Enrico Tiozzo, La pubblicistica italiana e la censura fascista. Dal delitto Matteotti alla caduta del regime, Aracne Editore, Roma 2011, pp. 946, €40,00
di Christopher Rundle
Quando si parla di traduzioni pubblicate durante il ventennio fascista sembra sempre d’obbligo tener conto della censura che il regime operava sulle pubblicazioni. Per questo è utile conoscere il meglio possibile quali fossero i contenuti e i limiti di questo intervento politico sulla produzione libraria. Purtroppo il lungo studio di Enrico Tiozzo, così promettente dal titolo, ci aiuta poco. Il libro è composto essenzialmente da tre parti: una ricostruzione molto dettagliata del delitto Matteotti, dal rapimento ai processi che seguirono; una analisi molto estesa degli autori di narrativa popolare Mario Mariani, Pitigrilli (Dino Segre), Lucio D’Ambra, Guido da Verona e Michele Saponaro; e come filo conduttore che lega queste due parti del tutto distinte, una riflessione sulla censura fascista.
Va subito specificato che, anche se il titolo del volume farebbe pensare che la censura sia il suo argomento principale, in realtà gli altri due temi dominano le pagine di questo studio e lasciano inevitabilmente un po’ deluso quel lettore che si aspettava una ricerca sulla censura. Questo senso di aspettative disattese è dunque la nota caratterizzante di questa recensione nella quale ci concentreremo sul tema della censura, che sarà anche per noi filo conduttore (in linea con quelle che sono le nostre competenze), e non ci addentreremo troppo né nei meandri del delitto Matteotti né nell’estesissimo ambito della narrativa popolare durante il ventennio.
Il delitto Matteotti e la censura
Dopo due brevi capitoli introduttivi, Tiozzo dedica una lunga sezione di 184 pagine al delitto Matteotti, il ritrovamento della sua giacca, del suo cadavere, e i due processi celebrati (capitoli III-VII). La ricostruzione è sicuramente molto esauriente ma raggiunge un livello di dettaglio eccessivo, a nostro avviso, presentando subito un problema che avvertiamo in tutto il volume: una tendenza da parte di Tiozzo a perdere di vista l’argomento principale nella foga di mettere sulla pagina tutta la conoscenza accumulata. E così veniamo a sapere che il terreno in cui era sepolto il cadavere era di un tipo che tratteneva le «particelle odorifere» (p. 114 n. 28) e per questo non fu ritrovato prima; che l’esatta temperatura il giorno del rapimento era «28,6° all’ombra» (123 & n.46); che l’età dei figli del capitano Pallavicini, coinvolto nel ritrovamento della giacca di Matteotti, era di «7 e 5 anni»; che la figlia più piccola di Pallavicini «s’era ammalata di scarlattina proprio in quei giorni destando le sue preoccupazioni»; che il tratto tra la stazione di Sacrofano dove Pallavicini ha preso in consegna la giacca e la stazione di Prima Porta dove è sceso è di «soli 6 chilometri e 450 metri» (166-7); e via di questo passo. Siamo veramente al sarto di Federico Guglielmo IV, di meyeriana e weberiana memoria (Meyer 1902/1990 & Weber 1906/2001). Ci sembra legittimo chiederci quale sia il valore di queste minuzie in questa sede. Tanto più che, se fossimo interessati all’argomento, possiamo sempre rivolgerci allo studio che Tiozzo ha dedicato al delitto Matteotti: La giacca di Matteotti e il processo Pallavicini. Una rilettura critica del delitto, Roma, Aracne, 2005.
Nelle intenzioni dell’autore questa ricostruzione serve per dimostrare che il fascismo non ha saputo esercitare un vero controllo sugli eventi intorno al delitto, né su come veniva riportato nella stampa né sull’andamento del primo processo, al punto di non essere neanche riuscito ad occultare il cadavere. Secondo Tiozzo, la tesi di alcuni studiosi che il ritrovamento del corpo di Matteotti fu pilotato durante il ferragosto per mitigare l’impatto politico «comporta necessariamente una pianificazione attenta del delitto da parte del fascismo, capace quindi di controllare con coercizioni, violazioni e censure la società italiana degli anni ‘20» (p. 125). Dimostrando che il regime non ha, invece, esercitato questo controllo, Tiozzo vuole affermare che il regime non fosse poi cosi coercitivo o repressivo come “normalmente” viene dipinto. Questo ragionamento, che ci pare poco convincente e anche un po’ sillogistico, presuppone innanzitutto una continuità tra il periodo 1924-26, che possiamo chiamare di transizione dalla prima fase più rivoluzionaria del fascismo, e gli anni successivi in cui il regime era saldamente al potere e non era più vulnerabile agli attacchi di una opposizione ormai fortemente indebolita, ma temeva invece l’involuzione e la perdita di slancio del movimento fascista stesso. Ci sembra azzardato caratterizzare la censura fascista nel suo complesso usando come esempio il suo comportamento in un momento così particolare come gli anni del delitto Matteotti. Lo stesso Tiozzo, d’altronde, in maniera contraddittoria rispetto alla linea d’analisi da lui seguita, definisce «imprudente» mettere «sullo stesso piano storico i giorni del rapimento e del ritrovamento di Matteotti, e quelli invece del processo di Chieti, giunto – com’è noto – quasi due anni dopo il delitto» (p. 131). Un simile scrupolo avrebbe consigliato di evitare di formare il giudizio sulla censura fascista su una base storicamente più ampia.
Inoltre, i molti studi sulla censura fascista (Bonsaver 2007; Cannistraro 1975; Cesari 1978; Fabre 1998; Ferrara 2004; Greco 1983; Murialdi 1986; Rundle 2010; Talbot 2007; Tranfaglia 2005; Zurlo 1952, per citarne alcuni), dimostrano chiaramente che la censura venne applicata a più livelli e con diversi gradi di severità e che dunque generalizzazioni come quelle di Tiozzo non sono affatto utili. Ci pare inconfutabile che la censura esercitata sul dibattito politico fosse, prevedibilmente, molto severa, mentre quella in campo culturale era più flessibile e per certi versi più sorprendente. Queste differenze si manifestarono da una parte in un controllo stringente dei quotidiani e delle pubblicazioni periodiche in generale e dall’altra in un controllo molto meno severo dell’editoria libraria, dove il regime si affidava all’effetto persuasivo ed efficace di alcuni sequestri e al sostanziale sostegno al suo progetto da parte degli editori italiani e della loro federazione. In un volume che ha come argomento principale la censura fascista ci si aspetterebbe una maggiore consapevolezza di queste sfumature che invece vengono trascurate a favore di costanti paragoni con la Repubblica italiana contemporanea, tese ad illustrare quanto poco “regime” fosse il regime fascista e quanto la storiografia sul fascismo sia espressione di pregiudizi della sinistra – ad eccezione di quei pochi eletti che Tiozzo battezza come «non di parte» (p. 215) come Aldo Mola e Renzo De Felice:
Molti (addirittura troppi) fenomeni, indicati a proposito del Ventennio mussoliniano come tipici dell’occhiuta vigilanza e degli arbitrȋ della dittatura (le intercettazioni, le decisioni imposte dall’alto senza giustificazione, l’uso della violenza, controlli di vario tipo, ecc.) hanno continuato tranquillamente ad esistere nell’Italia del secondo dopoguerra ed hanno caratterizzato la cosiddetta “prima Repubblica”, senza cessare minimamente di esistere nella sedicente “seconda Repubblica” (pp. 223-4).
Sostenere che il regime fascista non fosse poi così totalitario come alcuni lo hanno dipinto è lecito, ma questa interpretazione va documentata con fonti dell’epoca e non con paragoni tendenziosi e anacronistici, come il confronto tra l’uso delle intercettazioni da parte del regime in seguito al delitto Matteotti e quello da parte della magistratura italiana in questi ultimi dieci anni (cfr. pp. 132-33 e 217-18). E mentre è perfettamente lecito contestare l’opinione altrui e sostenere che è frutto di un pregiudizio ideologico, questa contestazione deve essere documentata. Infatti, la tesi di Tiozzo viene fortemente indebolita, a nostro avviso, dai frequenti e ripetitivi richiami ad una supposta opinione comune (di sinistra) sulla natura del regime fascista che lui contesta senza mai definirla chiaramente, e senza fornire nomi. Si vedano i seguenti esempi, tutti privi di qualsiasi citazione o riferimento bibliografico:
[…] l’effettivo potere di controllo (coercitivo, poliziesco, punitivo e repressivo) di cui poteva avvantaggiarsi il fascismo negli anni cruciali del delitto Matteotti e che viene ormai – nella confusione e nella superficialità generale delle interpretazioni di quasi un secolo dopo – dato per scontato come un fatto inequivocabile (p. 135)
[…] la supposta esistenza di strombazzate ed imponenti misure coercitive da parte del fascismo (p. 137)
[i] principali quotidiani italiani […] nei quali, in barba alla tanto strombazzata censura fascista, si parla, s’intervista e si discute in piena libertà e senza celare sospetti, sdegno e condanno per il delitto (p. 148)
Sono argomenti che ci rafforzano nella nostra convinzione che Mussolini e il fascismo non fossero in grado di esercitare quel controllo poliziesco, censorio e coercitivo sulla società italiana degli anni ’20, che viene invece dato per scontato quando si affronta l’argomento della censura fascista (p. 151)
Con il delitto Matteotti nasce il mito, poi nutrito vigorosamente dalla sinistra, ma inossidabile oggi e universalmente accettato ovunque, della forza coercitiva, censoria e onnipotente del fascismo e di Mussolini (p. 213)
[…] abbiamo voluto dedicare molto spazio all’analisi del delitto Matteotti perché è alla base della nascita del mito (voluto dalla sinistra italiana) dell’onnipotente e annientante forza oppressiva, coercitiva e censoria esercitata da Mussolini già sull’Italia del 1924 (p. 214)
Il lettore ci perdonerà questa lunga sequenza di citazioni, ma essa serve per sottolineare l’insistenza un po’ stridula con cui Tiozzo ripete sempre la stessa accusa generalizzata. Anche quando fa riferimento a «storici e studiosi», lo fa senza nominare nessuno e senza fornire citazioni o riferimenti:
Non riteniamo di dover insistere oltre nella nostra perlustrazione critica del sedicente clima censorio che, secondo molti storici e studiosi di quanto avvenne in Italia durante il fascismo, sarebbe stato evidente in Italia nei mesi del delitto Matteotti. (217)
Colpisce, infine, che i due studiosi della censura fascista che Tiozzo effettivamente cita, Giorgio Fabre e Guido Bonsaver, non hanno certo una visione tendenziosa del regime fascista e del suo apparato poliziesco – non rientrano, insomma, in quell’opinione «strombazzante» contro la quale Tiozzo si scaglia nei brani che abbiamo citato sopra, ma sono stati capaci anche di riconoscere le contraddizioni del sistema.
Un aggravante in queste accuse lanciate alla cieca contro studiosi non nominati sono anche le frequenti – e per quanto ci riguarda, irritanti – polemiche politiche. Ognuno ha diritto alle sue idee, ma questo volume si presentava come uno studio storico dove il lettore non si aspettava di dover stare ad ascoltare, mentre l’autore segna punti retorici contro i suoi avversari ideologici.
Ma torniamo alle tesi di Tiozzo sulla censura. L’altro punto chiave del suo studio è che fino all’introduzione delle leggi razziali non ci fu una vera censura fascista:
Il controllo fascista su giornali e libri – nelle forme censorie reali, ma spesso anche permissive e sancite comunque ancora dall’editto sulla stampa del 1848 emanato da Carlo Alberto, re di Sardegna – s’irrigidì in realtà solo una decina d’anni dopo il delitto Matteotti, e toccò il vertice dell’infamia solo con le leggi razziali del 1938 per spingersi all’estremo una dozzina di mesi prima del crollo della dittatura quando il clima politico e morale era ormai insopportabile (pp. 218-19)
L’evento al quale Tiozzi fa riferimento qui, una decina di anni dopo il delitto Matteotti, è la circolare n. 442/9532 del 3 aprile 1934, che mise in piedi per la prima volta un sistema di controllo preventivo sui libri ed è il primo intervento significativo della censura fascista con motivazioni razziste. Il provvedimento fu provocato dalla copertina di un romanzo di Mura (Maria Volpi), Sambadù amore negro, che raffigurava una donna bianca fra le braccia di un uomo nero in abito elegante, e che fece infuriare Mussolini (Fabre 1998, 22-28). Tiozzo poi spiega anche i motivi di questa sua interpretazione:
È necessario a questo punto del nostro studio introdurre una distinzione fondamentale tra le due linee di fondo della censura del regime mussoliniano: quella attenta alla morale comune e alla salvaguardia dei valori tradizionali dello Stato contro ogni tendenza anarchica o eversiva, e quella invece mirata esclusivamente a colpire gli intellettuali e gli scrittori ebrei […]. Se questa seconda linea ispiratrice è da condannare sotto ogni punto di vista e da qualsiasi angolazione come una vergogna incancellabile durante il fascismo, la prima tendenza va invece interpretata in un senso diverso da quello, per lo più indifferenziato, con cui si accomunano le due direttrici di fondo, per trarne la discutibile conclusione che il Ventennio fascista fu caratterizzato da una censura e un controllo ferrei sugli italiani. (225-6)
Da un lato siamo d’accordo che, bisogna separare la censura di ispirazione morale, tesa a sorvegliare il buon costume, dalla censura di ispirazione politica tesa a imporre un allineamento ideologico e a reprimere il dissenso. Per quanto riguarda la prima l’Italia non si differenziò in maniera significativa da altri paesi occidentali in cui vigeva lo stesso senso di morale comune (anche se in tutto l’occidente la narrativa popolare e il cinema stavano gradualmente spingendo contro questi limiti), mentre lo stesso non si può dire della seconda. Infatti, la distinzione che propone Tiozzo ci sembra troppo semplificata e andrebbe fatta, a nostro avviso, nei seguenti termini:
• il regime imponeva una censura progressivamente più capillare sui quotidiani e periodici, attraverso una combinazione di misure repressive, misure di controllo legislative, un controllo assoluto dell’unica agenzia di stampa, la Stefani, e misure più morbidi di persuasione;
• c’era un assoluto divieto di qualsiasi forma di dissenso politico e un controllo rigido sulla cosiddetta “cronaca nera” per il suo impatto negativo d’immagine;
• fu messo in piedi una censura preventiva efficace su tutte le forme di comunicazione e spettacolo di massa: cinema, teatro e radio – con una certa flessibilità usata nei confronti dell’élite culturale che aveva meno bisogno di essere “protetta”;
• c’era una censura meno impegnativa sui libri, sia perché visti come un fenomeno minore che riguardava meno le masse (oggetto prioritario delle politiche di controllo del regime), sia perché l’editoria italiana fu presto allineata con il regime e stabilì un rapporto di collaborazione convinta con esso (come Tiozzo stesso dice a p. 229).
Questa situazione era già in essere, in maniera più o meno organizzata e sistematica, dal 1926 in poi. L’impatto censorio, prima della campagna per l’autarchia e poi delle leggi razziali, si è sentito più che altro sui libri – l’unica area fino ad allora poco controllata (vedi Rundle 2010, capitoli 4 & 5). Mentre è vero, quindi, che con le leggi razziali la rigidità della censura fece un netto salto di qualità, sostenere che prima di essi non ci fu una censura fascista ci sembra molto azzardato, e tendenzioso quanto quella opinione «sinistrorsa» che Tiozzo ripetutamente chiama in causa.
Letteratura popolare sovversiva
I quindici capitoli che seguono, per un totale di 670 pagine, sono dedicati a una lunga analisi di diversi autori di narrativa popolare. Lo scopo di Tiozzo è sia di riportare all’attenzione un gruppo di scrittori che considera ingiustamente trascurato da critici e pubblico, sia di valutare l’impatto sovversivo di questi romanzi. In queste pagine dedicate a Mario Mariani, Pitigrilli (Dino Segre), Lucio D’Ambra, Guido da Verona e Michele Saponaro, la struttura dei capitoli è fissa: lunghi riassunti delle trame, con lunghissime citazioni, e lunghe analisi della letteratura critica – il tutto certamente molto ben documentato – e con poche parole finali sulla censura.
Il primo obiettivo, in realtà, è caratteristico di tutta la produzione scientifica di Tiozzo, che ha dedicato migliaia di pagine alla studio critico della narrativa popolare della prima metà del Novecento (cfr. elenco in fondo a questa recensione). Mentre il secondo obiettivo viene un po’ perso di vista, come abbiamo anticipato, sotto la mole di analisi critica offerta in questi capitoli. Inoltre, l’impatto sovversivo di un romanzo non si può giudicare semplicemente elencando gli elementi erotici o satirici che contiene; serve una valutazione della sua ricezione. Invece, con alcune eccezioni sulle quali torneremo, questa valutazione manca e la riflessione sulla censura tende semplicemente a ripetere le tesi che abbiamo già riassunto relative al delitto Matteotti, con gli stessi limiti.
È questo il caso della sottolineatura, da parte di Tiozzo, del fatto che le opere di Mariani (capitoli VIII-X), da lui ha appena giudicate come fortemente critiche verso l’Italia fascista, potessero essere pubblicati senza problemi con la censura, fatto da cui viene tratta la conclusione, un po’ approssimativa, che la censura fascista (in generale) fosse «disorganizzata»; senza tenere conto che il romanzo a cui fa riferimento,
L’equilibrio degli egoismi fu pubblicato nel 1924 quando ancora non era stato organizzata una censura propriamente fascista, ma era in funzione l’ufficio stampa della presidenza del consiglio che si concentrava quasi del tutto sui giornali. Da qui le solite accuse contro le esagerazioni altrui:
Il fatto che il libro circolasse liberamente e che a Mariani sostanzialmente non fosse torto un capello dimostra in modo eloquente sia lo stato di disorganizzazione (se non si vuole parlare di tolleranza) della censura fascista, sia l’evidente esagerazione con cui se ne è parlato dopo la caduta del regime e con cui se ne continua a parlare oggi (p. 345).
Dopo quelli su Mariani, seguono ben sei capitoli su Pitigrilli (XI-XVI). A parte una sezione interessante sul processo per oltraggio al pudore subito da Pitigrilli nel 1926 (526-35), in cui venne assolto (anche grazie all’intervento del capo della polizia, Emilio De Bono), e su una della sue opere incriminate, Cintura di castità (1921), di cui fu vietata la ristampa, la riflessione di Tiozzo sulla censura viene di fatto sospesa a favore della promozione di Pitigrilli e del tentativo di riaccendere l’interesse per le sue opere.
La sezione forse più interessante, sempre secondo il nostro punto di vista focalizzato sulla censura, è quella su Guido da Verona, in cui Tiozzo sottolinea un latente antifascismo e anticlericalismo dello scrittore (capitolo XVII) per poi raccontare il lungo declino, fino alla morte, avvenuta nel 1939, si pensa per suicidio (capitoli XVIII-XIX).
Il capitolo XVII prende in esame il caso molto particolare della parodia che da Verona ha pubblicato nel 1930: I promessi sposi di Alessandro Manzoni e Guido da Verona. Secondo l’interpretazione di Tiozzo, quest’opera conteneva in realtà:
un messaggio così dirompente e distruttivo nei confronti di quella mentalità piccolo-borghese, moraleggiante, cattolica, patriottica, che il fascismo stava insistentemente e faticosamente cercando d’inculcare nella popolazione italiana (pp. 677-8).
Non solo. Tiozzo va oltre e sostiene che da quest’opera, che vede come una «feroce» parodia della Chiesa e del fascismo, emerge ben più che in altre opere «considerate di denuncia antifascista» come Fontamara di Ignazio Silone o Gente in Aspromonte di Corrado Alvaro, la figura di un artista che, con «incosciente sprezzo del pericolo», era incapace di allinearsi ai valori e alle priorità del regime (pp. 678-9). Tiozzo chiama in causa quegli studiosi che sono, almeno in parte, d’accordo su questa interpretazione e contesta la tesi più diffusa che considera da Verona un autore allineato al fascismo e che tende a ritenere le feroci reazioni nei confronti del suo romanzo parodistico come sproporzionate rispetto alle reali intenzioni dell’autore. Che il tentativo di Tiozzo di riabilitare politicamente da Verona in questa veste di spina nel fianco del fascismo continui a non avere un gran seguito è confermato da un recentissimo studio di Bonsaver, secondo il quale Tiozzo prende «il libertinismo qualunquista di da Verona per antifascismo» (Bonsaver 2013, 204 n. 6).
Rimane sempre difficile ricostruire i pochi dettagli concreti della censura della parodia Promessi Sposi che Tiozzo ci fornisce, celati come sono in mezzo al lungo dibattito critico sul suo essere o meno antifascista. Ciò si può giustificare con il fatto che altri hanno già ricostruito la vicenda nei suoi dettagli e che Tiozzo non riteneva di doverli ripetere, ma rimane sintomatico del modo in cui in questo studio il tema della censura non si integri felicemente con lo scopo, perseguito dall’autore, di rimettere al centro dell’attenzione opere e autori da lui ritenuti ingiustamente trascurati.
Il triste declino di da Verona viene invece discusso a lungo nei due capitoli successivi (XVIII-XIX). Tiozzo ne conclude che il vero motivo della campagna contro di lui non era perché fosse ebreo ma perché, sotto la spinta della Chiesa, era visto come scrittore “immorale” (pp. 779-80). La stessa aria che per da Verona era diventato «irrespirabile», portandolo al suicidio, era invece sopportabile, secondo il confronto di Tiozzo, sia per l’ebreo Alberto Moravia, che nello stesso periodo «andava tranquillamente al ristorante e al cinema» (p. 781) sia per lo sprezzante dandy Curzio Malaparte che sopportò l’arresto e il confino «senza particolari segni di disperazione» (p. 783).
Nel gruppo di capitoli su Lucio D’Ambra (XX-XXI), Tiozzo suggerisce che il romanzo sentimentale era un «veicolo di idee e di spunti che travalicano largamente l’intrigo amoroso di base e – per il loro impegno ed interesse intellettuale – ben si allineano con la cosiddetta “letteratura alta”» (p. 811): una tesi potenzialmente interessante, che meritava di essere sviluppata in maniera più estesa. Invece Tiozzo si lascia andare a una diatriba ripetitiva contro chi è colpevole, a suo avviso, di non riconoscere l’importanza di Lucio D’Ambra e considera la “letteratura di consumo” un genere «degno solo dell’anticamera del dentista» (p. 789); «capace solo di essere letto nell’anticamera del dentista» (p. 813); «da deporre sul tavolino nell’anticamera del dentista» (p. 818) (qui Tiozzo è veramente stato poco aiutato dal suo redattore).
Colpisce, in effetti, il mancato intervento del regime contro Madame Pompadourette (1923), di Lucio D’Ambra, che contiene una parodia della marcia su Roma (capitolo XXI). È forse uno degli esempi più sorprendenti in questo studio. Sarebbe logico aspettarsi che la letteratura popolare, proprio per il suo successo commerciale e la sua distribuzione tra le masse, fosse un oggetto prioritario per la censura libraria fascista. Gli esempi che Tiozzo ci fornisce in questo studio, invece, suggeriscono che così non è stato ed è un peccato che non offra delle spiegazioni più documentate invece di limitarsi a contestare coloro – mai nominati – che parlano «con esagerazione» di una «censura ossessionante» (p. 815) e di sottolineare, in maniera superficiale, quanto la censura fascista non si differenziasse da quella dell’Italia repubblicana.
La nostra opinione è che nel monitorare l’editoria libraria, il fascismo, fino alle leggi razziali e alla formazione della Commissione per la bonifica libraria, abbia utilizzato un metodo abbastanza sofisticato che si basava da un lato su una visione dei libri come ambito meno strategico della cultura (un vero interesse da parte del regime per il potenziale propagandistico dei libri si è visto solo dal 1936 in poi), e dall’altro sulla certezza della lealtà degli editori e della loro Federazione verso il regime. Per garantirsi un’editoria sostanzialmente allineata era sufficiente, quindi, esercitare un po’ di pressione economica (tra finanziamenti, appalti e occasionali sequestri) e accettare di chiarire, quando richiesto, cosa fosse accettabile o meno.
Non bisogna dimenticare, inoltre, che la strategia più morbida usata nei confronti dei libri aveva un ritorno d’immagine importante per il regime, che poteva vantarsi (con un certo grado di verità per quanto riguarda i libri) del fatto che in Italia non esisteva una censura preventiva e vigeva invece la libertà di pensiero, come in un intervento svolto al Senato da Dino Alfieri, allora ministro della Cultura popolare:
L’opera del Ministero si è limitata, finora, ad una azione di controllo sulle pubblicazioni periodiche e sui libri, controllo che, com’è noto, viene esercitato per legge a pubblicazione avvenuta, e che quindi non è di censura, ma che si attiva invece mediante il sequestro, allorché si riscontrino offese alla morale o incompatibilità di carattere politico (Rundle 2010, 22).
Questo clima tendenzialmente collaborativo tra editori e censore (nello specifico la Divisione libri del Ministero della Cultura popolare) fu fatalmente compromesso dall’introduzione delle leggi razziali. Gli editori si videro costretti ad accettare limitazioni molto forti, innanzitutto con la “bonifica” degli autori ebrei sia dai testi scolastici che dai loro cataloghi scientifici e commerciali, e successivamente con l’imposizione di una quota sulle traduzioni, anche se questa fu applicata con molto ritardo (Rundle 2010, 184-88 e 194-97).
Ma di questa evoluzione Tiozzo non parla, se non semplificando la storia del regime, e della sua censura, in una prima parte a suo avviso ingiustamente bersagliata da storici di sinistra, prima delle leggi razziali, e una seconda parte che invece condanna senza riserve.
Ad ulteriore supporto di questa idea binaria dell’evoluzione della censura fascista, negli ultimi due capitoli del libro (XXII-XXIII)Tiozzo propone il caso di Michele Saponaro. Dopo le consuete ricostruzioni delle trame dei suoi racconti e una discussione del loro carattere pornografico, Tiozzo sottolinea quanto sia sorprendente che, «a differenza di quanto era avvenuto per Mariani, Pitigrilli e da Verona, l’insistito indugio su temi sicuramente scabrosi (come l’esibizionismo, il voyeurismo, l’incesto) non abbia comportato alcuna restrizione né alcuna punizione, coeva o retroattiva, da parte del fascismo». (858) E suggerisce che la differenza stesse nel fatto che lui non era ebreo.
Anche qui si possono fare delle obiezioni. Il fatto di essere ebreo o meno era sicuramente una discriminante dopo l’introduzione delle leggi razziali nel 1938, ma nei diciassette anni precedenti (1922-1939) questo non può essere stato il motivo di un trattamento diverso di Saponaro rispetto ai tre autori ebrei Mariani, Pitigrilli e da Verona, tenendo conto, anche, che le opere della produzione ante-guerra di Saponaro esaminate da Tiozzo sono state pubblicate tra il 1908 e il 1936. Inoltre, questo ragionamento è in contradizione con quello che Tiozzo ha fatto precedentemente su tutti e tre questi autori ebrei: i capitoli su Mariani e Pitigrilli cercano di dimostrare quanto la censura fascista sia stata disorganizzata e poco repressiva, e quindi il confronto su base razziale non regge; e ha appena finito di dirci che da Verona non fu bersagliato perché ebreo, ma per il suo essere scrittore immorale.
Conclusioni
Come abbiamo già precisato, il nostro giudizio su questo volume è fortemente condizionato da quelle che erano le nostre aspettative, aspettative giustificate da come il libro si presenta. A nostro avviso la riflessione che Tiozzo fa sulla censura poteva essere molto più ricca. A tratti, nel capitolo I, nei capitoli su da Verona e nella conclusione, propone spunti e materiale interessante senza, però, svilupparli a fondo. Nel resto del libro l’argomento della censura viene trattato in maniera troppo superficiale, senza alcuna ricerca specifica in materia e con uno spirito troppo antagonistico nei confronti del non meglio identificato «immaginario collettivo a posteriori» (p. 904) che coltiva:
l’immagine terrificante di una dittatura totalitaria in cui gli sventurati cittadini erano a malapena liberi di respirare, dove tutto e tutti erano sottoposti a capillari controlli a tappeto, dove era vietato esprimere qualsiasi parola che non fosse di plauso al fascismo ed al suo duce, dove i numerosissimi intellettuali “antifascisti” venivano malmenati e torturati se non direttamente imprigionati, dove la censura regnava sovrana ed imponeva, senza via di scampo, che tutto fosse fascistizzato: dai giochi per i bambini al cinema, dagli articoli sui giornali alle opere di narrativa (p. 905).
Se per «immaginario collettivo» Tiozzo intende una concezione popolare, ci si chiede che pertinenza possa essa avere con uno studio di tipo accademico nel quale viene evocata in questo modo. Se, invece, intende le idee di altri studiosi, allora doveva nominarli e citarli. A noi non risultano studi accademici che offrono una visione della censura fascista così allarmata e a fosche tinte. Questa mancanza di vero dialogo con altri studiosi della censura fascista, questo pregiudiziale inquadramento di tutti (o quasi) come «sinistrorsi», questo desiderio mal celato di volerli mettere tutti in riga, risulta sterile e stancante.
Se il lettore è interessato ad una panoramica di alcuni dei più importanti autori italiani di narrativa popolare, e non se la sente di affrontare gli studi più dettagliati che Tiozzo ha già pubblicato, questo volume gliene offrirà l’occasione. Ma se il lettore spera di approfondire la sua conoscenza storica della censura che il regime fascista ha applicato alla narrativa popolare temiamo che, come noi, rimarrà deluso.
Altre pubblicazioni di Tiozzo sulla narrativa popolare:
Il romanzo blu. Temi, tempi e maestri della narrativa sentimentale italiana del primo Novecento, vol. I-V, Roma, Aracne 2003-2006
La giacca di Matteotti e il processo Pallavicini. Una rilettura critica del delitto, Roma, Aracne 2005
Il poema di un’idea. Sovversivismo e critica della società borghese nell’opera di Mario Mariani, Roma, Aracne 2007
La bambola e il mostro. Un’indagine tematica sull’opera della Contessa Lara, Roma, Aracne 2008
Guido da Verona romanziere. Il contesto politico-letterario, i temi, il destino, Roma, Aracne 2009
Lo spettatore della vita. Poetica e poesia della contemplazione nella narrativa di Michele Saponaro, Roma, Aracne 2010
Luciano Zuccoli e la narrativa della vita elegante, Roma, Aracne 2011
Riferimenti
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