Note su lingue, traduttori e interpreti nella Terza Internazionale

Maxim Kantor, La torre rossa di Babele, 2005, Olio su tela, Collezione privata

di Aldo Agosti

L’articolo di Emmanuel Jousse presentato in questo numero di «tradurre» solleva una serie di problemi e di interrogativi che possono essere in gran parte riproposti anche per la fase successiva della storia dell’internazionalismo “operaio” o “proletario”, in particolare per quello comunista nel periodo in cui esso si cristallizzò in una precisa e possente forma organizzativa, definita Terza Internazionale: una denominazione che sottolineava la filiazione e insieme la discontinuità dalle Internazionali precedenti, oggetto dell’analisi di Jousse, e che – sempre più spesso con il passare degli anni – lasciò il posto a quella di Internazionale comunista (Komintern negli acronimi russo e tedesco, Comintern in quello inglese, IC nelle sigle francese e italiana).

Il rapporto di filiazione fu abbastanza evidente, anche se venne accompagnato da doglie lunghe e complicate, e si svolse all’insegna della dichiarata volontà di rottura con l’organizzazione “madre”. Il I Congresso della Terza Internazionale che si riunì a Mosca il 6 marzo 1919 e che sancì la nascita ufficiale del nuovo organismo mondiale presentava inizialmente il carattere di conferenza preparatoria, e vide la partecipazione di 51 delegati che rappresentavano 35 partiti o organizzazioni di 22 diversi paesi. La relativa esiguità di questi numeri si spiegava anche con le difficoltà di spostamento in un’Europa ancora sconvolta dalle conseguenze della guerra e con il blocco che isolava la Repubblica sovietica, tanto che la maggior parte dei delegati si trovava già a Mosca da qualche tempo, a volte da mesi, e i pochi che vi giunsero appositamente per partecipare al congresso vi riuscirono spesso dopo viaggi avventurosi. Essi provenivano dalla Germania, dalla Svizzera, dall’Austria, dalla Svezia, dalla Norvegia, dall’Ungheria e dai paesi balcanici. Tre delegati rappresentavano organizzazioni di paesi non europei: lo statunitense Reinstein, il cinese Liu Shaozhou e il turco Subhi (Hájek, Mejdrová 1997, 73-80).

Degli atti di questo primo congresso esiste una relativamente recente e accurata traduzione inglese condotta sul protocollo tedesco: ma non è quasi mai possibile capire in quali lingue furono pronunciati gli interventi dei partecipanti. Solo per il rapporto di Liu sulla situazione in Cina viene specificato che il delegato comincia a parlare in cinese e poi continua in russo (Riddell 1987, 204). La descrizione del fondo dell’archivio del Comintern relativo al I Congresso elenca documenti in due sole lingue: il tedesco e il russo (Guide des archives 2009, 126). E’ probabile che in quella prima confusa, concitata assise il problema della lingua sia stato risolto in modo non diverso che nei congressi della Prima Internazionale, ancor più che della Seconda: cioè da un lato basandosi sulla presunzione che il linguaggio degli interessi di classe e della rivoluzione fosse per sua natura universale e immediatamente comprensibile, dall’altro con il lavoro volontario dei partecipanti. La provenienza geografica dei delegati fa comunque supporre che non pochi capissero le lingue degli altri, e in ogni caso i russi o in generale i cittadini dell’ex-impero zarista (in particolare polacchi, spesso ebrei) erano stati fino a pochi anni prima dispersi in tutta Europa e ne conoscevano molte. Il problema della traduzione dovette quindi risolversi da sé e non sembra aver sollevato alcun interrogativo.

Ma nel giro di meno di sedici mesi il piccolo nucleo dei fondatori della Terza Internazionale aveva conosciuto un’enorme e in parte imprevedibile espansione, tanto che – per preservare la sua “purezza rivoluzionaria” dalle contaminazioni di adesioni richieste da molti partiti socialisti ritenute inficiate da “opportunismo” – si pensò di erigere degli steccati, che si concretarono nelle 21 condizioni di ammissione all’Internazionale comunista. Al II congresso dell’IC i delegati erano saliti a 219, in rappresentanza di 41 paesi. La descrizione del fondo d’archivio relativo elenca 13 lingue: in ordine alfabetico l’arabo, l’estone, il finlandese, il francese, l’inglese, l’italiano, il neerlandese, il polacco, il russo, lo svedese, il tedesco, l’ucraino, l’ungherese (Guide des archives 2009, 128). E non va dimenticato che poche settimane prima si era tenuto a Baku, per iniziativa dell’Esecutivo dell’IC, il Congresso dei popoli dell’Oriente, a cui avevano partecipato ben 181 rappresentanti di 32 nazionalità, per lo più provenienti dal Caucaso e dai territori dell’Asia centrale dell’ ex impero zarista, ma anche molti turchi e persiani: due terzi di loro erano comunisti e 44 erano donne (Degras 1956, 105).

Malgrado l’ampliamento della platea, il II Congresso, soprattutto nelle prime sessioni che si svolsero a Pietrogrado prima di trasferirsi a Mosca, sembra essere stato caratterizzato, dal punto di vista delle lingue, da un livello ancora altro di confusione e di improvvisazione. Il clima convulso di grande aspettativa rivoluzionaria che lo caratterizzava (l’Armata Rossa era alle porte di Varsavia e la rivoluzione sembrava sul punto di dilagare nell’Europa centrale) certamente favorì questa babele linguistica e forse aiutò i delegati a districarvisi Una testimonianza significativa al riguardo è quella di Viktor Kibal’čič (più noto come Victor Serge), belga di origine russa, anarchico individualista che si era schierato con i bolscevichi appena era riuscito a raggiungere la Russia nel gennaio del 1919. Serge – che fu traduttore instancabile dal francese al russo e dal russo in francese, e che conosceva altre lingue – racconta nelle sue straordinarie Memorie di un rivoluzionario di interventi al Congresso pronunciati in più lingue, non si capisce bene in che modo tradotti: molti oratori comunque si rivolsero ai delegati in una lingua che non era la loro, come Christian Rakovskij, romeno d’origine, presidente del governo rivoluzionario ucraino, che si rivolse ai delegati un perfetto francese (Serge 1999, 122).

Un anno dopo (nel giugno-luglio 1921), quando si tenne il III Congresso dell’IC, l’organizzazione si era ormai data una struttura stabile, affiancata da organismi collaterali come l’Internazionale comunista giovanile, l’Internazionale sindacale rossa, il Soccorso operaio internazionale, il Soccorso rosso internazionale, l’Internazionale sportiva rossa, l’Internazionale contadina, il Segretariato femminile (Carr 1969, 887-944; Weiss 2017). I delegati presenti al III Congresso dell’IC, di nuovo svoltosi a Mosca, erano 509 e rappresentavano 48 paesi. Con qualche oscillazione questi numeri si consolidarono negli anni seguenti. Al IV Congresso (novembre-dicembre 1922) parteciparono 408 delegati di un numero di paesi compreso fra 58 e 62; al V (giugno-luglio 1924) più di 400 in rappresentanza di almeno una quarantina di paesi; al VI Congresso (agosto 1928) più di 500 in rappresentanza di 66 partiti; al VII (luglio-agosto 1935) 371 con voto deliberativo e 139 con diritto di voto consultivo in rappresentanza di ben 76 organizzazioni, di cui 19 simpatizzanti (Degras 1971a, 224, 374; Degras 1971b, 94, 446; Degras 1971c, 346).

Non necessariamente ad ogni paese o nazionalità corrispondeva una lingua diversa, ma è certo che il problema di come diffondere il messaggio di questo gigantesco «partito mondiale della rivoluzione» al suo stesso interno, e ancor più di farlo circolare – necessariamente in più lingue – nel bacino potenzialmente illimitato dei suoi recettori, doveva essere affrontato e risolto anche concretamente. Per farlo, l’Internazionale comunista si dotò di un vastissimo apparato di stampa e editoriale che richiedeva risorse finanziarie e di personale molto cospicue. Fin dall’indomani della sua nascita, nel maggio del 1919, cominciò a uscire una rivista in quattro lingue: in russo «Kommunističeskij Internacional”, in tedesco «Die kommunistische Internationale», in francese «L’Internationale communiste» e in inglese «The Communist International»). La rivista pubblicava articoli sulla teoria marxista, ma anche risoluzioni e commenti sulla linea politica dell’Internazionale e dei partiti aderenti. Dal settembre 1921, poco dopo la chiusura del III Congresso, cominciò a uscire un bollettino diffuso in tre lingue: in tedesco con il titolo di «Internationale Presse Korrespondenz» (nota come in «Inprekorr») e in francese con quello di «La Correspondance internationale»), entrambi con periodicità trisettimanale; in inglese con cadenza un po’ meno fitta come «International Press Correspondance». Inteso all’origine come un bollettino d’informazione per la stampa comunista che pubblicava i documenti degli organi dell’IC, rapidamente questo periodico divenne più simile a un giornale vero e proprio, a metà strada fra il quotidiano e il settimanale, dando notizie dei movimenti di lotta in tutto il mondo e ospitando commenti e dibattiti (rigorosamente all’interno della linea ufficiale): arrivò a essere pubblicato in otto lingue, anche se in alcune di queste per lassi di tempo molto brevi (Komját 1982, Kahan 1990; Sworakowski 1995).

L’«Inprekorr», in particolare, ebbe una vita particolarmente travagliata: la sede della sua redazione, dopo la temporanea messa al bando del Partito comunista tedesco nel 1923, si spostò a Vienna e tornò nella capitale tedesca nel 1926; poi, nel 1932, quando ormai incombeva la minaccia nazista, la pubblicazione apparve sotto il nome di «Rundschau über Politik, Wirtschaft und Arbeiterbewegung» e la redazione si trasferì prima a Basilea, poi a Zurigo e infine a Losanna. Negli anni trenta ebbero vita per un breve un periodo anche un’edizione ceca a Praga, «Svetovi Rozhled», e una spagnola, «La Correspondencia internacional», a Madrid e poi a Valencia durante la guerra civile (voce “Inprekorr” in de.wikipedia)

Negli uffici del Komintern e in quelli delle sue organizzazioni collaterali a Mosca lavorò incessantemente un folto stuolo di interpreti e di traduttori. I loro compiti erano i più vari. Casimiro Kobylianskij, che dal 1924 al 1943 lavorò negli organismi dell’Internazionale come interprete e traduttore di italiano, di francese e poi anche di spagnolo, riferisce nelle proprie memorie che nelle sue mansioni rientravano «la lettura di tutti gli organi di stampa italiani e francesi di tutti gli indirizzi politici e partitici, dai più reazionari (fascisti, monarchici) a quelli dell’ultrasinistra (anarchici, trotzkisti) e la traduzione di articoli tratti da giornali e riviste specializzati». Inoltre egli partecipò in veste di interprete a una dozzina almeno di assise del Comintern, traducendo dal tedesco o dal russo in italiano (quest’ultimo non era lingua ufficiale nei congressi e perciò lui si limitava a intervenire quando tra i delegati del Partito comunista d’Italia – PcdI – vi era qualcuno che non capiva il francese). Aveva anche l’incarico di accompagnare le delegazioni di militanti francesi e di quelli italiani provenienti dai paesi d’esilio (in genere la Francia, il Belgio e la Svizzera) nelle visite a fabbriche, kolchozy o altre istituzioni sovietiche. Kobylianskij racconta che questo lavoro lo portò a volte a stabilire rapporti di confidenza e vera e propria amicizia con i comunisti italiani che risiedevano a Mosca per periodi più lunghi, come rappresentanti negli organi esecutivi del Komintern o delle sue organizzazioni parallele (Kobylianskij 1988, 81-83).

Il ruolo degli interpreti ai congressi e ai plenum era spesso tutt’altro che comodo: quando lo scontro politico fra la maggioranza e l’opposizione del Partito comunista bolscevico si estese anche alle riunioni dell’Internazionale, la questione della traduzione poteva assumere un rilievo non secondario. Sempre Kobylianskij riferisce che al VII Plenum (nel novembre-dicembre del 1926) «i leader dell’opposizione rifiutarono l’aiuto dei traduttori», affermando di conoscere essi stessi le lingue straniere e di non fidarsi dei traduttori ufficiali dell’Esecutivo del Komintern”. Essi si rivolsero dapprima in tedesco ai rappresentanti delle delegazioni della Germania e dell’Austria, poi in inglese a quelle dei partiti comunisti di lingua inglese e, infine, in francese alle delegazioni dei paesi di lingue romanze». Kobylianskii dovette però tradurre anche in italiano per un delegato del PcdI che non capiva il francese, e ciò diede origine a un battibecco con Trockij (Kobylianskij 1988, 84).

Un lavoro oneroso, e anche più delicato per le sue implicazioni politiche, fu certamente quello della pubblicazione in diverse lingue degli atti ufficiali delle riunioni degli organi dell’Internazionale comunista, che si andarono infittendo negli anni venti (tra il luglio del 1920 e l’agosto del 1929 si tennero ben cinque congressi e nove comitati esecutivi “allargati”, comunemente detti Plenum) per poi diradarsi nel decennio successivo, nel quale ebbero luogo in tutto quattro Plenum e un congresso, il VII e ultimo. Di ciascuna di queste assise vennero pubblicati gli atti in più lingue. I resoconti stenografici più completi dei primi quattro congressi dell’IC furono pubblicati in tedesco, che fino almeno al 1928 rimase la lingua predominante nell’Internazionale. Le edizioni russe furono basate principalmente sul testo tedesco dei verbali pubblicati nel 1919-1923, ma nel febbraio del 1930 il Segretariato politico dell’Esecutivo adottò una deliberazione che prevedeva di rivederle, correggerle e ripubblicarle con la motivazione che contenevano omissioni ed errori (Kahan 1999, 10). In realtà – se si considera il ruolo di protagonisti che nei primi quattro congressi avevano avuto personaggi come Trockij, Bucharin e lo stesso presidente dell’IC, Zinov’ev, poi diventati oppositori di Stalin, espulsi dal partito e tutti periti negli anni del terrore (1936-1938) – è più che probabile che questa decisione avesse un preciso significato politico e fosse mossa da intenti censori. Tuttavia furono corretti (sarebbe interessante verificare come) e ripubblicati solo i resoconti dei primi due congressi, mentre quelli del III e del IV non furono rivisti e rimasero disponibili nelle edizioni “abbreviate”, basate soprattutto sul testo tedesco pubblicato tra il 1921 e il 1923. I resoconti stenografici del V e del VI Congresso furono pubblicati contemporaneamente in russo e in tedesco: a riprova del riconoscimento ormai avvenuto del primato dell’Urss rispetto al movimento comunista mondiale, la versione russa risulta più completa di quella tedesca. Peraltro gli atti del VII congresso dell’Internazionale, svoltosi nel 1935, furono pubblicati solo in forma abbreviata quattro anni dopo, nel 1939, in tedesco, inglese e francese, mentre l’edizione in russo non fu pubblicata affatto (Kahan 1999, 12): il che si spiega probabilmente con il fatto che tra i delegati sovietici molti erano stato inghiottiti dal gorgo della repressione già un anno o poco più dopo il congresso.

Oltre agli atti delle sue riunioni e ad amplissimi resoconti di quelle del Partito comunista bolscevico panrusso (VKPb), l’IC pubblicava una massa enorme di materiale propagandistico in più lingue: le bibliografie esistenti tengono conto delle lingue europee, e arrivano ad annoverarne una ventina, ma uscivano anche pubblicazioni in lingue orientali (Kahan 1999, 11). In Europa, questo materiale era pubblicato quasi sempre per i tipi delle case editrici dei partiti comunisti locali, più raramente presso case editrici formalmente indipendenti ma anch’esse evidentemente dipendenti dal sostegno economico del Komintern (come la tedesca Carl Hoym & Louis Cahnbley di Amburgo in Germania).

E’ evidente che tutto ciò doveva comportare un enorme lavoro di mediazione linguistica, causando un grande dispendio di tempo nell’attività di traduzione di testi scritti e impegnando una quantità considerevole di persone. Uno sforzo non meno intenso anche se più concentrato era richiesto agli interpreti in una serie di occasioni che non si limitavamo alle riunioni degli organismi ufficiali ed esse erano, per esempio, cruciali nei lavori delle “commissioni” che in margini alle riunioni stesse si costituivano per discutere le questioni riguardanti i singoli partiti.

Tutto questo lavoro è poco o nulla conosciuto, o meglio è sempre dato per scontato, senza che mai si considerino i problemi che esso poneva. Gli studi sull’internazionalismo comunista hanno conosciuto negli ultimi quindici o vent’anni un notevole rinnovamento che ha dischiuso nuove prospettive di ricerca. Tale rinnovamento è stato principalmente dovuto alla prospettiva “transnazionale”. Si tratta di una dimensione che non si esaurisce nel binomio classico nazionale/internazionale e che, per usare le parole di uno dei suoi più autorevoli interpreti, occupa uno spazio sociale che si estende al di là delle culture nazionali che contribuiscono a definirlo, uno spazio occupato da movimenti e forze che attraversano i confini statuali e nazionali (Osterhammel 2009, 39-50). E’ stata questa prospettiva che ha permesso, come dimostra esemplarmente anche il contributo di Jousse che pubblichiamo in questo numero, di inserire lo studio delle Internazionali operaie, in particolare negli anni compresi fra gli anni sessanta del XIX secolo e i quaranta del XX, in una vicenda che va ben oltre la storia della classe operaia per abbracciare quella più ampia delle forme di solidarietà transnazionale tra gruppi subalterni. La spinta in questa direzione è venuta in parte dal pensiero “postcoloniale” e dai subaltern studies; ma, per la storia del comunismo internazionale, ha ricevuto in particolare impulso dall’apertura degli archivi dell’IC, che ha molto ampliato la lettura della sua storia in chiave sociale e culturale. Il focus si si è spostato su un sistema di rapporti che era come «una moltitudine di microcosmi di agitazione, propaganda, mobilitazione ed influenze, ciascuna delle quali sviluppava le proprie specifiche strategie e reti» (Dullin, Studer 2018, 66-95): e, in questo contesto, particolare interesse hanno destato – o ridestato – le biografie individuali dei militanti (Morgan 2006, 11-21).

Il terreno della mediazione linguistica – che pure in questo contesto ha evidentemente un’importanza cruciale – è rimasto però ancora in gran parte avvolto nell’ombra: l’approccio di Jousse non è stato ripercorso per l’IC, anche se alcuni squarci illuminanti sono stati aperti da un ampio e originale lavoro recente (Studer 2020). Naturalmente, misurarsi con questo tema in modo esauriente e sistematico richiederebbe uno sforzo immane: sono centinaia di migliaia – contando anche solo le lingue europee più diffuse – le pagine prodotte dall’apparato di stampa e di propaganda dell’Internazionale comunista, e analizzarle nella prospettiva della traduzione è una fatica che esigerebbe anni di lavoro coordinato e collettivo, anche se oggi potrebbe essere facilitata dalla pubblicazione degli inventari degli archivi non più solo in russo e, soprattutto, dalla digitalizzazione di circa un milione di pagine dei suoi fondi. Si può dire però che già ora, da alcuni degli studi più recenti e soprattutto da una attenta rilettura della memorialistica, emergano i tratti di un mondo affascinante.

Da chi era composto questo mondo? Prima di tutto non va dimenticato che fin dalla fine dell’Ottocento i rivoluzionari russi erano stati in buona parte esuli all’estero, spesso con le proprie famiglie. A volte i loro figli avevano frequentato le scuole dei paesi ospiti: Kobylianskij per esempio, figlio di un rivoluzionario polacco diventato bolscevico, era arrivato in Italia nel 1904, quando aveva sette mesi, e vi era rimasto anche dopo la rivoluzione fino all’età di diciannove anni, frequentando le scuole medie e superiori in Liguria, in Toscana e a Roma (al liceo Visconti era stato compagno, tra gli altri, di Giorgio Amendola). Come lui, parecchi di questi esuli di prima o seconda generazione parlavano correntemente almeno altre due lingue oltre al russo, e alcuni molte di più. Molti militanti menscevichi e in parte minore socialisti rivoluzionari che erano stati esuli e che aderirono alla causa bolscevica tra il febbraio e l’ottobre del 1917 non riuscirono mai a conquistare una posizione di preminenza nel partito, restando circondati da un alone di diffidenza: un numero notevole di loro finì a lavorare negli uffici dell’Internazionale. E’ verosimile che per molti anni il grosso del lavoro di traduzione della stampa e propaganda comunista sia ricaduto sulle loro spalle.

Ma non solo a Mosca le diramazioni della Terza Internazionale che si occupavano della stampa e della propaganda abbondavano di cosmopoliti e poliglotti. Nel primo dei due volumi delle sue memorie Margarete Buber Neumann traccia un vivido quadro della redazione della «Inprekorr» a Berlino nel 1928. Vi lavoravano, in quotidiano contatto telefonico con Mosca, Vienna, Praga, Londra, Parigi e Stoccolma, una ventina di persone, tra cui – oltre a lei e ad altri quattro o cinque tedeschi – un austriaco, tre ungheresi, due cechi, un irlandese, un lussemburghese e uno svedese (Buber Neumann 1966, 127-131). Il lavoro di traduzione, che costituiva una parte essenziale dell’attività della redazione, era concepito come parte integrante della propria milizia di rivoluzionari. Ovviamente la qualità dei traduttori non poteva che variare in funzione della loro preparazione e della loro esperienza. Hilde Kramer, moglie dell’irlandese Edward Fitzgerald (alias Edward Gerhardt) che lavorò come lei alla redazione berlinese della «Inprekorr» e che aveva anche velleità di scrittore, ricorda:

Alles Material war einmal aus dem Russischen ins Deutesche ubersetzt worden. Der politische Jargon war von der einen Sprache in die andere übernommen worden, und das englische Endresultat war nicht nur hässlich, sondern vielfach kaum verständlich. Diese kommunistiche “Thesensprache”, die ihren Ursprung in Moskau hatte, war in allen kommunistischen Publikationen zu finden.

Ossia:

Tutto il materiale veniva tradotto una prima volta dal russo in tedesco. Il gergo politico veniva trasferito da una lingua all’altra, e il risultato finale in inglese era non solo orribile, ma spesso anche quasi incomprensibile. Questo linguaggio comunista “da tesi”, che aveva origine a Mosca, si ritrovava in tutte le pubblicazioni comuniste (cit. in Studer 2020, 187).

Fitzgerald, secondo la moglie, ne era disturbato; ma quasi certamente sensibilità di questo genere erano estranee alla maggior parte dei suoi compagni e colleghi: Buber Neumann ricorda che «Fitz era il solo che non prendesse posizione nei confronti del comunismo e sembrava considerare la sua attività all’Inprekorr come un puro e semplice mestiere che gli permetteva di vivere, un mestiere al quale non c’era bisogno di dedicare anche l’anima» (Buber Neumann 1966, 129).

La lingua comunista non era però sempre stata fatta solo di questo grigio e informe gergo politico. Se si leggono gli interventi contenuti negli atti dei congressi, quanto meno in quelli dei primi sei, capita di imbattersi in discorsi in cui non mancavano né il pathos né la qualità letteraria. Gli esempi più significativi in questo senso si trovano negli interventi di esponenti bolscevichi come Trockij, Radek o Bucharin. Il discorso di quest’ultimo al VI Congresso, per esempio, era infarcito di immagini colte, metafore, citazioni letterarie dal tedesco, come quella dalla Disputation di Heine del 1851. Certo gli interpreti e poi i traduttori per il volume degli atti non ebbero di che annoiarsi, e dovettero impegnarsi a fondo. Con quali risultati?

Ma già negli anni venti non solo il linguaggio delle tesi e delle risoluzioni progressivamente si impoverì, si congelò in quella che Serge definisce nelle sue memorie «il dialetto dell’agit-prop» (Serge 1999, 216) e che i francesi chiamarono la langue de bois (la lingua di legno): lo stesso accadde per i discorsi dei delegati. Per i traduttori, le insidie vennero ad annidarsi in sfumature che rischiavano di avere un significato politico: non sempre era facile destreggiarsi in modo adeguato tra formule a volte bizantine divenute rituali, ma il cui significato poteva cambiare da una lingua all’altra.

Rischi minori da questo punto di vista correvano gli interpreti, del cui lavoro restavano più labili tracce scritte: in compenso a loro capitò spesso di vivere in prima persona situazioni di estremo pericolo. Di interpreti si ebbe infatti certamente bisogno nelle circostanze in cui dirigenti o agenti dell’Internazionale si trovarono letteralmente sulla linea del fuoco, come accadde per esempio (ma non sono certamente gli unici casi) durante i sanguinosi avvenimenti cinesi del 1926-27 e poi durante la guerra civile spagnola, nel 1936-39. L’impegno dell’Urss a sostegno della Repubblica, affidato al coordinamento di una serie di emissari dell’IC e anche dei servizi segreti e di polizia, rese necessario l’impiego di un numero cospicuo di interpreti. Non erano certo molti i comunisti spagnoli che sapevano bene il russo, e anche tra i cittadini sovietici che prima della rivoluzione erano stati esuli all’estero pochissimi erano stati in Spagna. Si fece così ricorso alle università e alle scuole di lingue: diversi interpreti furono formati nel giro di poche settimane, reclutando tra gli studenti delle facoltà umanistiche e particolarmente di francese, perché lo spagnolo non era una lingua studiata frequentemente in Urss.

Esiste la testimonianza di uno di questi, David I. Pritsker, uno studente di storia all’Università di Leningrado che, «per ragioni di coscienza internazionalista», sentì il dovere morale di aiutare la causa antifascista ed insistette per essere mandato in Spagna. Dopo un corso accelerato di due mesi, con dieci ore quotidiane di studio della lingua e qualche giorno di full immersion tra un gruppo di militanti spagnoli, Pritsker arrivò in Spagna come traduttore e interprete di un consigliere militare sovietico, Michail Stepanovič Šumilov, e fu tra gli ultimissimi ad abbandonare la penisola iberica, con un volo che lo portò da Alicante ad Orano, in Algeria. Qui, nell’albergo dove insieme ad altri 23 sovietici aspettava ansiosamente l’autorizzazione delle autorità francesi a imbarcarsi per Marsiglia, ricevette la visita di «un uomo di statura non grande, con i capelli neri e con gli occhiali», che si spacciò per Yakov Michailovič Levin, nato a Odessa, dentista di professione e poi volontario delle Brigate internazionali, e che gli chiese di parlare con Šumilov. Levin, che parlava «con uno strano accento» sia lo spagnolo che il russo e il francese, altri non era che Palmiro Togliatti, alias Ercoli, che con il nome di “Alfredo” aveva rappresentato il Comintern in Spagna, agendo in stretto collegamento con il Partito comunista spagnolo. Atterrato anche lui fortunosamente a Mostanagem, in Algeria, il 25 marzo 1939, Togliatti cercava un passaggio per raggiungere la Francia e poi l’Unione Sovietica con un passaporto sovietico regolare, ma quando i documenti arrivarono il suo, per un errore, mancava. Secondo la testimonianza di Pritsker, il sedicente Levin – di cui nel frattempo Šumilov aveva rivelato la vera identità – fu l’unico a non perdere la calma: fece scivolare una banconota nel proprio passaporto falso che consegnò al gendarme e si imbarcò senza battere ciglio (Agosti 1996; Spriano 1980, 117-65; Elorza, Bizcarrondo 1999, 320 ss.).

Nel contesto che qui ci riguarda, la storia è interessante non solo perché rivela un particolare che nessuno conosceva del ritorno di Togliatti dall’Algeria in Francia, ma perché dimostra che la funzione di interprete metteva chi la esercitava al centro di episodi spesso cruciali, e che lo spoglio sistematico delle memorie di questi personaggi potrebbe essere una fonte di tutto rilievo per la storia dell’IC. Ma non è solo questo pur rilevante aspetto a far capire quanto la dimensione della mediazione linguistica abbia occupato un posto di primo piano nell’esperienza di quello che è stato definito a ragione «il primo grande esperimento di interpretazione collettiva dei fenomeni del mondo […], un laboratorio analitico di eccezionale importanza» (De Felice 1974, 105). Una dimensione che resta ancora in buona parte da esplorare e che può rivelare prospettive di ricerca originali.

Riferimenti bibliografici

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Spriano 1980: Il compagno Ercoli. Togliatti segretario dell’Internazionale, Roma, Editori Riuniti

Studer 2015: Brigitte Studer, The Transnational World of Cominternians (Il mondo transnazionale degli appartenenti al Comintern), London, Palgrave Macmillan, translated by Dafydd Rees Roberts

– 2020: Brigitte Studer, Reisende der Weltrevolution. Eine Globalgeschichte der Kommunistischen Internationale (Viaggiatori della rivoluzione mondiale.Una storia globale dell’Internazionale comunista), Berlin, Suhrkamp Taschenbuch

Sworakowski 1965: Witold Sworkowski, The Communist International and its Front Organizations. A research guide and checklist of holdings in American and European libraries (L’Internazionale comunista e le sue principali organizzazioni. Guida alla ricerca ed elenco dei testi presenti nelle biblioteche americane ed europee), Stanford, Hoover Institution on War, Revolution and Peace

Weiss 2017: International Communism and Transnational Solidarity. Radical Networks, Mass Movements and Global Politics, 1919-1939 (Comunismo internazionale e solidarietà transnazionale: reti radicali, movimenti di massa e politica globale 1919-1939), ed. by Holger Weiss, Leiden, Brill