Reminiscenze e borbottii / 4

Il vecchio lettore

Chi ama la storia del libro e dell’editoria conosce il bel fascicoletto semestrale, inviato gratuitamente a chi ne fa richiesta (gobbo.fdl@libero.it) o consultabile on line nel sito http://www.fondazionemondadori.it, che si chiama «La Fabbrica del Libro» e che da anni ha aperto la strada a un settore di studi di straordinario interesse. Nell’ultimo numero (a. XVII, 2/2011), uscito a gennaio, l’editoriale del direttore, Gabriele Turi, è intitolato Tradurre, un mestiere difficile e si apre con una lusinghiera segnalazione della nostra rivista. Ma al vecchio lettore interessa molto anche che Turi ne abbia approfittato per soffermarsi sul problema della qualità delle traduzioni correnti e per dar voce a mugugni verso le traduzioni malfatte, i quali sono moneta corrente ma per solito stentano a esprimersi pubblicamente, in quanto – chi più chi meno – coloro che se li tengono in corpo sono addetti ai lavori e in qualche modo coinvolti quindi nei rapporti di scambio inerenti le professioni editoriali. In questo caso invece chi mette il dito sulla piaga, che è docente di storia contemporanea all’Università di Firenze, non è della professione, ma è, in un certo senso, un tipico “lettore colto”, in grado di cogliere una traduzione malfatta anche senza bisogno di conoscere l’originale. Una denuncia come la sua pesa anche di più delle lettere ai direttori invocate nel nostro Decalogo del lettore agguerrito (Reminiscenze e borbotti / 1/em>, sul numero 0).

Proprio perché si tratta di un mestiere difficile, appare a prima vista ingiusto prendersela con gli esiti negativi delle traduzioni. Essi sono in gran parte dovuti alla fretta, al marketing e alla malcerta preparazione dei redattori editoriali e non si può addossarne l’intera colpa sugli autori. Ma denunciarne i guasti è doveroso proprio perché si rifletta su queste insopportabili condizioni.

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A proposito di differenti tipi di traduzione di cui si trattava nel numero 2 di «tradurre». Nei rimandi bibliografici della saggistica letteraria si stabiliscono in proposito delle vere e proprie gerarchie. È ovvio, per quel che si è detto in quella sede, che le traduzioni di poesia vengono trattate come scritti d’autore. Per quanto riguarda la narrativa, i critici che si occupano di testi in lingua straniera tengono un comportamento incerto, che può cambiare da persona a persona e che spesso dipende dall’attenzione che la traduzione richiede in sede critica: alcuni citano il nome del traduttore, ma la stragrande maggioranza si accontenta di segnalare (quando va bene) la casa editrice. Ma per citare la letteratura critica il comportamento è pressoché unanime, perché scontato e quindi, per ora, non reprensibile: il traduttore di saggi stranieri è ignorato. Un esempio recente si trova nel finissimo saggio che Edoardo Esposito ha dedicato, su «Letteratura e letterature» (5/2011, pp. 45-56), a Montale traduttore di Yeats, da cui molto hanno da imparare aspiranti traduttori e traduttori affermati in fatto di gestione di ritmi, rime e lessico, anche in prosa. Ebbene, a pag. 46 viene citata la traduzione di un libro di Edmund Wilson (di cui correttamente si dà il titolo originale, Axel’s Castle. A Study in Imaginative Literature of 1870-1930), solo con l’indicazione del titolo e della casa editrice: Il castello di Axel. Studi sugli sviluppi del simbolismo tra il 1870 e il 1930, Milano, SE. Il nome di chi ha tradotto viene ignorato, come – si è detto – è purtroppo prassi consueta. Suppliamo noi: si tratta di due traduttrici, Marisa e Luciana Bulgheroni. E il primo nome, almeno, è tutt’altro che di secondo piano: Marisa Bulgheroni, scrittrice in proprio e saggista, è stata anche cattedratica di lingua e letteratura angloamericana a Milano e a Roma.

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Anche Tropico del cancro attendevano, i giovani lettori, e l’avventuroso Giangiacomo glielo fornì, attraverso la Francia, pressoché contemporaneamente all’Ulisse mondadoriano, anno 1962, nella magistrale traduzione del grande Bianciardi (uno dei rarissimi nomi di traduttore – praticamente l’unico insieme con quello di Enrico Filippini – che vengano menzionati nel peraltro utile libro di Roberta Cesana sui primi dieci anni di vita della Feltrinelli). Ma che noia, al di là di un po’ di prurigine ingigantita dall’idiota censura che ne aveva proibito la pubblicazione in Italia. Oggi, poi, lo scandalo di allora per le “parolacce” e le rappresentazioni osées appare assolutamente incomprensibile. Meglio, molto meglio, se di erotismo ci si vuol nutrire, il sottile e ambiguo – un po’ proustiano, confessiamo – Lawrence Durrell della pressoché contemporanea tetralogia alessandrina, divisa a metà, in italiano, tra Longanesi e Feltrinelli: traduttori Liana M. Johnson, Fausta Cialente, Bruno Tasso.
Intanto i coetanei si bevevano – è il caso di dirlo – Kerouac. Ma non sempre avevano la malattia della lettura.

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A proposito di parolacce e di Henry Miller. L’“evoluzione del linguaggio”, soprattutto fra i giovani, cui accondiscendono i giovanilisti, ha spento la godibilità delle allusioni e degli ammiccamenti e delle metafore erotiche e sessuali di cui è zeppa la letteratura di tutti i tempi e che costituiva spesso il succo di grandi testi, a cominciare dai classici. Perfino il grande Boccaccio, così proverbialmente noto per la sua franchezza in materia erotica, di fatto ricorreva sempre a metafore, ma sapeva anche essere delicatamente allusivo. Nella novella quarta della sesta giornata del Decameron, il cuoco Chichibio si mette nei guai col padrone perché, preparando per cena una gru, ne cede una coscia a una servetta di casa, che gliela chiede insistentemente. In un primo momento,

Chichibio le rispose cantando e disse: «Voi non l’avrì da mi, donna Brunetta, voi non l’avrì da mi». Di che donna Brunetta essendo turbata, gli disse: «In fè di Dio, se tu non la mi dai, tu non avrai da me cosa che ti piaccia».

Il ricatto è così sottile che poteva sfuggire, anzi sfuggiva senz’altro, alle giovani menti, tanto che Chichibio e la gru era una delle pochissime novelle del Boccaccio che comparissero nelle antologie scolastiche.

Ebbene, come ha acutamente segnalato Franco Nasi (Specchi comunicanti, Medusa, Milano 2010, p. 103), nella sua vivacissima e godibilissima traduzione in lingua contemporanea del Decameron (Rizzoli 1993) Aldo Busi non esita. La replica di Brunetta è: «E neanche te da me. Scordatela» (p. 471). E addio allusività.

Sia detto in aggiunta: l’uso corrente del turpiloquio ha annullato anche un altro importante valore: il gusto della trasgressione, dello scarto improvviso, e addirittura dell’invettiva. Tutto ormai è valido. Una volta si diceva: «questa parola è poco parlamentare». Oggi i parlamentari hanno reso tutto ugualmente convenzionale, persino gli insulti.

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Chi si occupa di traduzioni in Italia assiste di questi tempi a una curiosa inversione di posizioni rispetto a chi si occupa di filosofia. In quest’ultimo campo la diatriba fra analitici e continentali altro non è che la riproposizione della tradizionale differenza fra l’empirismo e il pragmatismo anglosassoni e le ambiziose Weltanschauung prevalenti nel resto d’Europa, soprattutto in Germania. Benché i loro teorici siano presenti in diversi paesi e culture, le complicate e a volte astruse concezioni totalizzanti delle teorie della traduzione – che spesso ammantano di pompa accademica la scoperta dell’acqua calda – sembrano invece avere corso in Italia, ma forse anche all’estero, prevalentemente tra gli anglisti, mentre i germanisti sembrano preferire restare affezionati alla loro solida (e pragmatica) tradizione filologica e storica.

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Piazza Cavour è dominata da un palazzone fascista con bassorilievi sironiani (non tra i migliori del grande artista): è destino che nelle due principali città italiane il Tessitore sia onorato da palazzacci. Era noto una volta, quell’edificio, come Palazzo dei Giornali, in quanto vi avevano sede le redazioni milanesi di tutti i quotidiani nazionali (escluso, ovviamente, «Il Corriere della sera», da sempre in via Solferino) e lì ebbe il suo battesimo perfino «Il Giorno», la grande invenzione di Enrico Mattei, il fondatore e presidente dell’ENI: un quotidiano che tra fine anni cinquanta e inizi sessanta seppe rivoluzionare – a sostegno del nascente centro-sinistra – il panorama della stampa italiana. Accanto ai comunisti dell’«Unità» (prima che si trasferisse laggiù nelle brume di viale Fulvio Testi) e ai socialisti dell’«Avanti!», quindi, c’erano anche i filofascisti della «Notte» e i malagodiani del «Corriere Lombardo». All’imparziale servizio di tutti, nel seminterrato, la grande tipografia della SAME, di proprietà pubblica come l’intero palazzo, ma – si sapeva – covo di “rossi” tutti d’un pezzo, maestri d’un’arte intelligente, faticosa e raffinata, che oggi, a causa della lavorazione “a freddo” permessa dalle tecniche digitali, è perduta, tranne in isole d’eccellenza e di prestigio.

I giovani lettori con aspirazioni chi rivoluzionarie chi riformiste potevano occasionalmente giovarsi di quello stabilimento, godendo così di un finanziamento non poi tanto occulto dei partiti di sinistra, per stampare certi loro fogli, foglietti e fogliacci di propaganda in occasione delle elezioni universitarie.

Occorre chiarire. Si vive oggi in un’altra epoca. Non esistevano allora i cosiddetti organi collegiali. Esistevano gli altrettanto cosiddetti “organismi rappresentativi” degli studenti, quelli che il movimento del 1968 spazzò via bollandoli come “parlamentini”, nei quali entravano gli eletti (da una minoranza di fatto) degli studenti e che, tramite una propria Giunta, gestivano, godendo di un certo gruzzolo raccolto con i versamenti obbligatori collegati alle tasse universitarie (mille lire all’anno, allora), attività sportive e ricreative, in un certo senso “dopolavoristiche”, e si facevano tramite di rivendicazioni più o meno spicciole. Esistevano a Milano l’Organismo rappresentativo universitario del Politecnico (Orup) e le Interfacoltà dell’Università Statale, dell’Università Cattolica e della Bocconi (dove le facoltà erano due: oltre a Economia esisteva anche Lingue). Parlamentini erano, è vero, in quanto gli eletti erano per solito dirigenti dei movimenti giovanili dei partiti e amavano, nelle sedute, esibirsi in esercizi e scontri oratori sui destini dell’Italia e del mondo come ginnastica preparatoria alla loro futura carriera parlamentare. Numerosi nomi esemplificativi non mancherebbero.

L’allor giovane lettore si trovò dunque, in una di quelle infocate (incredibile ma vero) campagne elettorali, a seguire la stampa di una sorta di numero unico di giornaletto molto elaborato e pregno di grandi idee ambiziose. Era la prima volta che metteva piede in una tipografia e fu amore a prima vista, perfino per il caldo e il greve odore del piombo fuso. Restava ammirato a guardare formarsi le righe nella linotype sotto il comando della tastiera, così simile a quella della macchina da scrivere, ma soprattutto a osservare l’abilità con cui quei pacchetti di righe di piombo venivano sistemati nella cassetta della pagina dal compositore, che doveva leggere alla rovescia. Dovette imparare alla svelta a calcolare numero di caratteri spazi righe corpi, a discutere col compositore posizione lunghezza e altezza dei titoli, degli occhielli, dei sommari, delle foto, delle vignette. Era un piacere enorme. Bozzone, correzioni. Arriva il proto, supremo maestro (già: maestranze si chiamavano allora gli operai): dà un’occhiata, sogghigna, poi sorride simpaticamente. Oh, ci si dava rigorosamente del lei, allora: lui per rispetto al signorino, il signorino per rispetto alla sua età e alla sua professionalità. Punta il dito su un titolo: «Ma “qual è” non si scrive senza apostrofo?». Il giovane lettore, terz’anno di lettere!, sprofonda, rosso come un peperone.

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Il progressivo annullamento della storia e del suo senso nella formazione letteraria fa sì che sia corrente, in fatto di conoscenze delle letterature straniere, l’idea che tutto sia cominciato con l’ormai famigerato «decennio delle traduzioni», culminato nell’avventura vittoriniana di Americana, nel 1942. Fino ad allora, complice la vituperata censura fascista, i lettori italiani – e quindi i letterati – sarebbero stati prigionieri, dice la vulgata, di un cupo carcere provinciale e strapaesistico, ignari delle grandi letterature d’oltre confine. Si creano così gravi errori di parallasse, dovuti alla convinzione che la cultura straniera coincida esclusivamente con la produzione letteraria americana e della lingua inglese che in Europa si è prepotentemente affermata in seguito alla vittoria alleata nella seconda guerra mondiale, la quale a sua volta valorizzò a posteriori il lavoro prebellico di scoperta della letteratura d’oltreoceano. Fino agli anni quaranta del Novecento, sui letterati italiani svolgevano una profonda attrazione e influenza la grande cultura francese e tramite essa, appena in subordine, i grandi romanzieri ottocenteschi russi. Un gradino più sotto stavano i tedeschi: i romantici prima e gli espressionisti poi. Mentre poco nota era – incredibile dictu (cioè: incredibile a dirsi) – non solo la letteratura americana, ma perfino quella inglese. Era più facile che un giovane appassionato di lettere conoscesse Madame de Lafayette che Dickens. Da Balzac a Malraux, da Flaubert e Maupassant a Gide e Alain-Fournier e Martin du Gard, i francesi erano di casa in Italia, molto spesso in lingua originale. E Baudelaire e Rimbaud e i simbolisti, fino a Valéry, erano il punto di riferimento per ogni aspirante poeta. Quante volte una copia di almeno un volume della Recherche era nelle valigia del viaggiatore colto reduce da un viaggio a Parigi e pronto a leggere disinvoltamente in lingua originale, aggirando i divieti fascisti? Tanto che, racconta Enrico Decleva nella sua monumentale biografia di Arnoldo Mondadori, quando si trattò di varare le grandi collane di autori stranieri – «I libri della palma», i «Gialli», la «Medusa», gli «Omnibus» – l’editore preferì il più possibile evitare traduzioni dal francese, nel timore che i loro potenziali lettori ne conoscessero già l’originale e che quindi non fossero invogliati a comprarle. Il che contribuì alle fortune della narrativa contemporanea anglosassone (e in un primo tempo anche di quella tedesca). Gli ultimi fari che brillarono nel dopoguerra furono Sartre e Camus. E per la cultura francese in Italia fu il tramonto (non fosse per i polizieschi, quelli di Simenon in testa, e soprattutto i noir).

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Come può un traduttore pensare che una folla di dimostranti a Odessa nel 1905 gridasse «Lunga vita allo sciopero generale!»? Come può un docente universitario alle prese con un importante testo filosofico, da lui curato per l’Italia, pensare che Giulio Cesare sia «sbarcato in Gran Bretagna»? E come possono i redattori delle due importanti case editrici che hanno pubblicato quei testi lasciar passare tali insulti non solo alla lingua ma all’intelligenza?

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«Ne» e «né» sono due paroline deliziose che fanno dell’italiano la lingua ricca che è. Entrambe stanno lentamente scomparendo sotto la marea dilagante dei calchi. La prima soffocata dall’alluvione dei possessivi superflui o dei “di questo”, “di quello”, “di lui”, “di lei” e simili. La seconda, peggio, da quella degli orribili “o”, che talvolta potrebbero essere benissimo anche dei semplici “e”.

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Con quest’ultimo piccolo sfogo purista il vecchio lettore si rende definitivamente conto dell’abisso – o conviene dire gap? – che lo separa culturalmente dal presente e dell’impossibilità per lui di arrancare per cercare di colmarlo. Resta convinto che non bisogna demordere dal coltivare il proprio campicello, per quanto apparentemente impoverito appaia di frutti: prima o poi arriveranno i benedettini e la rotazione delle colture/culture, e sapranno rifecondarlo, se la semente sarà ancora disponibile. Ma ciò non significa che personalmente abbia il diritto di continuare a bofonchiare in pubblico.