lingua straniera, né alla conoscenza della disciplina che si vuole insegnare»), diversi istituti scolastici pubblici e privati hanno adottato i programmi offerti da Cambridge International:
Si tratta in sostanza di abbandonare completamente l’impostazione dei programmi così come è prevista dalla normativa italiana per una serie di materie, e di studiarle in modo diverso, così come fanno gli studenti inglesi, con un metodo e un programma diversi e sulla base di libri di testo non italiani, ma britannici, ovviamente in lingua inglese (p. 101).
Un ulteriore passo, per il presidente della Crusca, verso la svalutazione della lingua materna e il misconoscimento della sua funzione per la cultura nazionale.
La terza parte del volume, Finché c’è lingua c’è speranza, è incentrata sulla norma linguistica, com’è emersa dalla riflessione dei grammatici e degli studiosi del passato e come viene oggi variamente declinata o, più spesso, disattesa. Anche qui non mancano spunti originali, come ad esempio l’idea di una “norma mobile”:
Nessuno oggi può aspirare a un’omogeneità come quella che ingenuamente qualcuno voleva raggiungere, non molto tempo fa, durante il governo Berlusconi, attraverso la proposta (poi finita in nulla) di istituire un Consiglio superiore della lingua italiana […]. Non è detto però che la diffusione di una norma vada lasciata al caso, o sia affidata al predominio dei mezzi di comunicazione di massa, o delegata solo a custodi pedanti come i puristi fanatici, o a custodi occulti, come il correttore grammaticale del programma di scrittura Word. Una lunga tradizione italiana ha elaborato regole largamente condivise, accordando piena fiducia agli scriventi colti, gli scriventi “che contavano”. […] l’uso, il nostro, così come quello degli scrittori antichi, non sarà mai rigorosamente unitario e univoco. Si tratta di aspirare alla norma, più che applicare una norma rigida (pp. 115-116).
Particolare attenzione è data alla disaffezione dei giovani nei confronti del buon uso, anche ai livelli più alti: «Un professore universitario […] è costretto talora a intervenire nelle vesti di maestro elementare. […] Uno studente che non sa scrivere in italiano non viene allontanato, anche perché le Università vengono sistematicamente poste sotto accusa nel momento in cui perdono studenti» (p. 121).
E poi al pessimo esempio fornito dai mezzi radiotelevisivi, ben documentato con una serie di strafalcioni (tuttavia indicativi di tendenze emergenti), raccolti di prima mano ascoltando la radio:
Sciatteria della scrittura nella scuola, sciatteria nella comunicazione di alcuni giornalisti. L’errore non fa più paura, non desta alcuna preoccupazione, anzi ci si può cullare tranquillamente nell’italiano deteriore, forse nella speranza di essere i primi a introdurre una novità che farà strada. La verità è che gli italiani non conoscono l’italiano. Lo parlano male, ma molto spesso non lo capiscono (p. 127).
Nel costatare una situazione così deludente, paiono avverarsi le fosche profezie annunciate negli anni sessanta da intellettuali come Pier Paolo Pasolini che parlava di un’epoca «in cui l’italiano sta per finire»; o come Italo Calvino il quale, rilevando il dilagare dell’“antilingua”, poté scrivere che «l’italiano scomparirà dalla carta linguistica d’Europa». Proprio per scongiurare tali nerissimi baratri Marazzini ritiene «che la battaglia della lingua e per la lingua sia una questione di civiltà» (p. 137). Occorre dunque per lui respingere le tentazioni sia di chi esalta l’inglese sia di chi rimpiange il dialetto: «La formula “inglese più dialetto”, subdola, accarezzata da alcuni nemici dell’italiano, non ci affascina minimamente, anzi la riteniamo una forma di suicidio» (p. 138). E ugualmente è necessario contrastare le «sirene tentatrici che ci fanno credere che non esista più alcuna norma linguistica davvero stringente, ma che l’unico scopo della comunicazione sia coltivare l’espressività e la naturalezza», mentre «è bene puntare su modelli alti e di qualità» (p. 139).
Tuttavia anche su questo versante il contesto che è andato determinandosi nel corso del Novecento non è confortante, perché «la funzione degli scrittori, di far da guida alla lingua italiana, svolta da Dante fino a D’Annunzio, probabilmente oggi è finita». E anche per il futuro non sembra intravedersi un cambio di prospettiva:
Non credo sia probabile che gli scrittori riprendano la funzione di guida civile e linguistica della nazione; è molto difficile che ciò avvenga, e purtroppo anche gli scienziati difficilmente potranno svolgere questo ruolo, vista la loro determinazione nell’abbandonare la lingua italiana. Probabilmente uno dei motivi di crisi della lingua sta anche in questa mancanza di modelli “alti” a cui fare riferimento (pp. 158-159).
Così all’italiano non resta che far tesoro dell’esempio delle altre lingue europee, ricercando la modernità senza uscire dai binari della norma: «La nostra proposta è quella di una lingua libera, sì, ma trattenuta saldamente al guinzaglio, per quanto lungo, in modo che non vada dove vuole, o dove la porterebbero i parlanti più sprovveduti, o più innovativi, o più libertari» (p. 159).
In questa direzione s’incammina l’ultimo capitolo, costituito da una serie di brevi paragrafi su singoli punti critici dell’italiano, dalla grafia alla sintassi, dove si cerca di mostrare come il debordante uso contemporaneo si possa, con prudenza e ragionevolezza, “tenere al guinzaglio” della grammatica. Al suo interno è degna di nota l’ampia sezione dedicata alle questioni di “genere”, a cominciare dai nomi delle professioni oggi abbracciate anche dalle donne: un nodo purtroppo sempre più aggrovigliato dall’ideologia femminista e dal politicamente corretto e per il quale pare che non si siano ancora trovati dei guinzagli adatti. Un nodo che di recente, e più volte, anche la Crusca ha dovuto maneggiare con cautela (si veda, fra le altre cose, il ben documentato volumetto «Quasi una rivoluzione». I femminili di professioni e cariche in Italia e all’estero, 2017).
Merita accennare ancora alle severe e poco rassicuranti conclusioni del volume. Marazzini, infatti, passando in rassegna le varie teorie sulla morte di una lingua, finisce per soffermarsi sul noto saggio di uno dei maestri della scuola torinese, Benvenuto Terracini, e in particolare sull’idea che una lingua scompare o muta radicalmente quando chi la parla, di fronte a forme nuove, si ritira in modo subitaneo dalle forme consuete:
Questo concetto della morte di una lingua è il primo, tra quelli elencati, a inquietarmi davvero, perché purtroppo si applica perfettamente al rifiuto dell’italiano da parte del ceto dirigente, alla reazione di rigetto che abbiamo descritto più volte […]. Certamente, per fortuna, il fenomeno è ben lontano dall’essersi compiuto, ma è altrettanto vero che il ritiro violento di fronte a forme nuove che arrivano dal mondo anglosassone si sta manifestando in maniera drammatica (p. 237).
Se molte delle considerazioni svolte nel volume, e qui accennate sommariamente, sono condivisibili, una tale conclusione appare più dovuta alla necessità di richiamare l’attenzione sui problemi della lingua contemporanea, che a un giudizio spassionato e obiettivo. La presunta “debolezza” dell’italiano, una debolezza secolare e quasi congenita, fa parte tuttavia della sua costituzione e non è di per sé un fattore negativo. E gli italiani, anche oggi come nel passato, non son privi di senso civico e non guardano solo al loro campanile, ma riescono a intendersi bene e a progredire, e talora a far miracoli, anche con quella loro pur debolissima lingua comune. Il loro apparente lassismo linguistico non sempre è segno d’indifferenza o disamore, ma forse nasce da una più antica e profonda “filosofia” della lingua. Perché non si può dimenticare che il ribollire dei dialetti, le interferenze delle lingue straniere, le infrazioni della norma hanno sempre accompagnato e pungolato il cammino dell’italiano, e anche quando tali elementi dirompenti sembravano strabordare, i parlanti non si son mai persi d’animo e hanno saputo regolarli con naturalezza per il meglio, ovvero per la vita della lingua.
Riferimenti bibliografici
Cassin 2016: Barbara Cassin, Éloge de la traduction. Compliquer l’universel, Paris, Fayard
Crystal 1997: David Crystal, English as a Global Language, Cambridge, Cambridge University Press
Crystal 2002: David Crystal, Language Death, Cambridge, Cambridge University Press
Forino 2005: David Crystal, La rivoluzione delle lingue, Bologna, il Mulino (traduzione di Biagio Forino da David Crystal, The Language Revolution, Cambridge, Polity, 2004)
Giovanardi, Gualdo e Coco 2008; Claudio Giovanardi, Riccardo Gualdo e Alessandra Coco, Inglese-Italiano 1 a 1. Tradurre o non tradurre le parole inglesi?, Lecce, Manni
Gomez Gane 2017: Yorick Gomez Cane, Quasi una rivoluzione. I femminili di professioni e cariche in Italia e all’estero, Firenze, Accademia della Crusca
Hagège 2012 : Claude Hagège, Contre la pensée unique, Parigi, Jacob
Hagège 2016: Claude Hagège, Combat pour le français. Au nom de la diversité des langues et des cultures, Parigi, Jacob
Junker 2019: Gerhard H. Junker et al., Der Anglizismen-Index, Paderborn, IFB
Maraschio e De Martino 2013: Nicoletta Maraschio e Domenico De Martino (a cura di), Fuori l’italiano dall’università? Inglese, internazionalizzazione, politica linguistica, Roma e Bari, Laterza
Marazzini e Petralli 2015: Claudio Marazzini e Alessio Petralli (a cura di), La lingua italiana e le lingue romanze di fronte agli anglicismi, Firenze, goWare e Accademia della Crusca
Thomas 1991: George Thomas, Linguistic Purism, Londra e New York, Longman
Valle 2016: Gabriele Valle, Italiano urgente. 500 anglicismi tradotti in italiano sul modello dello spagnolo, Trento, Reverdito