IL CASO DELL’OMELIA GRECA SU GIONA E NINIVE DI EFREM SIRO
di Emanuele Zimbardi
Delle due culture antiche più note in Occidente, quella greca e quella latina, la prima ha sempre giudicato barbaro e inferiore ogni altro popolo che non utilizzasse la sua lingua, mentre la seconda, pur ammettendo il suo debito intellettuale verso quella greca, in una fase più matura si è posta in termini di emulazione nei confronti della civiltà ellenica. Dunque, si deve imputare alla selezione arbitraria del patrimonio letterario greco e latino, ispirata a monte da un’ideologia di supremazia culturale, il fatto che la maggior parte dei testi sopravvissuti sia costituita da opere originali e poco da traduzioni. L’apporto delle culture esotiche all’accrescimento di quella greca e romana ci sembra oggi quasi irrilevante, benché sia presumibile che esso sia stato invece piuttosto consistente, soprattutto a seguito della creazione di estesi imperi multiculturali in Asia e nell’Africa settentrionale, dove erano già fiorite o vennero a fiorire letterature in lingue autoctone. Fu l’avvento del cristianesimo come religione dominante dell’impero a incrinare l’ideale di superiorità greco-romana, a favore di una nuova ottica “cattolica”, cioè universale, ed ecumenica: ciò rese più frequente soprattutto l’interscambio del greco con le culture orientali circostanti.
L’incontro più fecondo che la letteratura bizantina fece in Oriente fu forse quello con la cultura siriaca. Con tale aggettivo si indicano una letteratura eminentemente cristiana e le corrispondenti Chiese che si sono espresse attraverso una lingua semitica appartenente al cosiddetto «complesso aramaico», il siriaco. Esso divenne dalla fine del II secolo d.C. lingua letteraria scritta, usata da autori provenienti dalle più disparate zone delle province orientali dell’impero (dal Sinai alla Siria, dalla Turchia all’Iran) e oltre (Cina e India, in seguito alle missioni evangelizzatrici durante il Medioevo). L’affermazione definitiva del siriaco come lingua di cultura fu segnata dal suo divenire lingua della Chiesa in Oriente, specialmente dopo gli scismi che allontanarono i cristiani siri orientali dall’orbita bizantina.
Quando greco e siriaco vennero a incontrarsi, nei primi secoli dell’era cristiana, ciò avvenne su un terreno particolarmente fertile, già nutritosi di almeno cinque secoli di convivenza tra la koiné alessandrina e le diverse varietà dialettali aramaiche. La traduzione letteraria rappresenta solo il livello dotto di un complesso fenomeno di contatto interlinguistico trasversale, avvenuto in un ambiente socio-culturale molto variegato: il bilinguismo greco-siriaco va qui inteso nel senso di un incontro (ora confronto ora scontro) tra due lingue eminentemente scritte, depositarie del medesimo prestigio in un’area dove la maggior parte della popolazione parlava un dialetto aramaico. Ovviamente, la forte eredità della letteratura greca dava a questa lingua un vantaggio non indifferente sul siriaco; quest’ultimo si mostrò più permeabile all’apporto del greco, che servì a nutrire la sua scarna letteratura e a fornirla di un adeguato apparato teorico in ambito teologico, filosofico e scientifico. In questo senso si spiegano le traduzioni dei padri della Chiesa, di Aristotele, in particolare della logica aristotelica, della medicina, delle opere zoologiche e botaniche (le stesse opere fondanti della conoscenza sulla realtà che, escludendo i testi teologici, saranno tradotte dal siriaco all’arabo e, infine, da quest’ultimo torneranno in Occidente attraverso le traduzioni latine dal Duecento in poi).
Tuttavia, anche il greco fece sue diverse opere siriache, anche se in misura minore rispetto al siriaco. Un caso eclatante, e per certi versi sorprendente, è quello di Efrem (circa 306-373), uno dei più importanti autori della letteratura siriaca. Nato al confine con la Persia, si trasferì poi a Edessa, capitale dell’Osroene e luogo d’origine del siriaco, per condurre la sua attività di predicatore, esegeta biblico e innografo cristiano. La fama di questo autore era ed è tuttora enorme: noto in antico come l’«arpa dello spirito», fu celebrato per l’acutezza del suo pensiero e la finezza del suo stile, che facevano di lui un perfetto portavoce dell’ortodossia cristiana. La vastità delle sue opere conosciute appare sospetta: molti sono certamente i falsi a lui attribuiti, così come le opere in altre lingue cristiane d’Oriente che figurano sotto il nome di Efrem. È comunque certo che esistette un denso fenomeno traduttivo di opere siriache (di Efrem o presunte tali) in molte lingue, al punto che al giorno d’oggi si sono costituiti dei cataloghi di opere, veri rompicapi ecdotici, per la maggior parte ancora non studiati ed etichettati con il nome della lingua in cui sono composti: Efrem greco, latino, armeno, georgiano, copto, arabo ed etiopico.
Nel corpus di Efrem greco spicca un’omelia in versi di cui è noto il prototesto siriaco. Si tratta di una lunghissima riscrittura (2142 versi) dell’episodio biblico del profeta Giona a Ninive, appartenente al genere siriaco del mēmrā (letteralmente «discorso»), cioè un’omelia in versi, il cui schema metrico prevede la successione di coppie di emistichi costituiti da un eguale numero di sillabe (tale principio metrico viene definito “isosillabismo”). Il testo è attribuito dalla tradizione manoscritta a Efrem e si può oggi leggere in un grande numero di manoscritti e testi a stampa, non solo in siriaco e in greco, ma in ben altre quattro lingue antiche: armeno, georgiano (dipendente dalla versione greca), latino ed etiopico (per quest’ultima si presuppone una versione intermedia in copto o in arabo non pervenuta). La poderosa diffusione dal punto di vista quantitativo e cronologico (circa trenta testimoni, cioè codici manoscritti, nelle sei lingue, dal VI al XX secolo) consente di definire quest’opera, con una certa approssimazione moderna, un best seller della spiritualità cristiana antica. Le diverse traduzioni sono state pubblicate tra Ottocento e Novecento in vari articoli; tuttavia, le edizioni finora fornite non si possono ritenere filologicamente affidabili, in quanto redatte senza tenere in considerazione il prototesto siriaco. Di conseguenza, gli studi compiuti su queste traduzioni sono incompleti e, nella maggior parte dei casi, disponiamo soltanto di osservazioni cursorie e sparse, che non si soffermano su un’analisi testuale approfondita in rapporto al testo fonte in siriaco.
Contrariamente alle traduzioni moderne, collocabili nello spazio e nel tempo e il cui traduttore non è quasi mai ignoto, le versioni di Efrem sono anonime e non datate. Ci sfugge completamente il contesto della traduzione, dal momento che spesso mancano i dati storici nei testimoni manoscritti (anche se vi fosse un colofone che indicasse il nome del copista e l’anno in cui il codice fu vergato, comunque mancherebbero le informazioni essenziali per comprendere quando avvenne la composizione della traduzione stessa). Per questo motivo, l’indagine sulla traduzione dell’omelia su Giona e Ninive, benché essa si possa leggere in numerose lingue, è inevitabilmente limitata a fattori interni: linguistici, contenutistici e testuali (o paratestuali). Attraverso l’analisi di questi dati è possibile tracciare i contorni di quella che doveva essere la figura intellettuale del traduttore, un’immagine solo indirettamente conoscibile. Tuttavia, le indagini sul testo possono rilevare talora elementi molto interessanti, come quelli che verranno presentati di seguito. Essi rappresentano un saggio dell’analisi complessiva, in cui sono impegnato attualmente, della traduzione greca in rapporto al suo prototesto siriaco.
Un elemento che spicca nella versione greca è l’“autorialità” del traduttore, vale a dire la sua consapevolezza di essere a tutti gli effetti un autore creativo e attivo nell’ambito letterario. Egli, infatti, si propone di traslare in greco non solo il contenuto dell’opera, ma anche, e soprattutto, la sua metrica, ricreando sul modello siriaco uno schema ritmico-musicale fino a quel momento inesistente nel mondo greco, basato sulla ripetizione di unità metriche costituite da un eguale numero di sillabe. La perizia tecnica del traduttore emerge in controluce dalla perfetta regolarità della griglia isosillabica in cui incasella il testo da tradurre in greco; ma proprio l’atto di rendere anche la metrica del prototesto è un forte indizio di una scelta del traduttore, che ci informa del valore letterario da lui attribuito all’opera e della dimensione performativa della stessa omelia. Il testo della traduzione non è soltanto una trasposizione del contenuto dell’opera, bensì un testo nuovo in lingua greca, rifunzionalizzato per le esigenze di un pubblico grecofono.
Nell’operazione di traduzione è inevitabile che si verifichino delle omissioni di varia portata, da singoli termini o sintagmi fino a intere frasi e più o meno ampie perìcopi, cioè brani di senso compiuto e autonomi. Questo processo di “erosione” del testo di partenza è dovuto, nel caso specifico dell’omelia su Giona, soprattutto alle esigenze metriche, che costringono il traduttore a semplificare il testo di partenza per far rientrare il contenuto delle singole unità ritmiche siriache in quelle corrispondenti greche, secondo un preciso e ineccepibile isosillabismo. Il testo greco trasmessoci dai testimoni manoscritti riproduce circa 1700 dei 2142 versi siriaci, omettendo dunque una porzione alquanto consistente del testo originale. Tuttavia, è difficile discernere con certezza se le sezioni di testo trascurate fossero già assenti nell’antigrafo siriaco da cui fu approntata la traduzione o se, invece, il traduttore abbia accorciato un testo da lui giudicato troppo lungo.
A tal riguardo, vi sono due palesi segnali interni che il traduttore pare aver inserito deliberatamente per indicare un intervento di omissione testuale. Si tratta di due formule di preterizione del tipo quid dicam? che vengono fatte rientrare perfettamente nello schema metrico e che figurano in due passi omologhi dal punto di vista stilistico: enumerazioni di immagini giustapposte a fine patetico, secondo le tecniche retoriche dell’amplificatio e del parallelismo proprie della poesia siriaca. Presento prima il testo siriaco, poi quello greco:
’en ‛awlē ṣām men ḥalbā : mannu dḥammrā šātē wā (Beck 1970a, vv. 167-168)
Se i neonati si astenevano dalla poppata, chi c’era che ordinasse lusso? (traduzione mia)ti hoti tauta legō · ei ta nēpia autōn · ouk ethēlazon mamman · tis upērkhen ho truphōn; (Hemmerdinger-Iliadou 1967, par. 16, rr. 2-3 [modificato])
Che bisogno c’è che io dica queste cose? Se i loro neonati non andavano alla poppata, chi c’era che vivesse nel lusso? (traduzione mia)
La domanda retorica iniziale, come si vede, è del tutto assente nel testo siriaco e si trova in apertura di una lunga accumulazione di immagini di grande impatto emotivo, una sorta di squarci descrittivi su quello che sta accadendo in Ninive, dove il terrore per l’imminente distruzione annunciata fa pentire gli uomini e gli animali che la popolano: essi praticano intensivamente digiuno, castità e lamentazioni per manifestare il proprio pentimento e dunque cercare di essere risparmiati. L’enumerazione occupa un consistente numero di versi (167-200), dieci dei quali omessi dal traduttore greco (189-196; 199-200).
Nel secondo passaggio, la manomissione del testo è ancora più marcata e viene segnalata in modo simile a questo primo esempio:
ninwāyē dēn estarrad : ‛al ‛wālā daḥzā tamman (Beck 1970a, vv. 1807-1808)
I Niniviti rimasero inorriditi per l’empietà che videro in quel luogo.kai ti ta polla legein · pasan gar tēn manian · kai tekhnēn tou satana · ekei etheasanto (Hemmerdinger-Iliadou 1967, par. 81, rr. 12-13 [modificato])
E che bisogno c’è di dire molto? Infatti videro in quel luogo ogni follia e ogni trucco di Satana. (traduzione mia)
Questa formula di preterizione è molto simile a quella precedente: si tratta ancora una volta della voce del traduttore, che però decide di inserire il suo intervento non all’inizio della sezione che accorcia, bensì alla fine. La lunga enumerazione, che riguarda le empietà commesse dal popolo di Israele cui assistono i Niniviti dall’alto di un colle, si dispiega per 72 versi (1757-1806), più della metà dei quali vengono eliminati nella traduzione greca (1757-1806).
I due esempi appena presentati illustrano la consapevolezza del traduttore di stare intervenendo su un testo da lui ritenuto eccessivamente ridondante, ben oltre le consuetudini della poesia greca tardoantica più barocca. La volontarietà della modificazione testuale contribuisce a creare un’immagine di un traduttore-poeta che si fa autore, stabilendo quali porzioni di testo cassare. Nell’ambito di questa manipolazione, la formula di preterizione non ha il solito valore retorico di recusatio, ma sembra suonare piuttosto come un gesto di sfida contro la prolissità della descrizione siriaca. Si tratta, a livello retorico-stilistico, di un conflitto tra lo stile orale dell’inno, costruito sull’accumulazione di immagini, e quello dell’arte forense greco-romana, basato su una più razionale selezione delle ripetizioni in vista del fine persuasorio: la risoluzione di tale conflitto a favore della retorica greca si può intendere come una vera e propria scelta d’autore.
Si può notare nel corpo del testo l’immissione di almeno due (ma forse ve ne sono di più) “varianti di traduzione”, dovute all’intervento redazionale dell’interprete stesso o di un secondo revisore del testo. Si tratta di correzioni, presumibilmente in un primo tempo aggiunte a margine, collegate a termini il cui significato non era più parso congruo all’originale siriaco o a parole il cui numero di sillabe violava lo schema metrico. Nel corso della trasmissione testuale, queste “varianti traduttive” sono state spostate dall’apparato paratestuale al corpo del testo; insieme ad esse, vi sono confluite anche l’espressione o la parola che segnalavano la variante stessa («piuttosto, anzi» e «oppure, meglio»). La prova metrica conferma la secondarietà di queste correzioni, pensate per essere sostituite a una prima versione del testo: togliendo la parola-segnale e sostituendo la correzione alla parola da rivedere, il metro e il senso sono perfettamente congrui. Non è dato sapere con certezza se questi emendamenti rappresentassero degli interventi estemporanei dovuti a una rilettura più attenta dell’opera; tuttavia, la natura letteraria e la precisione metrico-linguistica di tali interventi fanno ipotizzare che il testo fosse stato sottoposto a una revisione sistematica di cui la facies del testimone greco non riflette più l’intero processo. I passaggi vengono riportati di seguito (tra parentesi quadre si segnala la porzione di testo da omettere):
šam‛uy malkē w-eštappal : šdaw tāḡayhon wetmakkav (Beck 1970a, vv. 49-50)
Lo udirono i re e si umiliarono; gettarono via le loro corone e furono in lutto (traduzione mia).ēkousan oi basileis · [kai etarakhthēsan · mallon de] kai etapeinōthēsan · kai tous stefanous autōn · rhipsantes epenthēsan (Hemmerdinger-Iliadou, par. 6, rr. 2-3 [modificato]).
Udirono i re [e furono sconvolti, anzi] e si umiliarono, e gettando via le loro corone furono in lutto (traduzione mia).lā estarrad wetdaḥel : lā et‛aker wetdawad (Beck 1970a, vv. 651-652).
(Giona) non fu spaventato né intimorito; non fu intimidito né sconvolto.Autos de ouk eptēksen · oude edeiliasen · oude [ethorubēthē] · oude mēn ethroēthē · [h] enetrapē (Hemmerdinger-Iliadou, par. 38, rr. 3-4 [modificato]).
Costui non fu spaventato né intimorito, né [fu scosso o] fu intimidito, e neppure fu sconvolto (traduzione mia).
Una conferma della natura correttiva di queste porzioni testuali ci è offerto dalla traduzione georgiana del testo greco, conservata in un manoscritto del IX-X secolo: qui, le parole-segnale non compaiono e le correzioni sono al loro posto, già sostituite alle parole che devono correggere (sotto il profilo ecdotico, ciò porterebbe a pensare che l’antigrafo greco del georgiano avesse già quell’aspetto, oppure che il traduttore georgiano abbia tenuto conto delle varianti di traduzione applicandole direttamente al testo che traduceva). Grazie alla conservatività della tradizione manoscritta greca, gli studiosi possono oggi prendere contezza dell’operazione di revisione cui il testo fu sottoposto: un’operazione che era, insieme, filologica (perfezionare la resa linguistica e assicurare un perfetto schema metrico) e editoriale (garantire la “pubblicazione” di un testo senza errori).
Gli scarti della traduzione greca rispetto all’originale siriaco (quelli che nei translation studies vengono definiti shifts) rivelano un atteggiamento alquanto libero e creativo nei confronti di certe porzioni testuali, sottoposte a un drastico accorciamento o del tutto eliminate. Interessanti sotto il profilo culturale sono i cambiamenti “ideologici”, che toccano concetti specifici e atteggiamenti mentali del mondo siriaco, ma che sarebbero suonati estranei o forse persino incomprensibili alla cultura greca: in tali casi, la traduzione si può ritenere una sorta di adattamento di natura ideologica. Vengono scorciate tre lunghe tirate antiebraiche del testo originario (l’antisemitismo è un topos molto sfruttato da Efrem, spesso con risvolti dottrinali); scompaiono molti riferimenti a personaggi biblici cui il comportamento di Giona o dei Niniviti viene assimilato; infine, è obliterato il nome con cui i siri usavano – e alcuni usano tuttora nazionalisticamente – implicare l’appartenenza a un’unica identità storica ed etnica (’atōr, cioè l’antica Assur, vista come fulcro originario delle genti aramee).
Quest’ultimo caso è alquanto rilevante, dal momento che si registra ora l’omissione (519-520) ora la sostituzione del termine con il toponimo «Ninive» (Beck 1970a, 529 = Hemmerdinger-Iliadou 1967, par. 35, r. 1; 1103 = 57, 7) ο il nome dei cittadini, «Niniviti» (827 = 45,4): la scelta del traduttore è costante nel non traslare in greco la parola siriaca ’atōr, benché nella lingua greca esista un corrispondente (Assour). Probabilmente, la designazione della città e dei suoi cittadini attraverso l’antico nome della capitale dell’impero assiro sarebbe sfuggita a un lettore greco, al quale la connotazione nazionalistica del termine era del tutto estranea: per favorire dunque la comprensibilità del testo al pubblico di lingua e cultura greca, viene operata dal traduttore questa manomissione terminologica, consistente nell’utilizzazione di un traducente normalizzante e privo di connotazioni ideologiche.
Una serie di omissioni si possono accomunare in base al fatto che sembrano essere finalizzate alla riduzione della carica antigiudaica che affiora in almeno tre sezioni del mēmrā siriaco (901-920; 1089-1164; 1735-1808). Le pericopi tralasciate (909-916; 1121-1136; 1757-1806, cui si può aggiungere l’obliterazione dei versi 1147-1164) tendono a sfrondare ognuna la rispettiva sezione, eliminando molte delle immagini di empietà e di paganesimo che Giona vede nella terra d’Israele, messa a confronto con Ninive, ormai emblema di una devozione pienamente cristianizzata. Le omissioni interne alle ultime due tirate antiebraiche coprono circa la metà della sezione stessa; pertanto, sembra verosimile supporre che al traduttore non interessasse insistere eccessivamente sulla descrizione negativa del popolo di Israele.
Più interessanti sono certamente le chiare omissioni di exempla biblici tratti dall’Antico Testamento, che appaiono molto frequentemente nella poesia di Efrem. La prima è una lunga omissione dei versi 573-630: il re di Ninive inserisce nel mezzo del suo discorso una digressione sull’episodio dell’arca di Noè, cui paragona le sorti della città; è improbabile che la pericope lacunosa sia dovuta a un difetto della tradizione testuale, poiché i versi mancanti nel greco coprono esattamente l’intero excursus in sé compiuto, ed è perciò pensabile che l’interprete abbia operato un taglio eliminando l’intero racconto biblico. Altre omissioni di minore estensione si trovano ai versi 743-756, dove compare l’eziologia del digiuno penitenziale spiegata attraverso le vicende di Mosè e di Elia, e ai versi 829-836, dove si trovano dei riferimenti cursori alle tentazioni di Satana, a Esaù e a Giacobbe. L’unica spiegazione che pare accomunare queste omissioni volontarie del testo fonte potrebbe essere l’eliminazione dei punti di contatto tra la vicenda dei Niniviti e quelle esemplari vissute dai grandi patriarchi dell’Antico Testamento, in un tentativo di ridurre la portata altrettanto esemplare assunta da Ninive stessa: il motivo ideologico del testo siriaco viene giudicato, come già per il termine ’atōr, inappropriato ad un pubblico greco.
Dai pochi ma rilevanti esempi forniti in questa disamina della tecnica traduttiva utilizzata dall’anonimo interprete del sermone di Efrem in greco emerge uno schizzo della figura che si è dedicata a questa raffinata operazione culturale. Colto e versato nella conoscenza del siriaco e del greco (il traduttore non commette alcun errore semantico o grammaticale e sfrutta con estrema elasticità tutte le possibilità espressive offerte dalla lingua d’arrivo per interpretare la lingua di partenza), egli considera sé stesso un traduttore autorizzato ad intervenire anche in profondità sul testo di partenza laddove lo ritenga necessario, in una perfetta autocoscienza autoriale. Gli strumenti interpretativi da lui utilizzati sono vari: innanzitutto una griglia metrica complessa, ispirata alla scansione ritmica del mēmrā che sta traducendo e nuova nel panorama letterario greco; una fedele resa del testo originale verso per verso, congiuntamente a un atteggiamento disinvolto nei confronti di certe sezioni del siriaco; omissioni che tendono a rivedere la natura retorica e stilistica del testo e modificazioni che ne mutano alcune connotazioni ideologiche inadeguate alla ricezione del pubblico greco; infine, una revisione “editoriale” accurata del testo tradotto che ha generato varianti traduttive.
Visto l’alto valore letterario, oltre che spirituale, dell’omelia poetica su Giona e Ninive in greco, non stupisce che essa sia stata ricopiata fino al XIV secolo (epoca a cui risale l’unico testimone greco disponibile). Un simile destino hanno avuto anche le versioni in altre lingue, i cui manoscritti più recenti si spingono addirittura fino al XV secolo (armeno) e al XVIII secolo (etiopico). Un’analisi completa delle altre traduzioni si rende ormai necessaria non solo per comprendere meglio la natura dell’interscambio culturale e spirituale tra le letterature cristiane in Oriente, ma anche per fornire nuovi casi di studio per approfondire l’approccio traduttivo nei singoli sistemi letterari. Con l’analisi della traduzione greca che stiamo compiendo si sta realizzando un piccolo passo verso questo obiettivo; per il momento, ci contentiamo di aver gettato uno sguardo fugace nell’officina dell’anonimo interprete e un abbozzo delle sue competenze e dei suoi atteggiamenti.
Se il nostro anonimo traduttore greco si è cimentato con una lingua come il siriaco che aveva l’occasione di praticare più o meno tutti i giorni, per l’interprete contemporaneo la resa italiana delle versioni in entrambe le lingue antiche si presenta complessa già per l’impossibilità di riferirsi all’uso vivo e attuale di quegli specifici idiomi. Superati gli ostacoli legati alle ovvie discrasie nel sistema grammaticale (per esempio, il siriaco conosce una sola forma sintetica di passato, mentre il greco ne ha ben quattro, ma entrambe le lingue non hanno la consecutio temporum), spesso appare complicato afferrare tutte le sfumature di significato attribuite a un termine. I vocabolari riportano sì i diversi traducenti per una parola, ma mancano il più delle volte i contesti d’uso, cioè quelle che in lessicografia si chiamano le collocazioni: ad esempio, ai versi 684-685 Efrem dice di Giona che «si è fatto una faccia di bronzo» (beyt ‛aynē danḥāšā taqqen) e il greco rende l’espressione esattamente allo stesso modo (to prosōpon autou khalkoun poiēsas – Hemmerdinger-Iliadou, par. 40, rr. 3-4). La giuntura non è attestata né nei lessici siriaci né in quelli greci e non è nemmeno pensabile che essa abbia lo stesso significato dell’idiomatismo italiano «faccia di bronzo», a indicare una persona sfacciata. Qui, piuttosto, è la rettitudine del profeta che viene assimilata in metafora a un metallo duro come il bronzo: mantenere la traduzione letterale è dunque impossibile in italiano, poiché la metafora creata da Efrem e quella italiana non coincidono. Un ulteriore aspetto problematico che talora si presenta al traduttore italiano (ed è un problema che già quello greco antico si era trovato a fronteggiare) è la resa delle frequenti ripetizioni di un medesimo concetto o di anafore insistenti che possono durare anche fino a una trentina-quarantina di versi: in questo caso, la scelta è quella fra una traduzione filologica, aderente allo stile retorico del testo siriaco (ed è quella per cui propendiamo), e una più estetica e “addomesticante” al gusto del pubblico italiano, che limiti la portata delle ripetizioni.
Edizioni critiche citate e opere consultate
Arras 1984a: Asceticon. Edidit Victor Arras, Peeters, Louvain (Corpus Scriptorum Christianorum Orientalium [CSCO], vol. 458/ Scriptores Aethiopici, tomus 77)
– 1984b: Asceticon. Interpretavit Victor Arras, Peeters, Louvain (CSCO, vol. 459/ Scriptores Aethiopici, tomus 78)
Beck 1970a: Des heiligen Ephraem des Syrers Sermones II, herausgegeben von Edmund Beck, Peeters, Louvain (CSCO, vol. 311/ Scriptores Syri, tomus 134)
– 1970b: Des heiligen Ephraem des Syrers Sermones II. Übersetzt von Edmund Beck, Peeters, Louvain (CSCO, vol. 312/ Scriptores Syri, tomus 135)
Brock 1994: Sebastian Brock, Ephrem’s Verse Homily on Jonah and the Repentance of Niniveh. Notes on the Textual Tradition, in Philohistôr. Miscellanea in Honorem Caroli Laga Septuagenarii, edited by Antoon Schoors and Peter van Deun, Peeters, Louvain, pp. 71-86
– 2011: Sebastian Brock, Ephrem, Gorgias Encyclopedic Dictionary of the Syriac Heritage, edited by Sebastian Brock, Aaron Butts, George Kiraz, and Lucas van Rompay, Gorgias Press, Piscataway (New Jersey), pp. 145-147
De Halleux 1990: André de Halleux, À propos du sermon éphrémien sur Jonas et la pénitence des Ninivites, in Lingua restituta orientalis. Festgabe für Julius Assfalg, hrsg Regine Schulz und Manfred Görg, Otto Harrassowitz, Wiesbaden, pp. 155-166
Garitte 1967: Gérard Garitte, Le sermon de S. Éphrem sur Jonas en géorgien, in «Le Muséon», LXXX (1967), pp. 75-120
– 1969: Gérard Garitte, La version arménienne du sermon sur Jonas et Ninive, in «Revue des études arméniennes», VI (1969), pp. 23-43
Hemmerdinger-Iliadou 1959: Démocratie Hemmerdinger-Iliadou, Éphrem (les versions). I. Éphrem grec; II. Éphrem latin, in Dictionnaire de spiritualité ascétique et mystique. Doctrine et histoire, publié sous la diréction de Marcel Viller Beauchesne, Paris, vol. IV.2 (Église-Épiscopat), pp. 800-819
– 1967: Démocratie Hemmerdinger-Iliadou, Éphrem le Syrien, sermon sur Jonas (texte grec inédit), in «Le Muséon» LXXX (1967), pp. 47-74
Kirchmeyer 1959: Jean Kirchmeyer, Éphrem (les versions). III. Autres versions d’Éphrem, in Dictionnaire cit.pp. 819-822
Mai 1852: Angelo Mai, Patrum nova bibliotheca, I vol. (continens Sancti Augustini novos ex codicibus vaticanis sermones), Typis Sacrii consilii propagando christiano nomini, Roma
Morin 1953 [1937]: Sancti Caesarii Arelatensis Sermones, nunc primum in unum collecti et ad leges artis criticae ex innumeris mss. recogniti. Pars prima (continens praefationem, sermones de diversis, et de scriptura Veteris Testamenti), studio et diligentia D. Germani Morin, Presbyteri et Monachi O. S. B. Editio altera, Brepols, Turnhout (Corpus Christianorum, Series Latina, 103 [Caesarii Arelatensis Opera, pars I])
Shepardson 2008: Christine Shepardson, Anti-Judaism and Christian Orthodoxy: Ephrem’s Hymns in Fourth-Century Syria, The Catholic University of America Press, Washington, DC
Suh 2000: Wonmo Suh, From the Syriac Ephrem to the Greek Ephrem. A Case Study of the Influence of Ephrem’s Isosyllabic Sermons (memre) on Greek-Speaking Christianity, Tesi di dottorato inedita, Princeton Theological Seminary
Vossius 1589-1598: Gerardus Vossius, Sancti Ephremi Syri opera omnia, in tres tomos digesta, Typographia Vaticana apud Joannem Mariam Henricum Salvioni, Roma