Quando l’errore è nell’originale

copertina di David Gentleman per The Comedy of Errors (The New Penguin Shakespeare series)

di Daniele A. Gewurz

Sugli “errori” di traduzione è stato già detto un bel po’, a partire dalla problematicità in sé del parlare di “errori”, anziché di interpretazioni, approcci diversi al testo e altre categorie più indulgenti. Un vero o presunto “errore” può a volte far sghignazzare o indignare i non addetti ai lavori, ma più spesso invita alla riflessione, a cercare di evitare il nostro prossimo “errore”. Quando però traduciamo, mentre siamo intenti a commettere nostri errori nuovi di zecca (e qui smetto di usare le virgolette: io e chiunque altro commettiamo errori a profusione, e possiamo parlarne senza pudore), ci capita in realtà anche di imbatterci in errori commessi dall’autore nel testo su cui stiamo lavorando. Perché c’è quell’errore, ammesso che sia tale? Che cosa ci dice? Come vogliamo, o dobbiamo, interagirci? Ecco a cosa mi hanno portato l’esperienza, il confronto con i colleghi e qualche riflessione in proposito.

Poniamo quindi di trovarci di fronte a un errore dell’autore. Qualunque cosa decidiamo di fare, compreso far finta di niente e tradurlo così com’è nonostante noi si sia convinti che qualcosa non va, sarà un intervento attivo sul testo originale. Certo, quello maggiore consiste nel vertere il testo nella nostra lingua, tanto che non ne rimane nessuna parola dell’originale (tranne qualche nome proprio e poco più). Ma, una volta riflettuto sulla pecca dell’originale, se decidiamo di intervenire e “correggerla”, per una volta ci discostiamo in modo esplicito dal cercare di “dire quasi la stessa cosa”.

Qui è in gioco il senso del ruolo del traduttore, per come lo intende ognuno di noi. Anziché “quasi la stessa cosa” il nostro compito è forse di dire “quasi la cosa che l’autore avrebbe voluto dire (se non fosse stato vittima di una svista)”? O addirittura “quasi la cosa che l’autore avrebbe voluto dire (se non fosse stato consciamente convinto di una cosa sbagliata)”? Dovrà pur esserci un limite al “rifacimento”, e ho in mente una riflessione di Petruccioli (Petruccioli 2010). Dopo tutto, ci sarà qualche testo che, secondo le nostre convinzioni, è del tutto o quasi sbagliato: sceglieremmo allora di non tradurlo o, se ci fosse un buon motivo per farlo lo stesso, di stringere i denti e tradurlo com’è. Non potremmo metterci a correggerlo tutto.

Quindi qui, di fatto, stiamo pensando a casi in cui, paradossalmente, la correzione avvicina il testo alle intenzioni dell’autore, o magari del testo stesso; in cui, per così dire, siamo dalla parte del testo.

Per scendere sul terreno pragmatico dell’azione, prima di tutto e ovviamente, non sarà mai eccessiva la cautela: dobbiamo essere certi di perché nel testo c’è quella parola, quell’espressione, quel concetto che ci stona. È stato messo di proposito? Ha, così com’è, un ruolo nel testo? Se sì, quale? In dubio pro textu, e l’ultima cosa che vorremmo è intervenire su un presunto errore che in realtà non lo è. L’esempio più ovvio è quello della varietà linguistica non standard usata per caratterizzare un personaggio con una diversa origine geografica o sociale, o addirittura della vera e propria cantonata, ma commessa da un personaggio e non dall’autore. Caso altrettanto ovvio è quello dell’autore del cui operato fa parte un uso personale, innovativo, non standard del linguaggio e del testo tutto. Se Nanni Balestrini scrive «Be’ ti ci vuole tanto tempo. C sorride. Più in là. C sorrideva. Un poco oltre. Le sue mani annasparono in aria. Muovendosi dapprima nel lenzuolo verso destra» (Balestrini 1966, 7), non è che non sappia usare la sintassi e la punteggiatura; e un’ipotetica traduzione che appianasse le peculiarità stilistiche, fosse anche in un nome di una maggiore “leggibilità”, non solo sarebbe discutibile, ma ignorerebbe e cancellerebbe il senso stesso del testo.

Quindi, va da sé, chi traduce deve avere sempre le idee chiare sulla natura del testo che sta traducendo e dello spirito generale che lo informa, e mantenere questa attenzione e questo rispetto fin nelle minuzie: è sempre il caso di controllare e ricontrollare, di check and double-check.

Oppure, se l’errore è vero, nel senso di compiuto dall’autore senza che se ne rendesse conto, può essere comunque importante mantenerlo com’è, e in un certo senso “rispettarlo”? Ci possono essere per esempio situazioni in cui va considerato un errore “d’autore” (e “autore” in questo senso non vuol dire necessariamente Omero che dormicchia), o in cui abbiamo a che fare con un testo di qualcuno che non si esprime nella propria lingua madre o per altri motivi la usa in modo insolito. Per un approccio affascinante a questo punto di vista rimando a Tradurre l’errore di Franco Nasi (Nasi 2021), il cui discorso è complementare a quello che si cerca di fare in queste righe.

Quali errori?

Nel contesto di cui parliamo possiamo identificare due tipi principali di errori:

1) Errori “oggettivi”: grafie e traslitterazioni scorrette, anacronismi (europei che mangiano mais prima della scoperta dell’America), errori in dati e date, riferimenti storici, definizioni di concetti, estremi bibliografici…

2) Errori “interni”: incoerenze nella trama, bachi nella logica di un ragionamento, contraddizioni…

Ignoriamo qui i problemi puramente linguistici dell’originale (quando non siano, come accennavamo sopra, parte integrante delle caratteristiche del testo che intendiamo mantenere in traduzione) in quanto non sempre è facile capire se siano dovuti all’autore o a qualche fase del processo di lavorazione, ma soprattutto in quanto un’ortografia scorretta, una disconcordanza, una formulazione sintattica infelice si correggono per così dire da sole; il difficile sarebbe semmai conservarle o reinventarle là dove è necessario farlo.

Come ci accorgiamo di un errore? Alcuni saltano all’occhio (incongruenze interne, sviste ovvie), soprattutto se il libro che stiamo traducendo è su un argomento che conosciamo bene. Ma persino in questi casi non dobbiamo mai dimenticarci di controllare e ricontrollare, senza dare niente per scontato.

In altri casi serve qualche ricerca, per esempio per verificare dati storici, estremi bibliografici etc. In realtà sarebbe necessario, soprattutto nella saggistica ma non solo, un serio fact-checking, responsabilità in primis dell’autore e del suo editore originale, ma che spesso sarà invece il traduttore a svolgere, parallelamente ad altre ricerche (per esempio, l’edizione italiana di un libro citato). D’altronde è ormai ben noto, fino a essere quasi un luogo comune – ma non per questo meno vero – che il traduttore è il più attento lettore di un libro, più dei lettori veri e propri (che tutto sommato hanno la libertà di leggerlo con superficialità), di revisori, critici e altri; e a volte, parrebbe, più dello stesso autore.

Per quanto riguarda le incoerenze interne, una buona norma è quella di annotarsi via via nomi, descrizioni di personaggi, gradi di parentela, date dei vari avvenimenti etc. o, dove necessario, crearsi un glossarietto di termini ricorrenti, tutti accorgimenti che ci saranno utili in ogni caso per la traduzione in sé e che ci aiuteranno a individuare eventuali sviste e problemi del testo.

Quali interlocutori?

Ma che cosa è il caso di fare, una volta certi di aver trovato un errore? L’ovvia risposta è “correggerlo”, ma non è sempre così semplice. Dopo tutto abbiamo a che fare con un testo non (del tutto) nostro e del quale dobbiamo quindi rispondere in qualche misura all’autore, e la cui traduzione ci è stata commissionata e ci verrà pagata da un editore o altro committente.

Visto quindi che ci sono in gioco tre attori – l’autore, il committente e noi traduttori – sono tre i possibili interlocutori con cui confrontarsi.

1) Errori di cui parlare con l’autore

Quando è possibile, la cosa migliore è ovviamente parlare con l’autore.

Va da sé che cercheremo di essere diplomatici e di chiedere conferma o smentita ai nostri dubbi nel modo più gentile e indolore possibile, per non urtare l’eventuale suscettibilità dell’autore, ma anche per fare un servizio al testo, ai lettori e all’autore stesso.

Le reazioni degli autori, ovviamente, possono variare. In genere è più facile accettare una correzione su un errore “redazionale” o fattuale (dati oggettivi esterni alla storia raccontata: nomi di luoghi, date ed eventi storici) che su uno di tipo più narratologico; e più su una svista minuscola che su un errore macroscopico.

Come esempio del primo caso, si ricorda un romanzo di un autore francese pieno di errori fattuali, la correzione dei quali avrebbe implicato anche la riscrittura di alcune frasi. Quando la redazione ha messo il traduttore in contatto con l’autore, questi si è dimostrato disponibilissimo e addirittura scandalizzato che il suo editore non li avesse verificati. L’esperienza si è conclusa positivamente, con l’autore che ha dettato al traduttore le nuove frasi da correggere nella traduzione italiana, che è quindi forse più “d’autore” della prima edizione francese. Vedremo che, fortunatamente, non è l’unico caso di autore grato al traduttore.

Viceversa, nel caso di problemi con la narrazione in sé, può succedere che l’autore tenda a sentirsi piccato e a minimizzare l’importanza delle segnalazioni. In un romanzo c’era un personaggio che dall’inizio alla fine restava – e doveva restare per la coerenza del racconto – all’oscuro di un certo avvenimento, e così era tranne un punto a metà libro in cui ne parlava come se lo conoscesse (mentre in seguito si diceva di nuovo esplicitamente che non ne era al corrente). L’autore, avvertito dal traduttore di questa contraddizione, si è mostrato più infastidito che altro, al punto di chiedere di lasciare l’incongruenza, che avrebbe fatto parte dei meccanismi del racconto per come lo intendeva lui.

D’altronde, anche per gli errori “oggettivi”, proprio perché fanno riferimento a un sapere che dovrebbe essere comune e quindi a maggior ragione appartenere all’autore che si è occupato di quell’argomento, può essere imbarazzante farli notare, ma non meno ignorarli e lasciarli nel testo; un autore spagnolo, per esempio, aveva citato il famoso caso dell’ultima esecuzione sotto Franco, poco prima della sua morte, quella dell’anarchico catalano Salvador Puig Antich e del tedesco Georg Michael Welzel, dicendo che erano stati fucilati, quando notoriamente erano stati garrotati. C’è voluto tutto il tatto della traduttrice per farglielo notare.

In realtà, come si può immaginare, non esistono regole. A volte gli autori apprezzano segnalazioni anche significative (soprattutto, pare, gli scandinavi) o magari non importantissime nell’economia del testo ma comunque, una volta notate, molto vistose. In un certo caso, all’osservazione da parte della traduttrice che un mobile era in mogano nel primo libro di una serie e in quercia nel secondo, l’autore ha spiegato che quel mobile esisteva veramente (lo aveva nel suo ufficio), che aveva scoperto solo da poco che era in quercia e non in mogano e che, in alternativa a dargli fuoco per sostituirlo con uno in mogano, preferiva mantenere l’incongruenza tra i due libri.

In altri casi, l’incontro tra autore e traduttore a proposito di un errore può addirittura essere molto fertile: in un caso il traduttore di un autore italiano in una lingua scandinava ha riscritto a quattro mani con l’autore parte di un capitolo che si svolgeva in un paese nordico e che in origine non sarebbe stato convincente per un lettore locale. Gli errori trovati dai traduttori possono quindi essere d’aiuto per l’autore; Umberto Eco apprezzava le modifiche che aveva potuto apportare a una nuova edizione del Nome della rosa sulla base delle segnalazioni dei traduttori.

Nel tipo di reazione dell’autore è possibile che entri anche la cultura: a costo di rinforzare gli stereotipi, parrebbe empiricamente che anglosassoni e scandinavi siano pronti ad accettare correzioni e simili con più fair play rispetto per esempio ad autori più “latini”.

Infine un esempio estremo, per vari aspetti, di rapporto tra autore e traduttrice: è il caso di uno scrittore britannico il cui corposo testo aveva avuto una genesi insolita, in quanto l’autore l’aveva scritto per tre quarti di getto, in pochi mesi, sotto l’effetto di un farmaco assunto per un tumore al cervello, che lo rendeva iperattivo. La lavorazione del libro era poi rallentata e la versione “traducibile” non lo era veramente perché in realtà l’autore ci stava ancora lavorando. Aggirando il divieto dell’editore italiano (che pretendeva che tutte le domande fossero inviate insieme alla fine, cosa improponibile a causa della quantità di elementi che non tornavano e connessi l’uno con l’altro), la traduttrice aveva contattato direttamente lo scrittore attraverso l’agente, giungendo a un fitto scambio di mail. Gli errori da segnalare riguardavano di tutto, dai titoli in latino dove era sbagliata una concordanza a una gravidanza della durata di dieci mesi e mezzo, e a innumerevoli citazioni tratte da opere eterogenee. Visto che il carteggio era avvenuto all’insaputa dell’editore italiano, la traduttrice ha declinato i ringraziamenti che l’autore voleva porgerle nell’edizione inglese (uscita dopo quella italiana).

Naturalmente, in altri casi potrebbe invece essere davvero il caso di discutere tutti gli errori – o presunti tali – alla fine, se il testo e i tempi di lavorazione lo permettono, anche perché qualche apparente problema potrebbe risolversi da solo duecento pagine più avanti: di nuovo, non esistono regole fisse.

In conclusione, per problemi di una certa portata è bene cercare di avere un contatto, possibilmente diretto, con l’autore. Attenzione però agli autori che pensano di conoscere la lingua di arrivo meglio di noi!

2) Errori di cui parlare con la redazione

La redazione è l’ovvio interlocutore quando non è possibile parlare con l’autore o anche per questioni “minori” ma comunque non trascurabili. È abbastanza frequente, per esempio, il caso di citazioni scorrette, magari perché fatte a memoria, o addirittura attribuite alla persona sbagliata. Una traduttrice ricorda il verso Over and over thru the dull material world the call is made, attribuito a Walt Whitman laddove è tratto invece dalla poesia Night Gleam di Allen Ginsberg: dopo averlo segnalato alla redazione si è deciso di correggere il testo italiano.

3) Errori di cui parlare con noi stessi

Ci sono infine errori di cui possiamo parlare con noi stessi, o se vogliamo con il testo, il che è un modo poetico per dire che li possiamo correggere direttamente. Tra gli esempi più classici ci sono nomi di persona o di luogo storpiati, date scorrette, errori relativi alla lingua o alla cultura italiana commessi da personaggi italiani in romanzi stranieri (e se sembra che fra le righe risuoni il nome di Dan Brown – autore per esempio di una terzina dantesca formata da quattro versi – forse non è un caso).

Se si modifica qualcosa di appena non ovvio, è sempre buona norma segnalarlo in un commento a margine per la redazione. Se non lo facessimo, si rischierebbero perdite di tempo per spiegazioni o addirittura la nostra correzione potrebbe essere scambiata per una svista, e l’errore originario ripristinato. Ma è bene anche che il testo inviato sia stampabile nella forma in cui viene mandato, e che quindi il committente non debba necessariamente cambiare niente. Quindi evitiamo spiegazioni o versioni multiple all’interno del testo, a favore di commenti a margine o in un file allegato.

Starà al nostro tatto, a seconda del tipo di testo, di redazione etc., scegliere se essere più diretti («Nell’originale c’è scritto “Tartan” ma è chiaramente sbagliato: ho corretto in “Tarzan”») o più diplomatici («Ho interpretato il “Tartan” dell’originale come “Tarzan”»); va da sé che questo secondo tipo di approccio sarà ancor più consigliabile nel rapporto con gli autori.

A volte, anziché correggere basta generalizzare: se un’affermazione viene attribuita ai fisici ma in realtà è una questione di matematica o biologia si può mettere “scienziati”, e analogamente possiamo giocare con gli iperonimi per riferimenti a specie animali e vegetali, periodi storici, dottrine filosofiche etc.; oppure, per esempio, possiamo usare un generico “denaro” se una cifra o una valuta specifica che veniva menzionata era insensata (e non ha comunque una specifica importanza nel resto). Altre volte basta togliere una singola parola: per esempio si può omettere un aggettivo che contraddice qualcos’altro, come per una mattina «soleggiata» in cui poi viene detto che sta piovendo.

Come decidere?

Ovviamente non c’è un confine rigido tra le varie possibilità a nostra disposizione. Sceglieremo come agire in base al tipo di testo, alle strategie generali che abbiamo adottato per quella traduzione, a quanto sono raggiungibili e pronti al dialogo l’autore e la redazione, al tempo a disposizione e ad altri parametri.

Una distinzione che ritengo fondamentale, nonostante la sua labilità, è quella riguardante l’intento e il genere del testo, soprattutto lungo l’asse “saggistica vs narrativa” e quello, non necessariamente coincidente, “insegnare vs intrattenere”. Se parlo di assi è proprio perché è ben raro il caso in cui un testo si trovi appieno in una sola casella anziché in qualche punto lungo queste possibili direzioni, che hanno non di meno una grande importanza.

Nella saggistica, in particolare in quella divulgativa,

l’esigenza principe è quella di trasmettere un dato messaggio con la massima chiarezza e precisione possibile, perfino a scapito dell’integrità del testo di partenza. In quest’ottica, correggere un errore fattuale, sciogliere un passaggio oscuro, adattare riferimenti culturali alla realtà italiana sono operazioni che traducendo divulgazione è permesso e anzi consigliabile fare, molto più che nel caso letterario (Doplicher 2012, 122).

Si potrebbe pensare che in altri testi, come i romanzi “di genere”, questo scrupolo di esattezza sia meno forte, ma non è necessariamente così. È noto, per esempio, che le redazioni di romanzi rosa di ambientazione storica sono attente a verificare e, quando serve, a correggere le eventuali “distrazioni”.

Possiamo anche basarci su una qualche misura della gravità dell’errore, in relazione con la natura del testo (potremmo distinguere fra una svista in un aneddoto rispetto a una all’interno di un ragionamento o di un esempio inteso a chiarire una spiegazione), ma tenendo presente che in un testo che “insegna” ogni errore può essere grave.

Un caso, per certi aspetti, diametralmente opposto a quello dei testi divulgativi è dato dai classici. Qui la tendenza è di lasciare immutate anche eventuali stranezze ed errori, per una sorta di “rispetto”, ma anche per un dovere di documentazione del testo: se su un tempio greco c’è una scritta sbagliata, non andiamo con martello e scalpello a correggerla.

Ci sono innumerevoli casi di testi ormai classici nati in fretta, o mai revisionati dall’autore se non addirittura incompiuti, o più prosaicamente pubblicati a puntate etc., e che quindi sono terreno fertile per le sviste. Un caso ben noto è costituito da I tre moschettieri di Dumas, in cui ci sono incoerenze come età che cambiano, un fratello maggiore che diventa minore e altro. Un classico è ormai cristallizzato com’è e ogni intervento sarebbe una sorta di violazione. Anzi, magari su quella data svista esistono anche studi accademici: non può sparire nel nulla.

In realtà, c’è chi argomenta a favore del lasciare errori anche lampanti pure nel caso di scrittori contemporanei. Se Dan Brown è un pasticcione, che se ne accorgano tutti…

Localizzare?

Una parola a latere su un contesto che non c’entra direttamente con gli errori, ma ci pone di fronte a scelte o dubbi spesso molto simili: la localizzazione, cioè l’adattamento di qualche piccolo aspetto alla realtà culturale del lettore della traduzione. Si va dalla conversione di unità di misura (per esempio, da imperiali a metriche) al fatto di modificare gli esempi per trasferirli a un contesto nostrano, là dov’è il caso di farlo (se per visualizzare una certa lunghezza la si paragona alla distanza tra Londra e Manchester, è pensabile “tradurla” in quella tra Roma e Pisa). Ma sono in ballo anche decisioni più sottili. Se l’autore originale parla, diciamo, del «grande poeta italiano Giacomo Leopardi», lasciamo così oppure lo rendiamo semplicemente con «Giacomo Leopardi»? Non c’è nulla di sbagliato in quella locuzione più estesa, ovviamente, se non forse da un punto di vista pragmatico: per un lettore italiano ci sarebbe una sorta di ridondanza che per un lettore straniero può non esserci. Decisioni analoghe dovremo prendere per, poniamo, «Florence, Italy», soprattutto se in precedenza avevamo ritenuto utile anche noi, per città di altre nazioni, lasciare l’indicazione del paese. E qual è invece un poeta o un toponimo per il quale al lettore italiano può essere utile l’indicazione della nazionalità nonostante l’originale non la desse?

Esempi

Per concludere vediamo qualche esempio concreto di errore rinvenuto nel testo originale da chi traduceva. Gli esempi sono sempre utili e sono sicuramente più ameni di tante chiacchiere teoriche: nei casi migliori fanno sorridere e riflettere al contempo. Questi passi riguardano per lo più errori del primo tipo, quelli “fattuali”, perché in genere gli altri richiedono un contesto più ampio.

* Around 5.000 BC the Egyptians invented papyrus (Haw 2007, 170): letteralmente, «Verso il 5000 a.C. gli egiziani inventarono il papiro». In realtà è successo semmai dalle parti di 5000 anni fa (e non 5000 anni avanti Cristo), senza contare che il papiro è innanzi tutto una pianta e quindi non si può inventare. Dovendo tradurre, scriveremo qualcosa come «Circa 5000 anni fa gli egiziani iniziarono l’uso del papiro» (e il contesto aiuterà circa cos’altro è necessario dire).

* Al pur eccellente divulgatore Philip Ball sfugge he proposed to call these different forms of the same element ‘isotopes’, meaning ‘same shape’ (Ball 2013, 151), attribuendo alla parola “isotopo” il significato di “che ha la stessa forma”, cioè semmai “isomorfo”, termine pure molto usuale in ambito scientifico. La versione italiana, dopo un rapido scambio con l’autore che suggerì una versione emendata, fu «propose di chiamare queste forme diverse dello stesso elemento “isotopi”, che significa “che hanno la stessa posizione (nella tavola periodica)”» (Gewurz 2015, 159).

* Alcune situazioni delicate (ma anche divertenti, con un minimo di cinismo) si hanno quando l’autore riporta un testo che originariamente era in una terza lingua – in traduzione propria e magari senza specificare gli estremi dell’originale – e, così facendo, fraintende qualcosa. Qui c’è per il traduttore l’ulteriore lavoro di ricostruire con una sorta di ingegneria inversa che cos’è successo, che cosa c’entrava per esempio quella misteriosa “lacrima” che poi si rivela uno “strappo”, cioè un tear frainteso.

* Le associazioni di idee possono giocare brutti scherzi. Nel maggio 1927 il poeta greco Angelos Sikélianos e sua moglie Eva Palmer vollero creare una versione moderna dei giochi pitici con, tra l’altro, the performance of a tragedy (in that year, Aeschylus’s Prometheus Unbound) (Scott 2014, 277), ossia mettendo in scena una tragedia di Eschilo, il Prometeo liberato. In realtà venne rappresentato il Prometeo incatenato; di quello Liberato non esistono se non pochi frammenti. È possibile che nella mente di un autore anglofono sia più vivo il titolo Prometheus Unbound in quanto dramma di Shelley.

* Può capitare che, in un testo ricco e denso, a un autore sfugga per un attimo una caratteristica di un personaggio e cada così in contraddizione, il che magari è solo dovuto a una frase fatta che ha momentaneamente il sopravvento sulla coerenza. Così un calvo può per un attimo correre con i capelli al vento, e la cosa più semplice sarà espungere un paio di parole; oppure un tale viene descritto a osservare qualcosa with his hands clasped behind his back (Cooper 2015, 88), cioè con le mani giunte dietro la schiena. Il problema è che sappiamo bene che è privo di un braccio, e in quel momento persino della protesi, che gli era stata rubata; diventerà «in posa contemplativa» (Zani 2015, 108).

* E infine, alla rinfusa: patate nel medioevo europeo, palafitte realizzate in sambuco, possibili scambi di persona fra Roger Bacon, Francis Bacon e l’altro Francis Bacon, segni diacritici scomparsi nel nulla, giorni della settimana che non tornano, membri di un’organizzazione paramilitare confusi con paracadutisti… Bisogna sempre stare sul chi vive!

Ringraziamenti

Ho preferito fare raramente nomi e cognomi espliciti (a parte Dan Brown) nei vari esempi e testimonianze, anche perché in alcuni casi si è trattato di situazioni delicate, ma sono gratissimo per l’aiuto nella stesura di questo scritto, per il materiale e per gli scambi di idee agli amici e colleghi Laura Cangemi, Lia Desotgiu, Camilla Diez, Luisa Doplicher, Riccardo Duranti, Claudia Valeria Letizia, Anna Lovisolo, Gina Maneri, Franco Nasi, Daniele Petruccioli, Roberta Scarabelli, Raul Schenardi, Laura Sgarioto, Simon Turner, Isabella Zani, Giovanni Zucca. Questo articolo non esisterebbe senza di loro.

Come si fa sempre, aggiungo che degli eventuali errori – commessi, non menzionati – in questo articolo, la responsabilità è solo mia; e, per la legge di Muphry (sic), è sicuro che ce ne saranno.

Bibliografia

Balestrini 1966: Nanni Balestrini, Tristano, Milano, Feltrinelli

Ball 2013: Philip Ball, Serving the Reich, Londra, The Bodley Head

Cooper 2015: Tom Cooper, The Marauders, New York, Crown Publisher

Doplicher 2012: Luisa Doplicher, La saggistica scientifica tra editing e traduzione, in Giornate della traduzione letteraria 2010-2011, a cura di Stefano Arduini e Ilide Carmignani, Roma, Voland, pp. 122-125

Gewurz 2015: Philip Ball, Al servizio del Reich, trad. di Daniele A. Gewurz, Torino, Einaudi

Haw 2007: Mark Haw, Middle World: The Restless Heart of Matter and Life, New York, Macmillan

Nasi 2021: Franco Nasi, Tradurre l’errore. Laboratorio di pensiero critico e creativo, Macerata, Quodlibet

Petruccioli 2010: Daniele Petruccioli, Al di qua del limite di rifacimento. Lettere: la traduzione di Ella Minnow Pea di Mark Dunn, in Le giornate della traduzione letteraria. Nuovi contributi, a cura di Stefano Arduini e Ilide Carmignani («Quaderni di Libri e riviste d’Italia» 63), Guidonia, Iacobelli, pp. 232-241

Scott 2014: Michael Scott, Delphi. A History of the Center of the Ancient World, Princeton, Princeton University Press

Zani 2015: Tom Cooper, Cielo di polvere, trad. di Isabella Zani, Novara, DeAgostini-BOOKME