ALLE PRESE CON GIORNI SENZA FINE DI SEBASTIAN BARRY
di Cristiana Mennella
America, 1850. Thomas McNulty, quindicenne irlandese senza famiglia scampato alla tremenda carestia in patria, arriva in Missouri e incontra John Cole, suo quasi coetaneo con qualche goccia di sangue indiano nelle vene. Nello spazio di vent’anni i due allieteranno i minatori ballando vestiti da donna in un saloon, stermineranno villaggi indiani, combatteranno per Lincoln durante la guerra civile, si innamoreranno l’uno dell’altro e metteranno su famiglia “adottando” Winona, piccola sioux uscita viva da una strage che hanno perpetrato insieme a un’orda di commilitoni.
Giorni senza fine (Days Without End) è un romanzo – picaresco? storico? di guerra? d’amore? – dello scrittore irlandese Sebastian Barry che ho tradotto ormai tre anni fa. Mi è impossibile ripercorrere nei dettagli il processo di traduzione, ma proverò a spiegare quale è stato l’atteggiamento decisivo per affrontare questo testo. Il libro non è facilmente etichettabile e condensa elementi e livelli tematici che appaiono incongrui e inconciliabili nello spazio di quella che, tutto sommato, è un’opera breve (duecentoventi pagine nella versione italiana edita da Einaudi).
La sala cinematografica è un esempio che forse può aiutarmi a rendere l’idea della singolare esperienza di lettura – e relativa traduzione – di questo libro. Immersi nel buio, guardiamo un film dove succede di tutto, assistiamo alle situazioni più improbabili, addirittura anacronistiche, eppure, anche se la nostra realtà quotidiana preme dall’esterno minacciando di irrompere e vanificare l’illusione, ci appassioniamo, partecipiamo e rimaniamo concentrati fino al termine della proiezione.
Il poeta Coleridge parlava di «volontaria sospensione dell’incredulità», willing suspension of disbelief (Coleridge 1991, 236). In Giorni senza fine le avventure, le violenze, gli orrori della guerra, la storia d’amore fra Thomas e John, la famiglia sui generis – con Thomas che diventa Thomasina e si mette letteralmente nei panni di una madre amorevole – che i due uomini formano con la piccola Winona stupiscono ed emozionano dal momento in cui apriamo il libro a quello in cui lo richiudiamo.
Questo universo fonda la sua credibilità sulla voce di Thomas McNulty. Thomas rievoca, riflette, descrive, sentenzia anche. Senza soluzione di continuità alterna frasi sgrammaticate e un registro decisamente basso a passaggi di puro lirismo, sfoggiando un eloquio potente e immaginifico.
Un equilibrio sapiente e delicato che è stato arduo e disperante riprodurre in traduzione. Più il traduttore si immerge in questo testo – e quindi smonta e rimonta, ascolta e distingue – e più, per forza di cose, l’illusione di realtà gli si sgretola davanti agli occhi. La sospensione dell’incredulità viene meno. In questo caso, arrivare a riconoscere nelle sue varie componenti l’oggetto che si ha di fronte non suggerisce simultaneamente un metodo, un percorso. Ma una strada bisognava trovarla, bisognava recuperare il senso dell’orientamento. Le vie del dialetto – ormai è quasi superfluo dirlo – sono proibite. Come se non bastasse, il personalissimo lingo americano di Thomas non ha riscontro in una precisa realtà locale. È un’invenzione. Lui, che è un po’ poeta e un po’ analfabeta, adopera una lingua tutta sua. Non ci sono modelli a cui rifarsi. E resta, costante, ineludibile mentre si lavora, la sensazione di non riuscire a rendere credibile in italiano – come lo è nell’originale – questa voce fluida, anche nella contraddizione.
Ma qui sta la chiave: nella fluidità. La voce di Thomas trascina come un fiume. Non c’è nessuno stacco fra commedia e tragedia, fra bene e male, fra maschile e femminile, fra alto e basso, fra prosa e poesia, fra storpiature e voli pindarici. Per cercare di renderla, dopo la lettura analitica e il relativo smarrimento davanti ai passaggi più inverosimili, dopo le immancabili e numerose difficoltà di interpretazione, dopo la trattativa per individuare gli elementi da sacrificare e quelli da salvare, ho dovuto fare un passo indietro e rientrare nello spazio della volontaria sospensione dell’incredulità. Accettare quel patto iniziale anche in traduzione. Stipularlo anche nella mia lingua abbandonando almeno per un po’ i timori e le riserve mentali (è dura uscire dai propri schemi) per ritrovare una sintesi tra la parte più razionale di me stessa e quella più soggettiva ed emotiva. In che modo rimarginare le suture della traduzione, cancellare le intersezioni più o meno evidenti, assecondare le svolte repentine del testo? Seguendo il ritmo di questa voce. Il ritmo accoglie le disuguaglianze, dà coerenza a ciò che è frammentario, esalta le variazioni e frena le stonature. Scegliendo, tanto per fare un piccolo esempio, di tradurre un termine poetico, letterario come fleet che in bocca a Thomas è sorprendente, con «rapinoso», perché proprio questa, ripeto, è la rogna, la bizzarria del libro. Gli sbalzi lirici, il lessico ricercato, convivono con le storpiature. E quindi i congiuntivi in italiano a volte scapperanno, le frasi si frattureranno in anacoluti che alterano drasticamente il registro (Sargeant said no one ever likely understood Indians /Il sergente ha detto gli indiani chi li capisce è bravo) Così doveva essere, per me, e così ho fatto: ho unificato (non omogeneizzato), per quanto ho potuto, nella mia lingua.
Ho cercato di salvare le contraddizioni, l’unica cosa da non immolare nel nome di questa voce.
They know I am a man because they have read it on the bill. But I am suspecting that every one of them would like to touch me and now John Cole is their ambassador of kisses. Slowly slowly he edges nearer. He reaches out a hand, so openly and plainly that I believe I am going to expire. The held-in breath of the audience is not let out again. Half a minute passes. It is unlikely any of them could of holded their breath like this underwater. They have found new size in their lungs. Down down we go under them waters of desire. Every last man, young and old, wants John Cole to touch my face, hold my narrow shoulders, put his mouth against my lips. Handsome John Cole, my beau. Our love in plain sight. Then the lungs of the audience giving out, and a rasping rush of sound. We have reached the very borderland of our act, the strange frontier. Winona skips off the stage, and John Cole and myself break the spell. We part like dancers, we briefly go down to our patrons, we briefly bow, and then we have turned and are gone. As if for ever. They have seen something they don’t understand and partly do, in the same breath. We have done something we don’t understand neither and partly do. (Barry 2016, 111-2).
Sanno che sono un uomo, l’hanno letto sulla locandina. Ma qualcosa mi dice che ognuno di loro sogna di toccarmi, e adesso John Cole è l’ambasciatore dei loro baci. S’accosta piano piano. Tende una mano apertamente, semplicemente, e io sento che sto per svenire. Il pubblico trattiene ancora il fiato. Passa mezzo minuto. Nessuno di loro ce la farebbe a trattenere il fiato così a lungo sott’acqua. Hanno trovato altro posto nei polmoni. Giù, giù, affondiamo nelle acque del desiderio. Ogni uomo, giovane e vecchio, vorrebbe che John Cole mi toccasse il viso, m’afferrasse le spalle strette, mi posasse la bocca sulle labbra. Il bel John Cole, il mio tesoro. Il nostro amore sotto gli occhi di tutti. Poi i polmoni del pubblico cedono, è un rumore roco, improvviso. Abbiamo raggiunto i limiti estremi del nostro numero, la strana frontiera, Winona scappa via dal palco, e io e John Cole rompiamo l’incantesimo. Ci stacchiamo come ballerini, svelti svelti ci avviciniamo al pubblico e c’inchiniamo, poi giriamo i tacchi e ce ne andiamo. Come per non tornare mai più. Nello spazio d’un respiro, hanno visto una cosa che non capiscono fino in fondo. E noi abbiamo fatto una cosa che non capiamo fino in fondo. (Mennella 2018, 101)
Riferimenti bibliografici
Barry 2016: Sebastian Barry, Days Without End, London, Faber and Faber
Mennella 2018: Sebastian Barry, Giorni senza fine, Torino, Einaudi (traduzione italiana di Cristiana Mennella da Days Without End, London, Faber and Faber, 2016)
Coleridge 1991: Samuel Taylor Coleridge, Biographia literaria, ovvero Schizzi biografici della mia vita e opinioni letterarie, Roma, Editori Riuniti (traduzione italiana di Paola Colaiacomo da Biographia Literaria; or Biographical Sketches of My Literary Life and Opinions, London, Rest Fenner, 1817)
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