di Ervino Pocar
Comincio con un’affermazione, precisa, apodittica: tradurre è impossibile. A questa ne aggiungo un’altra altrettanto schietta e precisa: si è sempre tradotto, si traduce e sempre si tradurrà.
Su queste due tesi s’impernia da secoli un’interminabile discussione, un conflitto d’opinioni spesso inconciliabili, di pro e contro, di difese e accuse, di polemiche senza fine.
Il breve tempo che abbiamo a disposizione non ci consente di esporre nei particolari la lunga storia di queste polemiche: ci limiteremo pertanto a considerare un po’ più da vicino le due affermazioni con le quali ho cominciato.
Tradurre è impossibile, ma si è sempre tradotto.
Come potete immaginare, si è cominciato a tradurre fin dai tempi della Torre di Babele, fin da quando il Signore si prese la briga di confondere la favella degli uomini. Secondo la Bibbia, la pluralità delle lingue sarebbe la conseguenza di uno sfogo della collera divina. Il Signore disse: «Ecco, essi formano un popolo solo, e hanno tutti un solo linguaggio, e questo [cioè la Torre] è quanto incominciarono a fare; ora, nulla gli impedirà di condurre a termine ciò che disegnano di fare. Confondiamo quindi il loro linguaggio, sicché l’uno non capisca l’altro». Confuso il linguaggio, l’Eterno disperse gli uomini sulla faccia di tutta la terra.
Kafka, a questo proposito, dice che, se fosse stato possibile costruire la Torre senza scalarla, Dio lo avrebbe permesso. Per parte mia aggiungo che, se li lasciava fare, quei costruttori, oggi non saremmo qui a parlare di questo problema, ma saremmo un unico popolo; avremmo l’auspicata unione di tutti gli uomini, senza guerre, senza discordie e… senza traduttori!
Invece, quanto tradurre si è fatto nel mondo! Si ha un bel dire che tradurre è impossibile. E qui non parliamo delle pedestri necessità quotidiane nei rapporti commerciali, o della meticolosità necessaria a chi stende trattati politici. A questo proposito ricordo che Tryggve Lie, l’ex segretario generale delle Nazioni Unite, disse un giorno che «il destino del mondo dipende oggi prima di tutto dagli statisti, in secondo luogo dagli interpreti…». Né vogliamo parlare delle scrupolose traduzioni di libri scientifici, indispensabili per il progresso delle scienze in tutti i paesi del mondo. Qui mi limito al campo che mi è più vicino, alla traduzione artistica di opere letterarie; dove potremo compilare un interminabile elenco di traduzioni d’importanza storica: dai lirici greci tradotti in latino da Catullo e Orazio, dai brani di filosofi greci che Cicerone salvò traducendoli nelle sue opere, alle traduzioni di Omero nelle lingue moderne, e pensiamo a Dante tradotto centinaia di volte, a Shakespeare nella famosa traduzione tedesca di Schlegel e Tieck, a Poe tradotto in francese da Baudelaire, a Platone tradotto da Schleiermacher, e prima di tutto alla Bibbia, il libro più tradotto di tutti i tempi: dalla traduzione greca dei Settanta alessandrini alle traduzioni in copto, in siriaco, in etiopico, arabo; dalla Vulgata di San Girolamo alla gigantesca impresa di Lutero, il più grande avvenimento letterario del Cinquecento tedesco. Oggi la Bibbia è tradotta in più di mille idiomi.
Eppure si è sempre detto che tradurre è impossibile. Citerò soltanto alcuni grandissimi personaggi che hanno espresso questo parere. Anzitutto Goethe: il quale in un passo del Viaggio in Italia scrisse: «Intraducibili sono le particolarità di ogni lingua: infatti dalla parola più sublime alla più umile, tutto si riferisce a tratti caratteristici della rispettiva nazione». Schopenhauer: «Tutte le traduzioni sono necessariamente difettose. Non si può quasi mai trasportare un periodo significativo e caratteristico da una lingua in un’altra in modo che faccia lo stesso effetto».
Molto prima già Dante aveva notato l’impossibilità della traduzione. Nella parte prima del Convivio si legge il celebre brano: «E però sappia ciascuno che nulla cosa, per legame musaico armonizzata, si può della sua loquela in altra trasmutare, senza rompere tutta sua dolcezza e armonia». Se dunque nessuno scritto, per legame musaico armonizzato, cioè in versi, legati col vincolo delle Muse, si può trasportare da una lingua in un’altra, vuol dire che Dante anticipa le affermazioni sull’intraducibilità dell’opera poetica.
Più avanti, nell’Estetica di Benedetto Croce si trova la motivazione teorica dell’impossibilità di tradurre. Egli dice: «Le traduzioni non vengono mosse dalla impossibile speranza di dare gli equivalenti delle opere originali che non soffrono equivalenti; ma, direi, dal desiderio di carezzare la poesia che ci ha recato piacere: di carezzarla coi suoni della lingua che ci è nativa e familiare. […] La traduzione, sebbene non si adegui mai all’opera originale, la quale, nell’essere suo proprio, rimane intraducibile, presuppone nondimeno la rievocazione che dell’opera originale si sia fatta nello spirito del traduttore». Così il Croce, il quale dunque conferma l’intraducibilità.
José Ortega y Gasset, il pensatore e critico spagnolo, andava ancora più in là. No es traducir, sin remedio, un afán utópico?, si domanda. Non è il tradurre un’impresa disperatamente utopica? Secondo lui, è persino utopia credere che due parole appartenenti a due lingue diverse indichino la medesima cosa, anche se il dizionario ce le dà per equivalenti. Siccome le lingue si sono formate in diversi paesaggi e per influsso di diverse circostanze ed esperienze di vita, la loro incongruenza è naturale. È errato, per es., credere che ciò che lo spagnolo chiama bosque sia quello che il tedesco dice Wald: eppure il vocabolario assicura che bosque e Wald sono la stessa cosa.
Vero è che lo stesso Ortega arriva alla paradossale asserzione che l’uomo, quando si accinge a parlare, lo fa perché crede di poter dire ciò che pensa. Ma è un’illusione. La lingua può soltanto ridare una parte del nostro pensiero, è inesatta (tranne che per i concetti matematici), è ambigua, insufficiente. E per questa ragione un testo può essere tradotto in diversi modi da più traduttori, dato che uno non può accostarsi a tutte le dimensioni del testo originale.
A questo potrei aggiungere un’altra considerazione: che, cioè, la traduzione di una stessa opera varia non solo da un traduttore a un altro, ma anche da un tempo all’altro. Non è detto che una grande opera, una volta tradotta, magari magistralmente, sia tradotta per sempre. La lingua si modifica, si evolve; muta di giorno in giorno, è un essere vivo. Oggi leggiamo Tacito in traduzioni moderne, non certo in quella del Davanzati, pur così bella nella sua nervosa stringatezza.
[[Ciò mi porta ad accennare alla recente polemica linguistica circa l’invasione, o preminenza che sia, del linguaggio tecnologico. E qui bisogna dire, o almeno io avrei il coraggio di dire, sia pure con poca modestia, che la vera lingua italiana – data la necessità di farsi intendere da tutta la nazione – è la lingua umanistica che scrivono i traduttori, i buoni traduttori, quelli che lavorano con la dovuta serietà, senza cedimenti e facilonerie. Ma forse queste sono eresie che è meglio non dire.]]Comunque sia, e ripigliando il filo interrotto, resta il fatto che, a sentire poeti e filosofi, tradurre è un’impresa impossibile.
E allora, perché traduciamo? Perché tradurre non si può, è vero, ma si deve. Ecco la strana situazione del traduttore. Non solo oggi, ma sempre. Abbiamo visto infatti, sia pure per accenni, che dal giorno in cui nel mondo ci furono più lingue, gli uomini hanno sentito la necessità di ricorrere ai traduttori, ai dragomanni, agli interpreti.
E bisogna anche dire che gli illustri uomini citati, proprio quelli che in teoria negavano la possibilità della traduzione, furono traduttori a loro volta! Goethe, così pessimista in fatto di traduzioni, tradusse la Vita del Cellini, il Cinque maggio del Manzoni, il Nipote di Rameau dal francese di Diderot. E Dante non ha forse più volte tradotto Virgilio? Da pari suo, s’intende. Agnosco veteris vestigia flammae: «conosco i segni dell’antica fiamma»; si te nulla movet tantae pietatis imago: «se nulla di noi pietà di ti muove»; Iam nova progenies caelo demittitur alto: «e progenie discende dal ciel nova». Eccetera.
Il Croce, che pur aveva dichiarato impossibili le traduzioni, in quanto abbiano la pretesa di travasare un’espressione in un’altra, riconobbe l’ufficio di cultura che le traduzioni hanno esercitato ed esercitano concorrendo nel loro modo alla compenetrazioni spirituale delle varie età e dei vari popoli. Ed egli stesso tentò di tradurre una serie di poesie di Goethe. E così via.
Ortega, come abbiamo visto, uccide la traduzione, ma mentre proclama: La traducción ha muerto, aggiunge: Viva la traducción. La traduzione è un’utopia (secondo il concetto però che ogni attività umana è illusoria), ma non per questo è un’occupazione senza senso. È necessario anzi, dice Ortega, rinnovare il prestigio di essa e considerarla un trabajo intelectual de primero orden.
Se, dunque, tutte le nazioni e tutte le epoche hanno dato traduzioni famose, penso che non sarà il caso di disperare e di rinunziare a questa attività, così detta impossibile! (ma necessaria).
Sul problema poi del come si debba tradurre, il discorso sarebbe lunghissimo. Dirò soltanto che, secondo la mia convinzione, occorre immedesimarsi nello scrittore straniero, intenderne lo spirito e lo stile, e tradurre non macchinalmente le parole, ma il senso del testo. Noi dobbiamo rivivere l’opera straniera, e rinunziare a noi stessi. È vero, secondo quanto ho riferito del Croce, che la traduzione è espressione della personalità del traduttore, ma egli dev’essere umile, non deve violentare il testo né fare opera propria; altrimenti non sarebbe un traduttore.
Soffermiamoci un momento a considerare, in genere, le traduzioni di poesia. Dobbiamo tradurre in versi o in prosa? Una versione interlineare in prosa può avere il suo pregio quando persegue fini didattici e vuol dare a chi è poco pratico della lingua straniera il mezzo di studiare il testo. La poesia – come sosteneva Voltaire – va invece tradotta in poesia, tenendo conto che il traduttore d’un poeta sarà sempre un creatore originale. Lo disse il Foscolo, traduttore di Omero: «Alla traduzione letterale e cadaverica non può assoggettarsi se non un grammatico, ma alla versione animata vuolsi un poeta». E sentite la definizione che ci dà il traduttore russo Žukovskij: «Il traduttore in prosa è uno schiavo, il traduttore in versi un rivale». La qual cosa viene a coincidere con la teoria del Croce, che il traduttore deve avere una propria personalità «nella cui voce nuova si deve udire la risonanza di quella del poeta originale; in pratica, poi, la traduzione poetica deve obbedire alle uniche ragioni dell’arte e muoversi libera rispetto alle parole e alle immagini del testo originale, perfino togliendo e aggiungendo e variando dove l’arte lo richieda».
Certo, è più facile, forse, comporre poesie originali che tradurre. Il poeta che traduce è legato a un testo al quale deve obbedire, mentre il poeta originale ha la piena libertà di scegliere l’argomento e la forma, di seguire la sua ispirazione. Chi traduce deve rinunziare a se stesso e, insieme, far valere se stesso.
Si è detto che un traduttore può tradurre veramente bene un solo autore, un autore a lui, come si dice, congeniale. Non sono d’accordo con questa idea. Essa sarebbe giusta, se fosse vero che il traduttore deve esprimere e affermare soltanto la propria personalità. Si obietta che non può fare diversamente, che per forza, non potendo spogliarsi di se stesso, dovrà manifestare l’essere suo, e soltanto questo. È vero, egli troverà uno solo, o pochissimi autori, i cui pensieri o sentimenti coincidono coi suoi, autori che gli sono intimamente vicini, che gli sono fratelli, che scrivono come lui. Ma compito suo non è di affermare se stesso. Lo farà scrivendo di suo, non traducendo. Dovrà essere in grado di sentire, di vivere, di ridare anche quei testi che non sono in tutto rispondenti alla sua mentalità. Penso che possa avere non solo due anime come Faust, non solo tre cuori come Ennio (scrive Gellio: Quintus Ennius tria corda habere sese dicebat), ma tante anime quanti sono i poeti o gli scrittori che traduce: e accetto volentieri le parole di Rilke quando paragona il tradurre all’arte dell’attore. Come un bravo attore sa mettersi nei panni dei più vari personaggi e caratteri, ed essere oggi Re Lear, domani Amleto, così il traduttore si adeguerà a diversi stili e a diverse mentalità.
Se mi è lecito riferire un’esperienza mia, io ho tradotto più di cento autori, e sempre ho cercato – non dico di essere riuscito, dico che ho tentato – di scrivere ogni volta in modo diverso, cioè nel modo di ciascun autore, cercando di assimilarne lo stile. E qui sono felice di avvertire che con me è d’accordo nientemeno che Giacomo Leopardi il quale scrisse nello Zibaldone: «Il traduttore si sforza di esprimere il carattere e lo stile altrui, e ripetere il detto di un altro alla maniera e gusto del medesimo».
Sono infatti del parere che il lettore di un libro tradotto desideri sapere non solo che cosa ha detto lo scrittore, ma possibilmente anche come l’abbia detto. La sua curiosità vorrà conoscere le immagini usate, il periodare, l’andamento delle frasi, vorrà farsi insomma un’idea dello stile. E il traduttore dovrà appagare questa legittimità curiosità.
Io sono sempre dell’idea che si debba scostarsi il meno possibile dal testo. Ad esso bisogna attenersi, beninteso fin dove le regole della nostra lingua lo consentono.
E qui mi sembra opportuno spendere due parole per menzionare, accanto all’umiltà, un’altra qualità indispensabile del traduttore: l’onestà. Tradurre dovrebbe essere anche una scuola di moralità. Il traduttore infatti dev’essere onesto in quanto cercherà di comprendere il testo straniero nella sua totalità di forma e contenuto e di riprodurlo nella propria lingua integralmente, senza omettere frasi o righe o pagine perché scomode o irte di problemi. Certi traduttori non sono sinceri, scavalcano le difficoltà e barano. Chi traduce un grande autore non ha il diritto di travisarlo né di omettere nemmeno una parola. Quando nella traduzione di un famoso romanzo di Thomas Mann trovo che un capitolo di undici pagine è ridotto a una pagina e mezza, potrò ben dire che il traduttore è un disonesto, un delinquente letterario.
A questo punto, se permettete, vorrei inserire un capitoletto divertente. Vi dirò delle mie esperienze fatte controllando le traduzioni di varie persone, anche cospicue. Intendiamoci bene: non è per malignità, perché infortuni sul lavoro capitano a tutti. Piuttosto è quella tristezza che si annida sempre nel comico: il doloroso sorriso di Charlot. Penso infatti quanto facilmente possiamo cadere nei trabocchetti sempre aperti sul nostro cammino.
In un dramma di Raimund si legge: Ich habe ihm dreist ins Auge geblickt, e il traduttore scrive: L’ho fissato negli occhi ben tre volte. Come se dreist [risoluto] significasse «tre volte»!
Ein Erzengel [arcangelo]è diventato un «angelo di bronzo».
Nel Mare del Nord di Heine troviamo Nettuno che dice al poeta: Kein Härchen hast du versengt am Aug’ meines Sohns Polyphemos. Un noto scrittore tradusse: Immerso non hai nemmeno un capello nell’occhio del figliuol mio Polifemo. Dove versengt, da versengen [bruciare], è confuso con versenken, affondare. Come si fa, domando io, a non ricordare subito la famosa scena dell’Odissea dove Ulisse brucia l’occhio del Ciclope col palo infocato che lo si sente sfrigolare? Eppure quello scrive «immerso» anziché «non hai bruciato nemmeno un pelo intorno all’occhio di Polifemo».
Nel racconto Il cacciatore Gracco di Kafka si parla di un fruttivendolo che guarda il lago, den See, dalla banchina, von der Quaimauer. Questa Quaimauer diventa per il traduttore «i murazzi del lungomare». Ora, prima di tutto, un lago non può avere un lungomare; secondo, i «murazzi» ci sono soltanto nella laguna veneta tra Venezia e Chioggia. Chi conosce la biografia di Kafka fa presto a indovinare che qui si tratta di Riva del Garda dove egli, malato di tubercolosi, era andato per curarsi. Al principio del racconto è menzionata «una nuda parete di roccia grigia» che c’è appunto a Riva. E, come non bastasse, colui che viene a trovare il cacciatore Gracco alla domanda «chi sei tu?» risponde chiaramente «il sindaco di Riva». Con tutti questi elementi è possibile parlare di lungomare? Questo per dire che anche per tradurre le parole occorrono conoscenze che vanno al di là del dizionario.
«O porte, siete diventate colonne di sale?» esclama Cunegonda nella Caterina di Heilbronn di Heinrich von Kleist. Il testo dice: Ihr, Toren, che significa: O stolti! Il traduttore confonde Toren con Tore. E il conte Wetter vom Strahl non cavalcava una volpe: er ritt auf einem Fuchs, ma quel Fuchs era un cavallo sauro.
Er wischt ihm die Tränen mit einem Sacktuch, cioè: gli asciuga le lacrime con un fazzoletto. Semplice, no? Mit einem Sacktuch è tradotto «con un pezzo di sacco». Die Bergenfahrer, cioè i pescatori d’aringhe che vanno a Bergen in Norvegia, diventano «gli alpinisti».
Alcune perle molto belline le ho trovate recentemente. Der Gipfel des Granitbergs: la cima del monte Granit. Die Melodie eines Gassenhauers: la cantilena di un viandante [invece che: la melodia di una canzone popolare]. Ma la più bella è questa: in den Felsschründen der Rhätikonkette: nei crepacci della conca Rhäti. Lì per lì non riuscivo a capire. La conca? Die Rhätikon/kette non può essere che la catena del Rhätikon in Svizzera. Una catena di monti non è una conca. La conca Rhäti? Ecco la trovata: basta dividere Rhäti/konkette, ed eccola, la conchetta.
Gente che non immagina l’esistenza di declinazioni, di coniugazioni, ecc. Che cerca nel dizionario e prende la prima parola che trova. Ma ecco due esempi di mancanza di riflessione, di buon senso, di logica.
Nella Maria Magdalena di Hebbel il falegname mastro Antonio rievoca la sua povera vita e dice tra altro: Meine Mutter ernährte sich mit Spinnen, so gut es ging. «Mia madre si nutriva di ragni». Il dramma si svolge in una città tedesca. Si può immaginare che in Europa qualcuno si nutra di ragni? Basta riflettere un momento. E poi dice mit (filando), non von Spinnen.
Naturalmente ciò non avviene soltanto da noi, in Italia. Anche i francesi non scherzano. Quando per es. traducono il primo famoso monologo di Faust: Heisse Magister, heisse Doktor gar: On me nomme Maître – Docteur Gar. Noi credevamo che si chiamasse Faust; e invece no: si chiama Gar. E Margherita: Wie sie kurz angebunden war, / Das ist nun zum Entzücken gar [diventa] in francese: Et sa robe courte juste vraiment, c’était à ravir. Ve lo immaginate Faust che, anticipando i tempi, va dietro alla ragazza in minigonna, un palmo sopra il ginocchio? Questo si chiama essere aggiornati! [La frase va tradotta: è incantevole quanto fosse di poche parole.] […]
Dicevo che gli infortuni possono toccare a tutti. In 70.000 pagine che ho tradotto dal tedesco ne saranno toccati anche a me. Non è il caso d’infierire. Errare è umano e chi non ha mai errato scagli la prima pietra. Due o tre granchi in un volume di 500 pagine non demoliscono una traduzione. Giustamente il compianto editore Peter Suhrkamp (il quale leggeva le traduzioni prima di stamparle) fece notare che un errore di interpretazione o un malinteso non decide della bontà di una traduzione nel suo complesso. Più che cercare il pelo nell’uovo il critico dovrebbe vedere se le buone qualità della traduzione corrispondono alle buone qualità dell’originale, alle qualità fondamentali che rendono accettabile una traduzione. Le sviste un editore le può eliminare poi facilmente.
Certo è che, sia per l’ignoranza di molti traduttori, sia per la trascuratezza degli editori, l’attività di chi traduce gode ben poca considerazione. È diffuso il convincimento che tradurre sia la cosa più facile di questo mondo. Specialmente tradurre dal francese, […] come se proprio il francese fosse una lingua facile e non nascondesse mille trappole insidiose. Pochi si rendono conto delle difficoltà che s’incontrano nel nostro lavoro. Invece: «So benissimo – scrisse Lutero in una celebre lettera – e gli altri sanno meno di quanto non sappia l’animale del mugnaio, des Müllners Tier, quanta arte, precisione, intelligenza richieda il tradurre, perché non hanno mai provato». E il lettore che si trova davanti a pagine pulite e scorrevoli non sa (continua Lutero in quel suo meraviglioso tedesco rude e sanguigno), welche Wacken und Klötze da gelegen sind, wo er jetzt drüber hingehet, wie über ein gehobelt Bett, non sa quali massi e macigni c’erano dove egli passa ora come su una tavola piallata, e non sa come abbiamo dovuto sudare e angustiarci per togliere di mezzo quei massi e quei macigni e facilitargli il passaggio.
[[Ed eccomi a parlarvi di un’altra esperienza, piuttosto triste e sconfortante.Siccome la gente pensa che tradurre è così facile, quale rispetto si potrà avere per il traduttore e per le sue fatiche? Nessuno, evidentemente. Così si arriva al conflitto fra il datore di lavoro e quel povero artiere che è il traduttore. Per capire la situazione bisogna rifarsi al Codice civile, alla legge sul diritto d’autore, la quale, a chiare lettere, stabilisce che autore e traduttore, in quanto a doveri e diritti, sono equiparati. Ed è ovvio che lo siano, dato che anche il traduttore è scrittore. La legge prescrive che l’autore sia pagato a percentuale. Data l’equiparazione, il traduttore dovrebbe avere lo stesso trattamento economico. Invece no: il traduttore è pagato (con rarissime eccezioni) a stralcio, à forfait, una volta tanto. Non solo, ma le condizioni contrattuali che è costretto a firmare sono iugulanti. Col contratto egli deve cedere il diritto esclusivo di stampa, pubblicazione sotto qualsiasi forma (volume, periodici, dispense, appendice ecc.), utilizzazione di parti ad uso di antologie, compendi, raccolte, dizionari, enciclopedie ecc., di adattamento radiofonico e televisivo, di sfruttamento cinematografico e di apparecchi riproduttori di suoni, voci o visioni, nonché il diritto di elaborazione in altra forma artistica e di cessione parziale o totale ad altri. Il traduttore cede tutto. Ancora un passo, e gli si chiederà di cedere anche la camicia.
In cambio di tutto questo l’editore dà una somma à forfait e per la cessione della traduzione ad altri riconosce al traduttore il 30% del ricavo. E buona notte, sonatori.
Il traduttore può non firmare il contratto. Ma allora perde il lavoro: l’editore trova subito un altro che il contratto lo firma, è un’esperienza che ho fatto personalmente.
Ma ne ho fatta anche un’altra, proprio in questi giorni. Due anni fa, per puro caso, acquistai a un’edicola una rivista, uno dei tanti rotocalchi che non leggo mai, e ci trovai la puntata di un romanzo tradotto da me. Il nome del traduttore non figurava. L’editore aveva venduto la mia traduzione alla rivista e, se non compravo per caso quel numero, non ne avrei mai saputo nulla. Forse l’editore non era neanche in mala fede, ma quella maniera di essere trascurato, il costume di trattare sempre un povero diavolo come uno straccio che si butta in un canto, mi irritò, e siccome con quell’editore non avevo un contratto come quello che vi ho letto, gli feci causa. Pochi giorni sono, i giudici del tribunale di Milano mi hanno dato ragione e hanno condannato l’editore a pagare ciò che, secondo la loro valutazione, mi spetta. Naturalmente la conseguenza sarà che quell’editore non mi affiderà mai più un lavoro e preferirà darlo a persone che non piantano grane…
Il fatto è che, mentre gli operai hanno capito da un secolo che per ottenere miglioramenti occorre essere uniti, noi traduttori letterari siamo sbandati e non abbiamo ancora acquistato una nostra figura giuridica, non abbiamo saputo formare un’unione abbastanza forte per imporre il riconoscimento dei nostri diritti. La colpa è nostra.
Volete altre prove del dispregio o, diciamo più moderatamente, della poca considerazione in cui siamo tenuti? Ecco qua.]]
Rari sono ancora gli editori che mettono il nome del traduttore sul frontespizio accanto a quello dell’autore; lo cacciano invece in qualche angolo insieme con l’indirizzo della tipografia.
Rari sono i lettori che cerchino nel libro il nome del traduttore o della traduttrice e provino un briciolo di gratitudine, Dovrebbero pur pensare che, non conoscendo quella data lingua straniera, non avrebbero mai potuto leggere quel libro, quel romanzo, quella poesia, se non ci fosse stata la fatica del traduttore.
Rarissimi sono i recensori che, presentando un libro tradotto, citino il traduttore. Fanno magari gli elogi della traduzione, ma il nome del traduttore non appare. Eppure sarebbe tanto utile che i giornalisti dicessero bene delle traduzioni buone e (motivando il loro giudizio) dicessero male delle traduzioni malfatte. Come si fa la critica teatrale, la critica cinematografica, la critica televisiva, perché nelle pagine letterarie non fare anche quella delle traduzioni? Sarebbe un’opera meritoria, non solo a vantaggio dei letterati, ma degli stessi editori, i quali ne trarrebbero un orientamento per la scelta dei collaboratori in questo settore, Il giudizio pubblico contribuirebbe a migliorare la qualità delle traduzioni.
[[La serie delle lagnanze non è terminata. Ma quasi. (Non abbiate timore. Non le elencherò tutte. Abbastanza vi ho annoiati.) Dirò ancora di un’esperienza che ho fatto con quell’utilissima categoria che sono i revisori.Ogni editore che si rispetti o legge o almeno fa leggere da un revisore di fiducia le traduzioni che arrivano. Per bravo che sia il traduttore, qualcosa da ritoccare ci sarà sempre. Nessuno è infallibile. I revisori sono quindi preziosi indispensabili, ma devono essere collaboratori del traduttore. (Non piangerò mai abbastanza la perdita del mio caro Egidio Bianchetti il quale non correggeva mai, se non le sviste palesi, ma segnalava i dubbi che gli si affacciavano durante la lettura, e aveva quasi sempre ragione.) Certi revisori invece la fanno da padreterni e lavorano di matita blu come la maestra nei compitini dei ragazzi. Vi potrei citare un’infinità di casi che denotano soltanto la presunzione e l’albagia dei revisori. Vi do un unico esempio: l’anno scorso un editore, se non lo fermavo in tempo con un telegramma di 40 parole minacciando una querela, mi pubblicava un volume senza farmi vedere le bozze, con la scusa della fretta. La fretta però non è un argomento artistico (e nel caso concreto era imputabile a lui che aveva tenuto lì il manoscritto per oltre due anni).]]
Speriamo che le cose migliorino col tempo, perché possiamo prevedere che, tradurre, si tradurrà sempre. Sempre? Così ho affermato da principio. Che si sia sempre tradotto e si traduca oggi a spron battuto, non è più un mistero per nessuno. Ma ipotecare il futuro, dire che sempre si tradurrà, non è forse avventato? È lecito fare profezie così, come se niente fosse?
Vediamo, e scusatemi se ciò che sto per dire vi sembrerà fantascienza.
Voi sapete, e lo vediamo tutti i giorni, che a causa dell’immigrazione, o diciamo meglio, della trasmigrazione, dello spostamento di molta gente da una regione all’altra, i nostri dialetti, che fino a ieri erano fissi e distinti, si vanno mescolando e modificando, e cercano di diventare un linguaggio sempre più uniforme, comprensibile nelle varie regioni, una lingua comune, una koiné. Non che questa sia già formata o prossima a formarsi, ma i sintomi ci sono. Pensiamo, anche, al linguaggio tecnico, i cui vocaboli, le cui sigle, i cui neologismi sono compresi non solo in tutte le regioni di un paese, ma nel mondo intero. Così c’è già una lingua internazionale del traffico, una terminologia della navigazione, dell’aeronautica, dell’astronautica, delle industrie, che mira a un linguaggio di simboli immediatamente comprensibili come quelli della matematica e quelli della scrittura cinese.
Con la rapidità dei mezzi di locomozione, con la fulminea diffusione della parola mediante la radio, con l’accostamento dei costumi di un popolo agli occhi di tutti mediante la televisione, con altri progressi che certo si faranno, si viene e si verrà stabilendo una equiparazione, un livellamento che in altri tempi non era neanche pensabile. E questa compenetrazione sempre più veloce porterà (è probabile) anche a un livellamento dei linguaggi.
Non so (ma voi europeisti me lo potreste certo insegnare) a che punto siano le considerazioni sull’adozione di una o più lingue in quelli che saranno un giorno gli Stati Uniti d’Europa. Una lingua d’intesa ci dovrà pur essere: o quel francese che fu per secoli la lingua dei diplomatici e dei contatti spirituali fra i popoli, o quell’inglese che oggi si è diffuso e si va facendo sempre più strada nel mondo, o – se sono bene informato – il così detto “bilinguismo” che imporrebbe a ciascuna nazione europea l’apprendimento obbligatorio dell’inglese e del francese. So che, per es., nei convegni e nei periodici della F.I.T. (Fédération Internationale des Traducteurs) le due lingue ufficiali sono il francese e l’inglese, mentre nei congressi della Comunità europea degli Scrittori sono ammesse sei lingue europee (francese, inglese, italiano, tedesco, russo e spagnolo) e l’intesa generale si ottiene mediante la traduzione simultanea.
Tutti sappiamo che si sono fatti tentativi di creare lingue universali artificialmente, tutte destinate a fallire, anzitutto perché, essendo inventate, non sono lingue madri di determinati gruppi etnici, non possono essere cioè lingue vive, e anche perché, se si trovasse il modo di imporle per forza, finirebbero con l’assumere differenze fonetiche tra i vari popoli e col suddividersi, pertanto, rapidamente in dialetti e lingue diverse, e si sarebbe daccapo.
Ma resta pur sempre possibile, in teoria, che attraverso il livellamento tra le attuali lingue vive, si giunga a una lingua intesa in tutto il mondo.
È un’ipotesi, magari lontanissima, non certo una soluzione. Ve la do come tale, affinché chi vuole possa accendere la sua fantasia intorno alle conseguenze che ne deriverebbero. La più bella, o io m’illudo, o sarebbe la definitiva scomparsa dei traduttori, di questi paria della letteratura, misconosciuti, maltrattati e spesso disprezzati.
Intanto però continueremo a tradurre, convinti di svolgere un’attività utile, di fare da intermediari tra una nazione e l’altra, di contribuire, sia pure modestissimamente, all’avvicinamento tra i popoli mediante la potenza del linguaggio.