DIEGO VALERI, ORESTE DEL BUONO E NATALIA GINZBURG
di Anna Battaglia
Il vient de recevoir la croix d’honneur è la frase finale di Madame Bovary (MB) e costituisce un capoverso a sé. La perifrastica indica un’azione che si è appena compiuta, ma nessuno dei tre autori traduttori ha avuto il coraggio di rispettarne la lettera e rischiare lo spaesamento temporale che essa comporta: «Ha appena ricevuto la croce d’onore». È la voce di chi conclude ancora dal suo interno la vicenda narrata e parla da testimone che si trova lì, da chi è direttamente informato di un fatto appena accaduto. La soluzione cui tutti e tre ricorrono è l’avverbio «recentemente» e le combinazioni variano minimamente: «Ha avuto recentemente…» Diego Valeri (1936; da ora in poi DV); «Recentemente ha ricevuto…» Oreste del Buono (1965; da ora in poi OdB); «Recentemente ha avuto…» Natalia Ginsburg (1983; da ora in poi NG). La maggior distanza suggerita dall’avverbio «recentemente» è di ordine cronologico e di prospettiva, e neutralizza la tragicità grottesca della scelta di Flaubert. Soprattutto non riconosce la circolarità che lo collega all’inizio della narrazione e alle sue incongruenze narrative. Nel primo capitolo un narratore cui appartiene il tempo narrato, dice «noi» riferito a sé e ai compagni della classe dove entra Charles Bovary, ma poco dopo diventa un narratore onnisciente, esterno, che sa tutto della vita del protagonista. Dopo un passaggio ulteriore al «noi», la terza persona si stabilizza con spostamenti di focalizzazione narrativa, sapientemente calibrati dall’autore, per tutto il romanzo. Il presente della conclusione, con tutta la forza di una «referenzialità allucinatoria» – per usare la definizione di Jonathan Culler (2007) – ricolloca “un” narratore all’interno della storia nel momento della sua chiusura.
Questo esordio su alcune traduzioni italiane del testo di Flaubert potrebbe sembrare una deriva micrologica, ma in realtà ci aiuta ad entrare nel cuore del problema.
Prima di affrontarlo, qualche parola sul perché della scelta di questi traduttori nel lungo elenco di coloro che con MB si sono cimentati. Innanzi tutto perché sono tre scrittori noti e di epoche relativamente diverse, in grado di rappresentare anche concezioni differenti della traduzione stessa. Si può prevedere che per la loro attività di scrittori, di pubblicisti, per il loro operare nel mondo dell’editoria o dell’insegnamento, si presentino come traduttori consapevoli, non ingenui, e allo stesso tempo esposti al rischio di un’eccessiva creatività. Un breve profilo biografico li può forse definire meglio agli occhi del lettore. Diego Valeri (Piove di Sacco 1887 – Roma 1976), dopo essere stato professore di lettere nei licei, nel dopoguerra, quando il suo antifascismo e il suo impegno politico non costituiranno più un ostacolo per la carriera, diventa ordinario di letteratura francese all’università di Padova. Oltre ad essere dunque un celebre italianista e francesista, è un poeta noto e riconosciuto non solo in Italia. Oreste del Buono (Poggio di Marciana 1923 – Milano 2003) è scrittore, giornalista, critico letterario, traduttore alquanto fertile dal francese e dall’inglese, pubblica narrativa e collabora con importanti case editrici, promuovendo la cultura cosiddetta popolare. È tra in fondatori del periodico di fumetti «Linus», e sui fumetti scrive, così come scrive di cinema e di calcio, è autore e conduttore di trasmissioni televisive, tiene rubriche su noti quotidiani. Natalia Levi Ginzburg (Palermo 1916 – Roma 1991) di famiglia torinese ebrea colta e antifascista, sposa Leone Ginzburg, grande intellettuale e attivo antifascista che sarà ucciso dai tedeschi a Roma durante la Resistenza. Collabora con la casa editrice Einaudi e incomincia fin da giovanissima la sua attività narrativa in cui trova successo di pubblico e molti riconoscimenti. Nel corso della sua vita si impegna costantemente nella politica, fino a essere eletta al parlamento come indipendente nelle liste del partito comunista per una legislatura. Collabora con la traduzione del primo volume, La strada di Swann, alla prima traduzione italiana della Recherche du temps perdu, diretta da Paolo Serini per l’Einaudi.
La traduzione di MB si presenta come impresa particolarmente complessa perché mai come nel caso di Flaubert si può parlare di quella necessità della scrittura di scavare nella propria una lingua straniera, di far subire alla langue (non alla parole) un trattamento personale, di creare insomma nella propria lingua una lingua straniera (Deleuze 1993, e Philippe et Piat 2009). In Flaubert si realizza pienamente il bisogno di sfruttare al massimo quell’energia mai esaurita della lingua che la lavora sotterraneamente come suo principio originario mai spento, in grado di invertirne anche le tendenze normative (Philippe 2006).
Flaubert ha così violentato la propria lingua per farle esprimere ciò che essa non era in grado di esprimere, da indurre alcuni lettori a chiedersi: Mais Flaubert savait-il écrire?, Ma Flaubert sapeva scrivere? Interrogativo che innescherà negli anni del primo dopoguerra una lunga e significativa querelle. Marcel Proust vi prende parte con l’articolo uscito nel gennaio del 1920 sulla «Nouvelle Revue Française», À propos du style de Flaubert, in risposta a Albert Thibaudet, il grande critico dello stesso periodico, secondo il quale Flaubert n’est pas un grand écrivain de race […]; la pleine maîtrise verbale ne lui était pas donnée dans sa nature même (citato in Proust 1987, 155: tradotto con «Flaubert non è un grande scrittore di razza […]; la piena perfezione linguistica non gli era concessa per natura» in Proust 1984, 762). Proust si dichiara stupefatto
de voir traiter de peu doué pour écrire, un homme qui par l’usage entièrement nouveau et personnel qu’il a fait du passé défini, du passé indéfini, du participe présent, de certains pronoms et de certaines prépositions, a renouvelé presque autant notre vision des choses que Kant, avec ses Catégories, les théories de la Connaissance et de la Réalité du monde extérieur. […] Et il n’est pas possible à quiconque est un jour monté sur ce grand Trottoir roulant que sont les pages de Flaubert, au défilement continu, monotone, morne, indéfini, de méconnaître qu’elles sont sans précédent dans la littérature. Laissons de côté, je ne dis même pas les inadvertances, mais la correction grammatical; c’est une qualité utile mais négative (un bon élève, chargé de relire les épreuves de Flaubert, eût été capable d’en effacer bien des fautes). En tout cas il y a une beauté grammaticale, […] qui n’a rien a voir avec la correction (Proust 1921, ripubblicato in Proust 1987, 63-65).
Cioè
di veder trattato da scrittore poco dotato per scrivere un uomo che, per l’uso affatto nuovo e personale che fece del passato remoto, del passato prossimo, del participio presente, di certi pronomi e di certe preposizioni, rinnovò la nostra visione delle cose quasi quanto Kant, con la sua dottrina delle categorie e della realtà del mondo esterno. […] E chiunque sia salito una volta su quel grande «piano mobile» che è l’opera di Flaubert, dal movimento continuo, monotono, opaco, indefinito, non può non riconoscere che essa è letterariamente senza precedenti. Lasciamo da parte, non dico le semplici inavvertenze, ma la correttezza grammaticale: qualità utile, ma negativa (un bravo scolaro, incaricato di rileggere le bozze di Flaubert, vi avrebbe eliminato molti errori). In ogni caso, c’è una bellezza grammaticale […] che nulla ha a che fare con la semplice correttezza (Proust 1984, 538-540).
Il valore inedito della prosa di Flaubert, l’uso distorto che sa fare della sua lingua, quella ricerca accanita di un flusso ritmico delle frasi, nella convinzione che, come per la poesia, anche nella prosa non ci sia opposizione tra fondo e forma, hanno continuato ad essere al centro degli studi a lui consacrati.
Barthes (1982, 135-6) afferma che la sofferenza della scrittura in Flaubert assume una dimensione del tutto diversa rispetto a quella che qualunque scrittore aveva da sempre provato: le style, pour Flaubert, c’est la douleur absolue, la douleur infinie, la douleur inutile. Un continuo e assillante fare, disfare, correggere, il circolo vizioso di Sisifo: c’est l’atroce, seule récompense qu’il reçoive pour le sacrifice de sa vie (cioè «è l’atroce, unica ricompensa che egli riceva per il sacrificio della sua vita» – Barthes 1982, 133). E l’aggettivo atroce viene da una lettera di Flaubert del 1846: On n’arrive au style qu’avec un labeur atroce, avec une opiniâtreté fanatique et dévouée («Lo stile si ottiene solo con un lavoro atroce, con un accanimento fanatico e una totale dedizione», citata in Barthes 1982, 133).
Il lavoro della scrittura è, secondo le parole stesse di Flaubert, l’irrévocable adieu à la vie per una séquestration impitoyable, una inesorabile reclusione, paragonabile a quella di Proust, suggerisce ancora Barthes, se pur con finalità diverse: Proust si rinchiude perché ha molto da dire, Flaubert perché ha infiniment à corriger, perché ha moltissimo da correggere.
La corrispondenza di Flaubert, come testimonianza di un sacrificio totale e ostinato, di una scrittura che è allo stesso tempo urgenza e impossibilità, costituisce secondo Gerard Genette (1983), un testo fondatore della letteratura moderna, della letteratura in senso radicale, senza riserve, senza rimedio, come oggi la si intende. È infatti da questa sorta di sfondo costante sotteso anno dopo anno al lavoro della sua creazione, che emerge il paradosso di una scrittura come vocazione proibita nel suo stesso farsi.
Il lavoro sui manoscritti è altrettanto indicativo. Rileviamo semplicemente, servendoci ancora di Barthes e senza darne alcuna dimostrazione, l’assillo che le correzioni e le modificazioni di Flaubert dimostrano per le articolazioni del discorso, il concatenamento delle idee, il flusso, il ritmo ottimale del corso della parola, le transizioni, il suivi, come Flaubert stesso lo definisce (Barthes 1967, 141). E passando all’aneddotico non possiamo non citare il mitico gueuloir, il luogo dove lui sperimentava ad alta voce l’effetto delle frasi, anche se Proust dichiara di amare ces lourd matériaux que la phrase de Flaubert soulève et laisse retomber avec le bruit intermittent d’un excavateur («quei pesanti materiali che la frase di Flaubert solleva e lascia poi cadere col rumore intermittente di una macchina scavatrice»), queste frasi lanciate dal suo gueuloir hanno il rythme régulier de ces machines qui servent à faire le déblais (Proust 1921 in Proust 1987, 77: «il ritmo regolare delle macchine usate nei lavori di sterro», secondo la traduzione in Proust 1984, 546).
Dunque MB è frutto di tutta questa sofferenza, di questa ricerca della frase che deve essere il corpo di ciò che significa e che per di più rispetta una concezione estetica del tutto personale. Il traduttore ne è consapevole? E un traduttore che a sua volta conosce, se pur in un grado minore, il tormento della creazione, come si comporta di fronte a quanto sta dietro ogni riga e ogni parola? Rispondere è un intento irraggiungibile. Ci limiteremo a fare qualche confronto testuale sfruttando un solo parametro di esame, per poi dare qualche occorrenza più sporadica di altre caratterizzazioni stilistiche.
Il dispositivo linguistico forse più caratterizzante della scrittura di Flaubert, e di cui egli per primo fa un uso massiccio e inventivo, è il discorso indiretto libero, quella possibilità della scrittura di far parlare enunciatori diversi da chi parla, senza cedere loro la parola.
La letteratura romanzesca basata fino a un certo punto su un narratore dominante che si fa carico lui stesso di far procedere i vari personaggi nell’intrigo che con loro e intorno a loro si costruisce, evolve verso una forma narrativa in cui i personaggi diventano soggettività distinte, come persone che si manifestano con un loro linguaggio e un loro pensiero. All’interno di questa interiorizzazione della narrazione nei personaggi, Flaubert, si sa, occupa un ruolo fondamentale. Una delle tecniche che gli consentono di costruire questa rete di soggettività altre rispetto a quella del narratore, è appunto l’indiretto libero, in quanto forma obliqua del discorso riportato che fruisce dei vantaggi delle altre due, trattenendo le tracce delle parole o del pensiero di chi le ha enunciate, come nel discorso diretto, e il punto di vista di chi le inscrive nel proprio tessuto verbale, come nel discorso indiretto, sfruttando al massimo l’ambiguità tra discorso interiore e discorso pronunciato e tra narratore e personaggio. I riferimenti di persone e tempi del discorso indiretto libero sono allineati su un unico discorso, senza alcuna subordinazione sintattica, cosicché le modalità di enunciazione e le marche del discorso inglobato possono essere mantenute e confuse con il discorso che le riporta (Philippe et Piat 2009).
La nozione di discorso indiretto libero che ci sembra più operativa per esaminarne gli effetti in MB, è quella più ampia. Tra coloro che lo intendono come procedimento grammaticale e dunque identificabile e circoscrivibile solo grazie a precise scelte sintattiche di tempi e di punti di riferimento enunciativi, e coloro che individuano nel discorso indiretto libero un fenomeno testuale, un effetto di polifonia generalizzata che all’interno di un continuum di voci e di punti di vista conferisce tonalità diverse e eterogenee ai discorsi, noi scegliamo quest’ultima prospettiva, emanante soprattutto da Ducrot (1981 e 1984). Narratore e personaggi integrano in una continuità testuale le loro voci, coltivando l’ambiguità di attribuzione di ciò che è “stato detto” o pensato. Anche se isolato e individuato solo a partire dalla fine dell’Ottocento (Philippe 2002, 67-84), il dispositivo è presente da secoli nella letteratura. L’uso che ne fa Flaubert è rivoluzionario per qualità e quantità.
Léon, à pas sérieux, marchait auprès des murs. Jamais la vie ne lui avait paru si bonne. Elle allait venir tout à l’heure, charmante, agitée, épiant derrière elle les regards qui la suivaient, – et avec sa robe à volants, son lorgnon d’or, ses bottines minces, dans toutes sortes d’élégances dont il n’avait pas goûté, et dans l’ineffable séduction de la vertu qui succombe. L’église, comme un boudoir gigantesque, se disposait autour d’elle; les voûtes s’inclinaient pour recueillir dans l’ombre la confession de son amour; les vitraux resplendissaient pour illuminer son visage, et les encensoirs allaient brûler pour qu’elle apparût comme un ange, dans la fumée des parfums.
[…] Le suisse, à l’écart, s’indignait intérieurement contre cet individu, qui se permettait d’admirer seul la cathédrale. Il lui semblait se conduire d’une façon monstrueuse, le voler en quelque sorte, et presque commettre un sacrilège.
Mais un froufrou de soie sur les dalles, la bordure d’un chapeau, un camail noir… C’était elle ! Léon se leva et courut à sa rencontre.
Emma était pâle. Elle marchait vite (Flaubert 1857, Partie III, 1, pp. 223-4 dell’edizione da cui si cita: da ora in poi si daranno direttamente numero romano, numero arabo e pagine).
Il brano si riferisce all’incontro di Léon e Emma nella cattedrale di Rouen, dove si sono dati appuntamento, e dove in realtà Emma va con l’intenzione, maturata nelle ore successive alla decisione, di consegnargli una lettera di rinuncia a riallacciare una relazione con lui. Il colpo di genio di Flaubert è quello di aver immunizzato ogni rischio di smanceria romantica con la sovrapposizione – comica – del punto di vista e della voce, silenziosa e no, del suisse, il guardiano della cattedrale, che a tutti i costi vorrà far visitare loro la cattedrale, inseguendoli con insistenza, e che Emma stessa userà ad un certo punto come presenza dissuasiva nei confronti di Léon. La narrazione sdoppia il narratore alternativamente sul guardiano e su Léon, tutto concentrato nella sua attesa. Si tratta in questo caso di parole pensate, non pronunciate. La congiunzione mais, come capita spesso in Flaubert, introduce un cambiamento nel gioco delle prospettive e sul discorso indiretto libero. L’effetto comico del risentimento del guardiano nei confronti di Léon, si articola improvvisamente su una sensazione, vera questa volta, probabilmente di Léon, ma non priva di ambiguità, che riallaccia con il discorso interiore dell’immaginazione amorosa. Riproduco per intero la traduzione di Valeri:
Leone camminava lungo i muri, con gravità. La vita non gli era mai parsa così bella. Emma sarebbe giunta tra poco, deliziosa, agitata, volgendosi indietro a spiare se qualche sguardo la seguisse, col suo vestito a volani, con l’occhialetto d’oro, con le scarpine sottili, adorna di tutte le varie eleganze, di cui egli non aveva goduto mai, e dell’ineffabile seduzione della virtù che s’arrende. Ecco: la chiesa, pur così vasta, le si chiudeva intorno come un salottino intimo; le volte s’inclinavano per raccogliere nell’ombra la sua confessione d’amore; le vetrate splendevano per illuminare il suo viso; gli incensieri arderebbero perché ella apparisse come un angelo, tra la nube dei profumi.
[…] Il custode, in disparte, s’indignava tra sé e sé contro quell’individuo che si permetteva d’ammirar da solo la cattedrale. Gli pareva si comportasse in un modo mostruoso, defraudandolo di una cosa sua; gli pareva quasi commettesse un sacrilegio.
Ma un fruscio di seta sul pavimento, l’orlo d’un cappello, una mantiglia nera… Era lei! Leone s’alzò e le corse incontro.
Era pallida, camminava a passi rapidi (DV 291-292).
Jamais la vie ne lui avait paru si bonne si trasforma in «La vita non gli era mai parsa così bella», togliendo l’intensità della dislocazione del punto di vista di Léon e spostandolo più sul narratore. Gli altri due traduttori mantengono l’ordine dell’originale. Épiant derrière elle les regards qui la suivaient si complica in Valeri con l’aggiunta di un’azione implicita nel testo: «volgendosi indietro a spiare se qualche sguardo la seguisse». Una precisazione che annulla l’ellissi e rallenta la percezione immaginata.
L’aggiunta di «Ecco» per introdurre la trasformazione della chiesa in boudoir, soprattutto la concessiva gratuita per gigantesque, lo spostamento del paragone, articolano la frase con una sintassi inventata neutralizzando la tonalità più scorrevole di un’esaltazione interiore, resa dall’imperfetto. Forse l’avverbio che annuncia ha il compito di attenuarne l’effetto.
Del Buono altera completamente la descrizione prodotta dal desiderio; è la voce di un narratore che racconta in anticipo una scena, Léon sembra assente:
Lei stava per arrivare, affascinante, inquieta, smaniosa di spiare alle proprie spalle se qualcuno non la seguisse; avrebbe portato la veste a volani, l’occhialino d’oro, gli scarpini affilati, sarebbe stata piena dell’eleganza che lui non aveva mai goduto, dell’incanto della virtù in procinto di soccombere (OdB 196; il corsivo è mio).
L’aggettivo smaniosa, per appesantire anche qui come in Valeri una sensazione immaginata e fuggente, non ci sembra affatto pertinente con il personaggio di Emma, soprattutto perché qui essa è fantasticata da Léon. Affilati è forse una svista, e sembrerebbe alludere a un erotismo qui assolutamente inesistente, né ci sembrano efficaci i determinativi al posto dei possessivi, scelta fatta anche da Ginzburg: Léon non può che riferirsi all’abito visto il giorno precedente o ai ricordi di abbigliamento del passato. Infatti c’è l’attesa di un’eleganza mai sperimentata.
Del resto anche la frase «piena […] dell’incanto della virtù in procinto di soccombere» ci sembra una traduzione incoerente: le due coordinate introdotte da dans uniscono cose apparentemente disparate come i segni di eleganza e l’ineffabile seduzione della virtù che soccombe, che risulta possibile senza alcuna forzatura in italiano, così come la propongono infatti Valeri e Ginzburg. Inoltre la scelta tra aggettivo e sostantivo astratto in Flaubert non ha nulla di casuale, anzi Flaubert cerca perlopiù di evitare questi modelli che all’epoca godono di favori eccessivi. Il problema sta nella preposizione dans introduttiva delle due proposizioni, più difficile da rendere in italiano, certo; ma una simmetria analoga che non implichi il «sarebbe stata piena» di Del Buono è per esempio quella di Valeri malgrado il discutibile adorna non consona alla voce sottesa di Léon.
Per quanto è della chiesa-boudoir, la soluzione di Del Buono ci sembra anch’essa opinabile: «La chiesa si raccoglieva tutt’intorno a lei come un salotto, le volte si abbassavano per custodire nell’ombra la confessione del suo amore…». «Raccogliere» non ha nulla a che vedere con disposer, né «custodire» con recueillir. Siamo all’interno di una scena desiderata e che non può essere rappresentata come avvenuta. Il luogo si dispone a ricevere una confessione d’amore che non è ancora arrivata e che peraltro non arriverà che più tardi, in un altro luogo e che non ci viene narrata, ma solo lasciata intuire.
Di Ginzburg, decisamente la più attenta a rispettare l’originale, anche nella punteggiatura, vorrei esaminare solo alcuni passaggi: «intenta a spiare dietro di sé gli sguardi che la seguivano, – con la sua veste a volanti, l’occhialino d’oro, gli stivaletti sottili, tutte quelle svariate eleganze che egli non aveva mai assaporato, e nell’ineffabile seduzione della virtù che soccombe» (NG 268). Ginzburg non cerca una simmetria tra le due frasi introdotte da dans, ma mantiene «l’ineffabile seduzione». In compenso neanche lei contempla la possibilità di tradurre «spiando dietro di sé gli sguardi che la seguivano», preferendo l’eliminazione dell’ellissi e del susseguirsi delle frasi.
La seconda parte del brano introduce di nuovo, dopo Léon, il custode e la narrazione si sposta su di lui, accompagnata dalla voce ironica del narratore. Siamo di fronte a un pensiero “narrativizzato” e alcuni segmenti possono essere ascritti al discorso indiretto libero e attribuiti dunque al guardiano, come certe scelte lessicali (individu; se permettait), e tutta questa parte: Il lui semblait se conduire d’une façon monstrueuse, le voler en quelque sorte, et presque commettre un sacrilège. È il pensiero di qualcuno che cerca di chiarire a se stesso i motivi della propria indignazione.
Valeri non resiste alla tentazione di modificare la sintassi con un gerundio per articolare il senso delle azioni, senza porre attenzione al tono del racconto di parole (pensate) trasposto: la lista dei tre infiniti retti da il pensait, con il crescendo del pensiero del personaggio, viene eliminata e sostituita da un’alternanza sintattica che si suppone forse più elegante, con tanto di ripetizione del verbo reggente per una coordinata e una subordinata inventate: «Gli pareva si comportasse in un modo mostruoso, defraudandolo di una cosa sua; gli pareva quasi commettesse un sacrilegio». L’effetto indiretto libero è quasi del tutto soppresso.
Del Buono riconosce il gioco di voci ma ne inventa uno inesistente: «Dal canto suo, lo svizzero s’indignava sempre più contro quell’individuo che si permetteva d’ammirare da solo la cattedrale. Gli pareva una condotta mostruosa: il malintenzionato lo derubava di qualcosa, quasi commetteva sacrilegio». Viene da chiedersi chi stia “pensando” la parola «malintenzionato».
Ginzburg mantiene la lista ma coniuga i verbi ed è costretta a ricorrere a delle completive: «Lo svizzero, in disparte, era sdegnato dentro di sé con quell’individuo, il quale si permetteva di ammirare la cattedrale da solo. Gli sembrava che si conducesse in una maniera mostruosa, che in qualche modo lo derubasse, e quasi commettesse un sacrilegio».
Ma la “lettera” di questa frase cos’ha che non funziona? «Lo svizzero, in disparte, era sdegnato dentro di sé con quell’individuo, sembrava comportarsi in modo mostruoso, derubarlo in un certo senso, e quasi commettere un sacrilegio». È forse il soggetto che cambia, uno di quegli “errori” che, come diceva Proust, anche uno scolaro avrebbe rilevato? Ma il contesto è sufficiente a eliminare ogni ambiguità e soprattutto lo è l’intonazione dell’enunciatore nella voce del narratore.
La parte finale è risolta nel rispetto dell’originale. Solo Ginzburg ricorre alla ridondanza di «ecco»: «Ma ecco un fruscio di seta sulle pietre, l’ala d’un cappello, una mantiglia nera… Era lei! Léon si alzò e le corse incontro». Un semplice avverbio che dà in anticipo un orientamento al Mais, che sostituisce, con l’idea di una successione graduale degli eventi, lo stacco forte voluto da Flaubert. Significa non riconoscere nella sua prosa il particolare uso ricorrente della congiunzione mais, un caso riconducibile a ciò che Antoine Berman (1985, 63) chiama «sistematismo», la frequenza cioè di certe costruzioni, di certi tipi di forme sintattiche, il ricorso appunto “sistematico” a usi individuabili e riconoscibili nel loro riprodursi.
Prima di esaminare altre occorrenze, vorrei aprire una parentesi, che proprio fuori tema non è, su un passo che si trova all’interno della precedente citazione, esemplificativo della coerenza di Flaubert nell’attribuzione della percezione. Léon aspetta Emma nella cattedrale e il suo sguardo incontra una vetrata:
Cependant elle ne venait pas. Il se plaça sur une chaise et ses yeux rencontrèrent un vitrage bleu où l’on voit des bateliers qui portent des corbeilles. Il le regarda longtemps, attentivement, et il comptait les écailles des poissons et les boutonnières des pourpoints, tandis que sa pensée vagabondait à la recherche d’Emma (III, 1, p. 224).
La percezione descritta è la percezione dal punto di vista di chi guarda e non dà alcuna spiegazione a ciò che guarda, che non razionalizza. Grazie all’impersonale di où l’on voit, all’indeterminato e alla scelta del sostantivo, l’espressione des bateliers indica una referenza generica, avulsa da ogni contestualizzazione storica e simbolica. Sia il termine sia l’indeterminazione sono da mantenere perché costituiscono la visione non mediata di chi guarda, dove gesti e figure sono riportati a una soggettività decontestualizzata e la percezione descritta fa riferimento alle competenze conoscitive del personaggio o alla sua indifferenza. Non dimentichiamo inoltre che questo tipo di percezione del luogo si contrappone, in una simmetria senz’altro consapevole, a quella del custode e alle sue descrizioni dense di dettagli storici e religiosi.
Ginzburg giustamente usa «barcaioli» ma non l’indeterminativo, fondamentale, mentre Valeri e Del Buono usano «pescatori», connotando la scena di un tema biblico che nel testo non compare e che forse non è neanche quello vero della vetrata, se è, come si pensa, quella dedicata alla Confraternita dei marinai.
Ma intanto ella non veniva. Si spostò su una sedia e levò gli occhi a una vetrata azzurra dove si vedevano figurati dei pescatori carichi di canestri. La osservò a lungo attentamente, e contava le squame dei pesci e i bottoni dei farsetti, mentre vagava col pensiero alla ricerca di Emma (DV 291).
Ma lei non arrivava mai. Lui si buttò su una sedia, si mise a fissare un pezzo di vetrata turchino (sic) su cui eran dipinti pescatori carichi di ceste. Li guardò a lungo, attentamente, contò e ricontò le squame dei pesci, i bottoni dei farsetti, mentre il suo pensiero errava alla ricerca di Emma (OdB 196).
Però non veniva. Prese posto su una sedia e i suoi occhi incontrarono una vetrata azzurra, dove si vedevano barcaioli carichi di ceste. Egli la guardò a lungo, attentamente e contava le squame dei pesci e le asole dei farsetti, mentre il suo pensiero vagabondava alla ricerca di Emma (NG 268-69).
A parte i barcaioli, con o senza l’indeterminato, non possiamo esimerci dall’esprimere disappunto per le scelte sempre arbitrarie di Del Buono: l’incontro percettivo casuale con una vetrata, diventa nella sua traduzione il gesto di fissare un pezzo di vetrata; il passaggio sottile tra il passato remoto regarda e l’imperfetto comptait, alternanza di tempi alquanto importante in Flaubert, scade in un triviale e insistente «contò e ricontò»…
Ma ritorniamo alle altre occorrenze dell’indiretto libero e dell’uso personale che ne fa Flaubert:
Le bourg était endormi. Les piliers des halles allongeaient de grandes ombres. La terre était toute grise, comme par une nuit d’été.
Mais, la maison du médecin se trouvant à cinquante pas de l’auberge, il fallut presque aussitôt se souhaiter le bonsoir, et la compagnie se dispersa.
Emma, dès le vestibule, sentit tomber sur ses épaules, comme un linge humide, le froid du plâtre(II, 2, 79).
È un passaggio famoso su cui si sono esercitati, a partire da Ducrot (1981), molti linguisti. I coniugi Bovary sono appena arrivati nella nuova sede di Yonville. Prima di prendere possesso della loro casa, cenano all’albergo con alcune persone del luogo. Tra di loro, Homais, il farmacista, e Léon, il giovane impiegato del notaio. Nel breve tratto di strada tra l’albergo e la casa prosegue l’atmosfera di simpatia generatasi durante la cena, breve pausa prima di inaugurare una nuova fase di routine insostenibile per la protagonista. C’è, in modo più criptico che altrove, un gioco di punti di vista e di passaggi di discorso indiretto libero nell’espressione del dispiacere di dovere interrompere una situazione, l’intesa stabilitasi tra Emma e Léon, e tra Bovary e Homais. Quel Mais che introduce un capoverso, interrompe una descrizione dove narratore e personaggi coincidono e apre all’espressione in indiretto libero del rammarico dei personaggi.
Il borgo dormiva. I pilastri del mercato allungavano grandi ombre. La terra era tutta grigia, come nelle notti d’estate.
Ma, poiché la casa del medico distava cinquanta passi dall’albergo, dovettero quasi subito augurarsi la buona sera, e la compagnia si disperse.
Emma, fin dal vestibolo, si sentì cader sulle spalle, come una tela umida, il freddo della calce (DV 117).
Il paese dormiva. I pali del mercato allungavano grandi ombre. La terra era tutta grigia come nelle notti estive.
Ma, dato che la nuova casa del medico si trovava a un cinquanta passi dall’albergo, dovettero augurarsi quasi subito la buonanotte, e la compagnia si disperse.
Le bastò fare un passo nel vestibolo, immediatamente Emma si sentì calare sulle spalle, come un lenzuolo intriso, l’umidità della calcina (OdB 71).
Il paese era immerso nel sonno. I pilastri del mercato proiettavano lunghe ombre. La terra era tutta grigia, come in una notte d’estate.
Ma, poiché la casa del medico era a cinquanta passi dall’albergo, quasi subito fu necessario augurarsi la buonanotte, e la compagnia si disperse.
Emma, fin dal vestibolo, sentì che le cadeva sulle spalle, come un lenzuolo, umido, il freddo della calce (NG 98).
L’aggiunta di «poiché» e «dato che», ritenuti necessari per tradurre il participio presente con valore causale, indebolisce l’effetto del discorso indiretto libero, diventa esplicitazione che dà piuttosto voce al narratore. L’italiano che non può tradurre se trouvant con «trovandosi» se non invertendo il soggetto e quindi appesantendo troppo, forse (contraddicendo la norma implicita secondo cui mai si dovrebbe trovare una soluzione traduttiva equivalente a ciò che lo scrittore ha escluso) potrebbe ricorrere all’imperfetto che nei manoscritti relativi a questo passaggio, molto rimaneggiato dall’autore, compare più volte in alternativa alla scelta finale di se trouvant (Herschberg Pierrot 2007).
L’affievolimento del passaggio all’indiretto libero è dato anche dal verbo coniugato «dovettero» rispetto all’impersonale il fallut dell’originale, cui già per il fatto di essere un passato remoto viene contestata la capacità di rappresentare uno stato affettivo. Ginzburg lo mantiene all’impersonale, ma poco oltre ricorre ancora una volta a una inspiegabile completiva per rendere sentit tomber sur ses épaules, comme un linge humide. Per quanto riguarda la traduzione di quest’ultima frase, la scelta di Del Buono è sorprendente e non solo nel lessico («intriso», «calcina»).
Nell’esempio che segue, e in cui ritorna il fallut, Emma ha appena ricevuto la lettera di addio di Rodolphe, si nasconde in soffitta, ed è attratta per un attimo dall’idea del suicidio. Improvvisamente risuona la voce di Charles che la chiama per il pranzo:
– Ma femme ! ma femme ! cria Charles.
Elle s’arrêta.
– Où es-tu donc ? Arrive !
L’idée qu’elle venait d’échapper à la mort faillit la faire s’évanouir de terreur; elle ferma les yeux; puis elle tressaillit au contact d’une main sur sa manche: c’était Félicité.
– Monsieur vous attend, Madame; la soupe est servie.
Et il fallut descendre! il fallut se mettre à table!
Elle essaya de manger. Les morceaux l’étouffaient (II, 13, 192).
«Emma! Emma!» gridò Carlo.
Essa si fermò.
«Dove sei? Vieni!»
L’idea di essere appena sfuggita alla morte poco mancò non la facesse svenir di terrore; chiuse gli occhi; poi trasalì al contatto d’una mano che si posava sulla sua manica: era Felicita.
«Il signore l’aspetta; la minestra è servita.»
E le toccò scendere! le toccò sedersi a tavola!
Tentò di mangiare, ma i bocconi la soffocavano (DV 253).
«Moglie! moglie mia!» gridò Charles.
S’irrigidì.
«Ma dove sei? Vieni!»
L’idea di essere appena sfuggita alla morte la fece quasi svenire di paura; chiuse gli occhi; poi trasalì trasalì al contatto di quelle dita sulla sua manica, Félicité.
«Il signore vi aspetta, signora: la minestra è in tavola.»
E dovette scendere! dovette sedersi al desco!
Tentò di mangiare. I bocconi la soffocavano (OdB 167).
– Moglie mia! Moglie mia! – gridò Charles.
Si fermò.
– Ma dove sei? vieni!
L’idea di essere sfuggita alla morte la fece quasi svenire dal terrore; chiuse gli occhi; poi trasalì al contatto d’una mano sulla sua manica; era Félicité.
– Il signore vi aspetta signora; la minestra è servita.
E bisognò scendere! Bisognò mettersi a tavola!
Tentò di mangiare. I bocconi la soffocavano (NG 229).
Dell’uso del passato remoto come tempo capace di esprimere l’affettività e di rientrare in un indiretto libero si perde qualcosa nella forma elegante di Valeri «Le toccò» e nel «dovette» di Del Buono, malgrado l’esclamativo. Rimane intatto in Ginzburg.
Il caso che segue presenta un modello di frase spezzata il cui scopo espressivo è di raffigurare un brusco cambiamento interiore di Emma:
Emma, qui lui donnait le bras [a Homais], s’appuyait un peu sur son épaule, et elle regardait le disque du soleil irradiant au loin, dans la brume, sa pâleur éblouissante; mais elle tourna la tête : Charles était là (II, 5, 188).
Emma, che gli era al braccio, s’appoggiava un poco sulla sua spalla, e guardava intanto il disco del sole che splendeva, in lontananza, nella nebbia, il suo abbagliante pallore; ma, volgendo la testa, vide Carlo (DV 135; il corsivo è mio).
Emma gli dava il braccio, e si appoggiava un poco alla sua spalla, contemplando il disco del sole che irradiava in lontananza attraverso la bruma il suo accecante pallore; ma, girando la testa, vide Charles (OdB 84; il corsivo è mio).
Emma, che gli dava il braccio, s’appoggiava un poco alla sua spalla, e guardava il disco del sole che irradiava in lontananza, nella nebbia, il suo pallore splendente; ma voltò la testa: c’era lì Charles (NG 116).
In Valeri e Del Buono il gerundio dell’incisa (che dai manoscritti risulta un’opzione poi scartata) e l’uso del verbo vedere, snaturano, perché lo rallentano e rendono graduale, l’effetto della congiunzione mais di interrompere una descrizione attraverso lo sguardo e il pensiero di Emma con l’improvviso materializzarsi nel paesaggio della figura del marito, come evocazione di qualcosa che si era “piacevolmente” dimenticato. Discutibile, a mio avviso, il segmento finale di Ginzburg con l’inversione.
Sempre introdotto da mais:
Mais les hommes avaient aussi leurs chagrins, et la conversation s’engagea par quelques réflexions philosophiques. Emma s’étendit beaucoup sur la misère des affections terrestres et l’éternel isolement où le cœur reste enseveli (III, 1, 216).
Ma gli uomini hanno anch’essi le loro pene; e la conversazione, così, prese la via delle riflessioni filosofiche. Emma parlò a lungo della miseria degli affetti terreni e dell’eterno isolamento in cui ogni cuore resta sepolto (DV 282-83).
Ma forse gli uomini non hanno i loro guai? La conversazione iniziò su queste riflessioni filosofiche. Emma si diffuse molto sulla miseria degli affetti terreni e sull’eterna solitudine in cui resta sepolto il cuore (OdB 190).
Ma anche gli uomini avevano i loro dispiaceri; e la conversazione s’inoltrò in qualche riflessione filosofica. Emma indugiò a lungo sulla miseria degli affetti terrestri, e sull’eterno isolamento in cui il cuore rimane sepolto (NG 260).
Questo caso di indiretto libero è risolto fedelmente da Valeri, meglio però da Ginzburg che conserva l’imperfetto, tempo specifico di questa modalità e tempo peculiare di Flaubert. Del Buono dà un registro alla battuta di Léon, peraltro risolta come discorso diretto libero, che nulla ha a che vedere con la situazione. «Guai» per chagrins è scelta altrettanto contestabile. L’eliminazione della congiunzione a vantaggio di un punto finale contravviene all’uso del tutto personale di et, da parte del nostro autore:
La conjonction “et” n’a nullement dans Flaubert l’objet que la grammaire lui assigne. Elle marque une pause dans une mesure rythmique et divise un tableau. En effet partout où on mettrait “et”, Flaubert le supprime (Proust 1987, 71-72; «In Flaubert la congiunzione “e” non ha affatto la funzione assegnatale dalla grammatica. Segna una pausa in una misura ritmica e divide un quadro. Dovunque noi metteremmo una “e”, Flaubert invece la sopprime» – Proust 1984, 543).
Di fronte a questa congiunzione in Flaubert non si può dunque che riflettere a lungo.
La sostituzione dell’indefinito quelques con «queste» per qualificare le riflessioni filosofiche ci consente alcune considerazioni di ordine più generale. «Queste» sta per questo tipo di riflessioni, qualifica i discorsi dei due protagonisti come corrivi, banali, pieni di luoghi comuni. È certo plausibile con l’ironia del narratore il giudizio sul tipo di riflessioni che essi stanno conducendo, ma Flaubert non lo dice esplicitamente, bensì si proietta nell’enunciazione dei personaggi con distanza ironica (come altrove lo fa con empatia), sempre nel senso di una loro soggettivazione. E questo modo di procedere costituisce l’impersonalità flaubertiana. Un semplice dimostrativo con evidente tono de-valorizzante lo tradisce perché dice ciò che deve rimanere implicito.
Nell’esempio che segue siamo nel discorso interiore all’indiretto libero di Emma che assiste alla Lucia di Lammermoor, e che torna con la mente, spinta dalla scena cui assiste, all’ultimo incontro con Rodolphe:
Mais personne sur la terre ne l’avait aimée d’un pareil amour. Il ne pleurait pas comme Edgar, le dernier soir, au clair de lune, lorsqu’ils se disaient: «A demain; à demain!…» (II, 15, 209).
Ma nessuno sulla terra l’aveva mai amata d’un così grande amore. Quell’ultima sera, al chiaro di luna, quando s’eran detti: «A domani, a domani!» egli non aveva pianto come Edgardo piangeva ora (DV 274).
Ma nessuno sulla terra le aveva mai votato un simile amore. Non aveva mica pianto come Edgardo, lui, l’ultima sera, quando s’eran detti «A domani! A domani!» (OdB 182).
Ma nessuno sulla terra l’aveva amata d’un simile amore. Lui non piangeva come Edgardo, quell’ultima sera, al chiaro di luna, quando si dicevano: «A domani! A domani!» (NG 250).
Ginzburg mantiene correttamente l’imperfetto e la successione. Valeri sente la necessità di dare un equilibrio personale alla frase mettendo al centro le parole fondamentali À demain; a demain!, mentre esse hanno senz’altro una maggiore evidenza nel finale sfumato, in sospeso e anticipatore di un À demain che verrà pronunciato il giorno dopo da Léon. Del Buono, pur mantenendo la successione, scade nel registro inadeguato. Mai Emma tutta esaltata nella sua identificazione con la storia che si svolge sulla scena avrebbe usato un simile tono. Empatia e ironia del narratore sono sottilmente calibrati in questo passaggio. Non si può non riconoscerli.
Ancora alcuni casi di occorrenze non introdotte dalla congiunzione mais:
Il en coûtait à Charles d’abandonner Tostes, après quatre ans de séjour et au moment où il commençait à s’y poser. S’il le fallait, cependant! Il la conduisit à Rouen voir son ancien maître. C’était une maladie nerveuse. On devait la changer d’air (I, 9, 63; tondo mio).
Era un gran rincrescimento per Carlo di lasciare Tostes, dopo un soggiorno di quattro anni e proprio quando cominciava a imporsi. Eppure, se era necessario! Egli la condusse a Rouen a consultare il suo antico maestro. Era una malattia nervosa; bisognava cambiar aria (DV 96; corsivo mio).
Non che Charles lasciasse volentieri Tostes, dopo un soggiorno di quattro anni, e proprio quando cominciava a imporsi. Ma dal momento che era necessario! La portò a Rouen, dal suo vecchio maestro. Il responso fu che si trattava di una malattia nervosa: bisognava proprio cambiare aria (OdB 54-55).
A Charles costava molto lasciare Tostes, dopo avervi abitato per quattro anni e proprio quando cominciava a mettervi radici. Però, se era necessario! La portò a Rouen, per farla visitare dal suo antico maestro. Era una malattia nervosa, bisognava che cambiasse aria (NG 77; corsivo mio).
Valeri ne rispetta la struttura, Ginzburg cede ancora una volta a quello che dev’essere un suo stilema, una completiva che non toglie la tonalità dell’indiretto libero, ma certamente tende ad incepparne la scorrevolezza. Entrambi riproducono il corsivo presente nell’originale che sta ad indicare la formula precisa attribuita a Charles. Del Buono pur mantenendo fino a un certo punto l’indiretto libero ne altera ancora una volta il registro con quel tono a sproposito dell’attenuazione colloquiale: «Non che Charles lasciasse…». Spezza la modalità dell’indiretto libero con una completiva al passato remoto, una sorta di discorso indiretto manifestato da «responso» che implica parole pronunciate ma riportate separatamente, quindi attribuendo l’enunciazione al narratore per poi riprenderla nel finale con l’accentuazione familiare di «proprio».
Nella frase che segue le tre coordinate rappresentano evidentemente parole di Léon: «La procédure l’irritait, d’autres vocations l’attiraient, et sa mère ne cessait dans chaque lettre de le tourmenter» (III, 1, 216)
L’intonazione è quella dell’elenco orale e la serie dei soggetti disparati (procedura, vocazioni, madre) messi sullo stesso piano, costituisce un modello frequente in MB. Eppure Valeri, spezzando con una subordinata causale e con una punteggiatura generatrice di pause assenti dall’originale, incoerenti con il flusso verbale che viene riprodotto, traduce: «La procedura l’infastidiva, specie perché egli portava in sé altre vocazioni; sua madre, non cessava, in ogni lettera, di tormentarlo» (DV, 283).
Del Buono interrompe il flusso in un altro modo, con la dislocazione colloquiale nella proposizione centrale e con la scelta della formula «di lettera in lettera» che fa assumere una funzione avverbiale e distanziante al circostanziale “in ogni lettera”, più pertinente al discorso indiretto libero: «La procedura lo irritava, era un’altra la sua vocazione, e la madre non smetteva di torturarlo di lettera in lettera» (OdB 190).
Ginzburg sarebbe la più fedele, se non si fosse lasciata tradire dalle pause della punteggiatura: «La procedura lo irritava, altre vocazioni lo attraevano, e sua madre, in ogni lettera, non smetteva di tormentarlo» (NG 261).
Molto frequente in Flaubert è la forma impersonale: Il y eut une agitation sur l’estrade, de longs chuchotements, des pourparlers (II, 8, 132). Valeri la mantiene, ma con un verbo che implica un osservatore che guardi la scena, alterandone dunque le finalità: «Si notò una certa agitazione sulla tribuna, dei lunghi sussurri, degli abboccamenti» (DV 181). Del Buono toglie l’impersonale e usa una frase-formula, quello che si direbbe, in uno stile giornalistico, di fronte a una analoga situazione; introduce un imperfetto dove il passato remoto invece aveva proprio il compito di esprimere un cambiamento brusco; cambia il ritmo dell’elenco senza verbi in una scansione di due coordinate introdotte da una punteggiatura più forte rispetto all’originale, i due punti, che dividono nettamente in due la frase. Modello presente in Flaubert, ma non qui: «Sulla tribuna ferveva una grande agitazione: tutti bisbigliavano, avevano da discutere» (OdB 116).
I sostantivi che diventano verbi, contraddicono una procedura ricorrente in Flaubert, che risponde all’esigenza di lasciare nel vago la referenza, di indebolire la componente fattuale tipica del verbo (Philippe 2007). Inoltre, e lo farà anche Ginzburg, l’azione (agitation) viene posposta al luogo in cui si compie (l’estrade), dettaglio fondamentale, quando si è in una scrittura che vuole a tutti i costi privilegiare la percezione del fenomeno rispetto alla sua origine (Bally 1920).
Per ciò che riguarda il resto, Ginzburg si mantiene molto vicina alla fonte, sia per l’impersonale, sia per il passato remoto: «Vi fu sul palco un momento d’agitazione, lunghi bisbigli, segreti sussurri» (NG 160).
Un esempio efficace potrebbe essere ancora questo: Il se fit un bruit de pas sur le trottoir. Charles regarda […] (II, 11, 173).
Ci fu un rumore di passi sul marciapiede. Carlo guardò […] (DV 131).
Un rumore di passi sul marciapiede. Charles andò a guardare […] (OdB 151).
Si udì un rumore di passi sul marciapiede. Charles guardò […] (NG 207).
Ginzburg sposta sulla ricezione della percezione e tenendo conto di quanto sia caratterizzante della prosa di Flaubert l’espressione del fenomeno in sé senza gli effetti, la fonte o il soggetto che la recepisce, ci sembra una scelta non consona.
La soluzione di Del Buono è la frase averbale, soluzione cui lui ricorre spesso (non però quando a eliminare il verbo è Flaubert), per esempio nel caso senz’altro ostico di questa frase impostata anch’essa sull’impersonalità: Il faisait beau; on avait chaud; la sueur coulait dans les frisures, tous les mouchoirs tirés épongeaient des fronts rouges (II, 15, 206).
Bel tempo, e faceva caldo, sudore giù a goccioli tra i ricci, tutti i fazzoletti fuori ad asciugar le fronti congestionate (OdB 180).
Valeri in questo caso opta anche lui, in parte, per l’elisione del verbo e ricorre alla sintesi delle due indicazioni sul tempo atmosferico, poi come Ginzburg inserisce il soggetto:
Tempo bello e caldo; il sudore colava tra i riccioli; tutti tiravano fuori il fazzoletto e s’asciugavano la fronte arrossata (DV 270-71).
Era bel tempo; faceva caldo; nei capelli arricciati colava il sudore, tutti prendevano i fazzoletti per detergersi la fronte arrossata (NG 247).
Questo tipo di frase a soggetto inanimato è ricorrente in Flaubert: Un battement de cœur la prit dès le vestibule (II, 15, 207).
Nessuno dei tre traduttori ha il “coraggio” di seguire l’originale, tutti ricorrono al passivo:
Appena giunta nell’atrio, essa fu presa dal batticuore (DV 271).
Lei fu presa dal batticuore già dall’atrio (OdB 180).
Nell’atrio fu presa dal batticuore (NG 147).
Il passivo comporta il cambio del soggetto ed è un’operazione che si incontra sovente nei nostri autori, inopportuna soprattutto nei casi di “animismo”, come il precedente, dove viene anche eliminato l’indefinito. Sono procedimenti per nulla casuali che caratterizzano la scrittura di Flaubert, in funzione di quella sua esigenza, cui già abbiamo accennato, di privilegiare il fenomeno in sé indipendentemente da chi la sperimenta o lo produce. Prendiamo questo breve passo: et le souvenir d’Emma lui revenait (III, 1, 215), che diventa per Valeri (281) «e si metteva a pensare a Emma»; per Del Buono (189) «e riassaporava il ricordo di Emma». Ginzburg (259) fedelmente traduce: «e il ricordo di Emma gli tornava.».
Nella stessa pagina un’altra occorrenza interessante, tra l’impersonale e il soggetto inanimato:
[…] car Léon ne perdait pas toute espérance, et il y avait pour lui comme une promesse incertaine qui se balançait dans l’avenir, tel un fruit d’or, suspendu à quelque feuillage fantastique.
Valeri riporta l’incerta promessa al soggetto umano ed elimina l’assimilazione metaforica dell’avvenire con l’aria:
[…] infatti Leone non aveva perso del tutto la speranza, e vedeva davanti a sé ondeggiare nell’aria una incerta promessa, come un frutto d’oro sospeso a un fantastico fogliame.
Così come fa Del Buono, che usa, e anche Ginzburg lo farà, un participio presente al posto della relativa, compensazione forse dei casi in assoluta maggioranza dove in italiano è impossibile, che tuttavia priva la promessa della autonomia oggettiva che aveva in Flaubert:
[…] Léon non aveva perso tutte le speranze, vagheggiava un’incerta promessa oscillante nel futuro come un frutto d’oro sospeso a fantastiche foglie.
Ginzburg mantiene il soggetto inanimato e anche l’imperfetto di perdait, contrariamente agli altri due che preferiscono l’ortonimia del passato prossimo:
[…] Léon non smarriva ogni speranza, e c’era per lui come una vaga promessa, oscillante nell’avvenire, quasi un frutto d’oro, sospeso fra meravigliosi fogliami.
Sull’imperfetto nelle traduzioni di Flaubert ci sarebbe, è ovvio, molto da dire, visto che è il suo tempo privilegiato e che è usato in modo sistematico. Non era nostra intenzione farne un esame specifico e dettagliato, ma abbiamo constatato una certa tendenza nei nostri traduttori a rispettarlo, malgrado il caso appena citato sembri dimostrare il contrario. È forse un tale luogo comune della riflessione sulla prosa flaubertiana, che qualunque traduttore si sente allertato e esita di fronte alla tentazione di trasformarlo.
Cet imparfait – ci dice ancora Proust – si nouveau dans la littérature, change entièrement l’aspect des choses et des êtres, comme font une lampe qu’on a déplacée, l’arrivée dans une maison nouvelle, […]. Cet imparfait sert à rapporter non seulement les paroles mais toute la vie des gens (Proust 1987, 70-71; «quest’imperfetto, letterariamente così nuovo, modifica interamente l’aspetto degli uomini e delle cose: come lo spostamento d’una lampada, l’arrivo in una nuova casa, […]. In lui l’imperfetto serve non solo a riferire i discorsi dei suoi personaggi, ma a descriverne l’intera vita.» Proust 1984, 542-543).
Del resto lo scambio di ruoli che Flaubert fa fare all’imperfetto, al passato remoto, al passato prossimo serve precisi scopi espressivi. Essi si alternano in un modo straniante, procurando al traduttore opzioni che non sempre si escludono a vicenda facilmente: sottilissime variazioni della loro contestualizzazione possono modificare il limite della loro accettabilità nella lingua d’arrivo.
In MB non ci sono, come nell’Education sentimentale, forme spaesanti del tipo Mlle Marthe courut vers lui, et, cramponnée à son cou, elle tirait ses moustaches. Les sons d’une harpe retentirent, elle voulut voir la musique… (Flaubert 1869, 41). Un esempio, questo, particolarmente efficace di quell’imperfetto narrativo, che si incontra dove in realtà ci si aspetterebbe un passato remoto o un passato prossimo, dove cioè c’è un cambiamento dell’azione e non iteratività o continuità. Questo uso di un imperfettivo al posto di un perfettivo sfrutta e talvolta in modo molto intenso, le capacità di questo tempo verbale di rappresentare la scena come se fosse in atto come se stesse svolgendosi e qualcuno vi assistesse dall’esterno.
Ma parlando di questo imperfetto un po’ estremo non si può resistere alla tentazione di darne una illustrazione moderna citando un caso suggestivo preso da Boris Vian. Apro dunque una parentesi per poi tornare a MB e concluderne l’analisi:
Je… dit-il tout contre son oreille, et, à ce moment, comme par erreur, elle tourna la tête et Colin lui embrassait les lèvres. Ça ne dura pas très longtemps (Vian 1947; tondo mio).
Lo sconcerto e l’attrazione generati da questo imperfetto, lo rendono efficace più di qualunque teorizzazione. L’azione è espressa come se qualcuno vi assistesse, o meglio come se Clohé, la protagonista, fosse estranea e esterna all’azione di Colin che la bacia, come se lo sorprendesse in un gesto che sembra non riguardarla e che dura un po’.
La traduzione pubblicata della frase di Vian sembra ignorare totalmente questa scelta fenomenista, come del resto ben altre cose:
«Io»… disse con la bocca schiacciata contro l’orecchio di Chloé, che, in quel momento, girò la testa per errore, così che Colin la baciò sulle labbra. Non durò a lungo (Turchetta 1992).
A snaturare l’originale, indipendentemente dalla sostituzione dell’imperfetto con il passato remoto che ci era sembrato il problema essenziale, concorrono la proposizione relativa e la proposizione consecutiva che non c’erano, cioè le coordinate che diventano subordinate, l’esplicitazione del nome proprio della donna, l’eliminazione dell’attenuazione di comme par erreur che si trasforma «girò la testa per errore», e in più la scelta tipografica delle virgolette a «Io» che, indistinto dal resto, si perdeva nell’originale nel ritmo di una continuità intenzionale.
Anche in italiano esiste questo uso perfettivo dell’imperfetto (perlopiù introdotto da un elemento circostanziale di tempo), ma in questo caso sarebbe forse troppo lontano dall’ortonomia per poterlo proporre? Il lettore italiano avrebbe sobbalzato di fronte ad una frase come questa? «Io… disse contro il suo orecchio, e in quel momento, come per errore, lei girò la testa e Colin le baciava le labbra. Non durò a lungo.»
Le radici di questo bacio sono da ritrovare in Flaubert. E anche in MB non mancano imperfetti in grado di disorientare. Ne diamo due occorrenze con le relative traduzioni:
[…] elle resta quelques minutes à remuer ses doigts légers dans le cou du jeune garçon; ensuite elle versa du vinaigre sur son mouchoir de batiste; elle lui mouillait les tempes à petits coups et elle soufflait dessus, délicatement. […] en apercevant son élève les yeux ouverts il [le pharmacien] reprit haleine. Puis tournant autour de lui, il le regardait de haut en bas (II, 7, 120; tondi miei).
[…] e perciò dovette per alcuni minuti rigirare le sue dita leggiere contro il collo del ragazzotto; poi versò dell’aceto sul suo fazzoletto di batista, e con questo gli bagnava le tempie a colpettini, e vi soffiava sopra delicatamente. […] vedendo il suo commesso con gli occhi aperti, [il farmacista] riprese fiato. Girandogli intorno, lo guardava dall’alto in basso (DV 166; corsivi miei).
[…] lei per qualche minuto dovette armeggiare con le dita leggere intorno al collo del giovanotto, poi versò un poco d’aceto nel suo fazzoletto di batista, gli bagnò le tempie a colpetti premurosi, vi soffiò sopra delicatamente. […] vedendo che il suo allievo aveva riaperto gli occhi [il farmacista] riprese fiato. Cominciò a girargli intorno, guardandolo dall’alto in basso (OdB 106; corsivi miei).
[…] per qualche minuto, essa mosse le dita leggere sul collo del ragazzo; versò poi un poco d’aceto sul suo fazzoletto di batista; gli inumidiva le tempie a piccoli colpi, e vi soffiava sopra delicatamente. […] vedendo il proprio discepolo ad occhi aperti, egli [il farmacista] riprese fiato. Girandogli intorno, lo guardava dall’alto in basso (NG 146; corsivi miei).
Siamo qui più vicini all’iterativo, ma come si vede Del Buono ha preferito il passato remoto, scambiando peraltro i verbi rispetto al francese.
Un imperfetto più a rischio potrebbe invece essere quello che segue. Dal contesto, che diamo solo in francese, la referenza è una decisione presa, un fatto compiuto, quindi un perfettivo. Non a caso Del Buono lo trasforma scegliendo una forma infinitiva, mentre Valeri e Ginzburg lo lasciano invariato perché forse ne colgono la capacità di lasciare l’azione nel non compiuto, come se stesse svolgendosi appunto.
D’ailleurs, il allait devenir premier clerc: c’était le moment d’être sérieux. Aussi renonçait-il à la flûte, aux sentiments exaltés, à l’imagination, – car tout bourgeois, dans l’échauffement de sa jeunesse, ne fût-ce qu’un jour, une minute, s’est cru capable d’immenses passions, de hautes entreprises. Le plus médiocre libertin a rêvé des sultanes ; chaque notaire porte en soi les débris d’un poète (III, 6, 269).
Egli rinunciava infatti al flauto, ai sentimenti esaltati, all’immaginazione: – perché ogni borghese… (DV 347; corsivo mio).
E dunque meglio rinunciare al flauto, ai sentimenti esaltati, all’immaginazione, perché ogni borghese… (OdB 234; corsivo mio).
Quindi rinunciava al flauto, ai sentimenti elevati, alla fantasia: perché ogni borghese… (NG 323; corsivo mio).
I nostri autori sembrano riconoscere, se pur non sempre, l’utilizzo intenzionale che Flaubert fa dell’indeterminato, funzionale, l’abbiamo già accennato, al suo bisogno di incertezza referenziale: Une peur la prenait (I, 7, 43), rimane «una paura» in tutte e tre le traduzioni. L’indeterminazione rimane anche per elle avait une mélancolie morne, un désespoir engourdi (II, 7, 115; tondi miei), ma Del Buono sente l’esigenza di ritmare diversamente, con un chiasmo, la successione sostantivo-aggettivo: «lei provava una malinconia atroce, una torbida disperazione» (OdB 101; corsivi miei). Mentre Alors un attendrissement la saisit (II, 6, 103; tondo mio) si differenzia: «Allora la prese una nuova tenerezza» (DV 315; corsivo mio); «Allora s’intenerì» (OdB 91); «Allora la invase una tenera commozione» (NG 126; corsivo mio). Ancora: et elle demeura perdue dans un froid horrible qui la traversait (II, 7, 116; tondo mio) diventa «ella restò perduta in un orribile gelo che la penetrava e l’attraversava»(DV 161; corsivo mio), dove però il verbo si sdoppia; l’indeterminato invece scompare in «lei restò perduta nel gelo che la penetrava» (OdB 102); è rispettato in «ed essa rimase sola in un freddo orribile che la invadeva» (NG 141). Gli esempi di indeterminazione per nomi astratti, derivati da sostantivazione di aggettivi, abbondano in MB e soprattutto per sostantivi denotanti sentimenti in posizione di soggetto (Philippe et Piat 2009, 100).
Conclusione
Si potrebbe concludere che Valeri e Del Buono traducono come scrivono mentre Ginzburg cerca di più di imitare la scrittura di Flaubert.
Valeri conferisce al romanzo un’eleganza estremamente pregevole, nella ricerca di frasi sintatticamente equilibrate, scorrevoli in un ritmo personale, scandito dall’orecchio italiano. Si incontra spesso in lui un abbellimento dell’originale e la cancellazione della rudezza o talvolta della brutalità dell’originale. I suoi tradimenti sono del resto riscattati dalla patina del tempo che noi recepiamo nella sua prosa degli anni trenta, dallo straniamento che produce nel lettore avvicinandolo di più al tempo della scrittura dell’originale. Il lessico, certi arcaismi, certe troncature… insomma i settantasette anni che ci separano dalla traduzione conferiscono un invecchiamento naturale.
Effetto gradevole soprattutto se confrontato alla disinvoltura eccessiva di Del Buono, ai suoi anacronismi, alle sciatterie. In lui si riconosce un sistematismo personale, quello di ricondurre sempre al cliché, alla formula prevedibile: se Flaubert scrive sa passion se réveilla, lui traduce «sentì rinascere la vecchia passione» (189); Ta colique est elle passée mon ange? (II, 14, 201) diventa «E allora t’è passata la bua al pancino, angelo mio?» (175); Certainement, je m’y entends, puisque je suis pharmacien, c’est-à-dire chimiste! et la chimie, madame Lefrançois, ayant pour objet la connaissance de l’action réciproque… (II, 8, 125) assume questo tono «E come no? Me ne intendo: sono farmacista, vale a dire chimico! E la chimica, cara la mia signora, ha per oggetto la conoscenza…» (110).
Quando Flaubert vuol rendere in modo asciutto l’oggettività della durata del tempo: La journée fut longue, le lendemain (I, 8, 52), egli traduce «Il giorno dopo il tempo parve non passare mai». (45) dove quel «parve», quasi un automatismo, altera completamente e fa diventare soggettiva l’impressione.
Ma di esempi ne abbiamo già dati tanti. È come leggere una MB trasformata in scorrevole romanzo d’evasione degli anni sessanta del Novecento. Ignorando totalmente l’esistenza dell’originale, è una lettura senz’altro gustosa.
In Ginzburg prevalgono le scelte rigorose, l’attenzione al lessico è forte, come lei sostiene nella nota del traduttore, ma lo è anche nei confronti della sintassi, sulla cui fondamentale importanza ci siamo dilungati. La sua lettura non scorre liscia, talvolta stride, ma il sentire che sotto ciò che si legge c’è un altro testo, un altro atto creativo, un’altra ricezione, non dovrebbe essere nella natura della traduzione eticamente intesa (Berman 1985)? Quel concetto di traduzione che si rifiuta di offrire un libro come se fosse stato scritto originariamente nella lingua d’arrivo?
Riferimenti bibliografici
Bally 1920: Charles Bally, Impressionisme et grammaire, in Mélanges d’histoire littéraire et de philologie offerts à M. Bernard Bouvier, Genève, Sonor, pp. 261-279
Barthes 1967: Roland Barthes, Flaubert et la phrase. Texte écrit en hommage à André Martinet, in «Word» vol. 24, nn. 1-3, avril-décembre 1968 (ora in Barthes 1972)
Barthes 1972: Roland Barthes, Le degré zéro de l’écriture suivi de Nouveaux essais critiques, Seuil, Paris (ora in Œuvres Complètes (edizione in 3 voll.), Paris, Seuil, 1994, vol. II, p. 1377-1383)
Barthes 1976: Roland Barthes, La crise de la vérité, in «Magazine littéraire» n. 108 (ora in Œuvres Complètes (edizione in 3 voll.), Paris, Seuil, 1995, vol. III, p. 434-437)
Barthes 1982: Roland Barthes, Il grado zero della scrittura seguito da Nuovi saggi critici, Torino, Einaudi (traduzione di Giuseppe Bartolucci, Renzo Guidieri, Leonella Prato Caruso, Rosetta Loy Provera, di Barthes 1972)
Berman 1985: Antoine Berman, La traduction et la lettre ou l’auberge du lointain, Mauvezin, Éditions Trans-Europe Repres (edizione da cui si cita: Paris, Seuil, 1999) (la traduzione italiana di Gino Giometti, La traduzione e la lettera o l’albergo nella lontananza, è stata pubblicata da Quodlibet di Macerata nel 2003)
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Valeri 1936: Diego Valeri, Madame Bovary, Mondadori, Milano (traduzione di Flaubert 1857; edizione da cui si cita: 1990)
Vian 1947: Boris Vian, L’écume des jours, Paris, Gallimard