Il vecchio lettore
Purtroppo il vecchio lettore non ha nipoti. E’ andata così. Ma se ne avesse uno o una adolescente, in quell’età che una volta si chiamava “difficile” e oggi è per i genitori, certe volte, un incubo, il vecchio lettore lo (o la) inviterebbe a ribellarsi: «Rivoltati! Insorgi contro chi non ti vuol far studiare, contro chi ti vuol far credere che studiare è faticoso e noioso, contro chi ti propone di passare il tuo tempo in ozio o in divertimenti e vuole che il tuo futuro sia riservato solo al lavoro e al consumo, al consumo, al consumo. Ribellati alle “verifiche” ridotte a questionari uguali a quelle delle ricerche di mercato. La realtà è complessa e difficile. Il mondo è “grande e terribile”», diceva Gramsci. Non si riduce al multiple choice. Pretendi di studiare! Pretendi di saperne di più! Pretendi di capire! Pretendi che ti diano dei libri da leggere, non importa se di carta o elettronici. Pretendi che non si accontentino del tuo copia/incolla da Wikipedia. Ribellati al bilancino dei crediti proporzionati al numero di pagine da studiare. Chiedi di riflettere, chiedi di elaborare per iscritto i tuoi pensieri, chiedi di articolare logicamente in un’esposizione ordinata quello che stai studiando. Immergiti nei libri, sta’ sveglio (o sveglia) la notte per poter finire il libro che hai per le mani. Vai in biblioteca. Lo studio è bello, è vario, è appassionante più di un poliziesco, perché c’è sempre un colpevole da scoprire. Studiare è un’attività divorante e… ma che stai facendo? Da quando stai giocando sul telefonino invece di starmi a sentire?»
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«Io credo che il più grande nemico, o se preferite, il più grande supporto mancato all’editoria resti la scuola. […] Chi insegnerà ai ragazzi a leggere, a non accontentarsi di compitare parola per parola senza capire niente del discorso generale?
Oggi ci ritroviamo una classe di insegnanti assolutamente demotivati. […] Sarebbe molto interessante un’indagine per sapere che cosa c’è nella biblioteca privata di questi insegnanti. Per quella che è la mia personale esperienza, non si va molto più in là di Uccelli di rovo o del best seller del momento. Volete una riprova? Chiedete agli amici della Zanichelli quanta fatica facciano ad imporre testi didatticamente avanzati, quelli che richiedono all’insegnante di aggiornarsi, di avere delle idee, di dialogare con gli allievi di insegnare come si producono le idee: che siano insomma testi di insegnamento attivo e non passivo.
Naturalmente ci sono anche gli insegnanti preparati, motivati, colti, che si fanno un puntiglio di aggiornarsi e tenersi informati. Ma sono una pattuglia sempre più esigua, esposti all’incomprensione dei loro stessi colleghi, scoraggiati dalla sordità dell’ambiente, al punto che molti di loro non resistono e se ne vanno. Come al solito, rimangono i peggiori. La scuola non assicura insomma quel naturale ricambio di lettori che è indispensabile alla sopravvivenza del libro post-scolastico. Già adesso le prime indagini empiriche ci dicono che in libreria la presenza dei giovani si è ridotta; ma sarà anche peggio quando arriveranno, o meglio non arriveranno, i giovani usciti da questa scuola».
Come si evince dalle virgolette, questa non è farina del sacco del vecchio lettore. Sono parole scritte da uno che se ne intende molto più di lui, Ernesto Ferrero. Ma non le ha scritte oggi. Si trovano in un contributo a un volumetto collettaneo, Il destino del libro, uscito per gli Editori riuniti nel 1983: 35 (trentacinque) anni fa! Gli insegnanti usciti da quella scuola “formano i giovani” oggi.
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D’altronde, nelle istituzioni scolastiche e universitarie, ridotte oggi a simulacri d’azienda in predicato di essere venduti, i docenti sono a loro volta ridotti a impiegati e manager ai quali viene con determinazione impedito di studiare e fare ricerca. E questo avviene senza contrasti.
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Il vecchio lettore nutre il timore che intorno alla traduttologia (o come altro si voglia chiamare l’insieme delle teorie e degli studi che negli ultimi decenni si occupano della traduzione in generale, da parte di linguisti e non) si sia creato un grosso equivoco. Sempre più spesso si fa appello a quegli studi per capire come si fa a tradurre, talvolta addirittura per “insegnare” a tradurre. Essi in realtà nascono da un’esigenza etico-politica, che con la concreta attività del tradurre ha poco a che vedere. Per quanto elaborati siano, ruotano tutti intorno al dilemma – che appunto non è, ovviamente, solo linguistico – identità/accoglienza, conservazione/progresso, apertura/chiusura. Viviamo in un’epoca in cui il dilemma ha assunto dimensioni tragiche e presenta una miriade di aspetti, che non è facile ridurre a formula unica, così come non è facile, nella materialità delle condizioni economiche e sociali, garantire accoglienza a tutti coloro che bussano alla porta e insieme sicurezza, tranquillità e conservazione dei benefici conquistati a coloro che sono in casa. La traduzione è, come è sempre stata, lo specchio fedele di questi drammi. E’ sintomatico anche sotto questo aspetto che gli inglesi (e praticamente solo loro in Gran Bretagna, scortati dai non troppo numerosi gallesi) abbiano scelto in maggioranza di abbandonare l’Europa al suo destino. L’Occidente europeo continentale è stretto nella morsa tra, da un lato, la difesa della sua identità nei confronti sia della supremazia globish sia della sfida delle civiltà asiatiche e africane e, dall’altro, il rispetto di quell’importante nucleo di quella stessa identità che è la tolleranza e l’apertura cosmopolita ereditate da Umanesimo e Illuminismo, contro la tentazione di essere risucchiato nel gorgo irrazionalistico della purezza etnica. Nel numero scorso di «tradurre» Chiurazzi ha ricordato molto limpidamente che il nodo l’aveva già esposto Schleiermacher due secoli fa: la traduzione deve educare all’Altro, al diverso. Eppure non può farlo se non difendendo il suo strumento, la lingua d’arrivo, cioè difendendo la propria diversità, la propria alterità. Senza questa difesa non c’è traduzione ma assoluta omologazione: impossibile se la traduzione è impegnata con una lingua “minore”; pericolosa e perdente se impegnata con quella in assoluto maggiore, dominante.
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E, a questo proposito, è addirittura tragicamente irridente per coloro che esso intende definire un altro orrendo calco entrato nell’uso: rifugiati, proprio coloro che rifugio cercano e non trovano o trovano a stento, i profughi dalle guerre e dalle persecuzioni.
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A ogni messa, ricorre, da quando è detta in italiano, un gravissimo errore di traduzione: «Agnello di Dio che togli i peccati del mondo». L’originale latino – ripreso in liturgia dal Vangelo di Giovanni (1, 29) della Vulgata – è: Agnus Dei, qui tollis peccata mundi. Il messaggio evangelico vuole che Gesù Cristo abbia preso su di sé i peccati degli uomini, e in ciò egli è il Redentore. I peccati restano. Letteralmente occorrerebbe dire «sollevi» o, forse meglio, semplicemente «prendi». Perfino l’ultimo baluardo della latinità, la Chiesa, ci tradisce.
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Si spera che chi esorta a scrivere nella lingua dell’uso corrente si sia accorto che questa è ormai, tra i giovani, quello che una volta si chiamava turpiloquio, deprivato – come d’altronde i comportamenti in genere – da ogni tipo di tabù. Ed effettivamente cresce in libri e giornali la presenza di parole che una volta, se proprio si riteneva indispensabile menzionarle, venivano sostituite da puntini di sospensione o al massimo ridotte alla sola iniziale. Se questo è l’uso, prevarrà, ed è inutile imbastire lamentazioni: è uno degli aspetti della svolta epocale che stiamo vivendo, sintetizzabile nell’idea che la trasgressione è diventata norma, e norma spesso esibita. Da qui due conseguenze in letteratura, tra loro concatenate: 1. Non riuscire più a creare scandalo e sorpresa; 2. Incapacità di comprendere lo scandalo e la sorpresa nei testi del passato. E’ un po’ la faccenda di certe regie teatrali che rendono esplicite in scena situazioni che il copione o il libretto velano del tabù: se si mostra un amplesso di Don Giovanni, dove va a finire la nozione di peccato intorno alla quale ruota tutta la drammaticità di quel capolavoro?
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Va talmente di moda nei media, la traduzione, che in vista del Natale 2017, «La Lettura», l’inserto “culturale” domenicale del «Corriere della sera», ha inventato una «Classifica di Qualità» della traduzione a imitazione della già esistente «Classifica della Qualità» della letteratura. Che invidia! Da anni il vecchio lettore si arrovella a cercare di capire quali criteri adottare per stabilire la qualità di un testo contemporaneo, originale o tradotto che sia, ed ecco qua 208 persone di alto rango intellettuale pronte a stabilire che uno dei tre o quattro libri stranieri, tra le centinaia usciti in versione italiana durante l’anno, che loro sono riusciti a leggere tempestivamente è, tra tutti, la migliore traduzione in assoluto. Premio Strega docet. Due paginone, decine e decine di nomi di traduttori, di giurati e di editori, una foto per il divo primo classificato, malumori tra gli altri (tranne, probabilmente, per una menzionata speciale in un titoletto di taglio basso).
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In margine all’appunto precedente. Qualche tempo fa il vecchio lettore se la prese con gli accademici che coltivano il proprio orticello fine a se stesso (o alla carriera), senza preoccuparsi della ricaduta di quanto studiano sulla comune dei mortali. Ora è il caso di prendersela anche con chi crede di poter mandare, giudicare e pontificare – per lo meno in materie letterarie – senza misurarsi mai con gli esiti della ricerca e del dibattito tra specialisti.
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Editor è parola di nobilissima ascendenza latina. Oggi, come termine inglese entrato nell’uso in tutto il mondo, indica il redattore di casa editrice, persona diversa dall’imprenditore che in italiano si chiama editore e in inglese publisher. Ma alle origini dell’editoria a stampa le due figure erano riunite in una, che era appunto l’editore (e un’ombra remota di questo significato resta in inglese nell’accezione di direttore di periodico). In filologia il termine è rimasto in questa accezione per indicare il curatore dei testi a stampa ricavati da manoscritti e da qui deriva il suo accoglimento in inglese esteso al redattore anche di ben più modeste imprese editoriali. L’editore di epoca rinascimentale era dunque un umanista di livello intellettuale elevato, che sceglieva i testi, li controllava, spesso li glossava personalmente, li metteva a stampa, li pubblicava, li vendeva, essendo sovente anche libraio. La sua funzione per la diffusione della cultura in tutta Europa è stata impareggiabile. Il principe di questi editores umanisti fu senza dubbio Aldo Manuzio, attivo a Venezia tra fine del Quattrocento e inizio del Cinquecento, all’epoca in cui l’Italia era sconvolta dalle guerre che la ridussero in servitù di potenze straniere. A lui si deve la pubblicazione soprattutto di testi greci ripresi dai codici portati in Italia da studiosi bizantini fuggiti da Costantinopoli in seguito alla conquista ottomana. Ora una casa editrice di tutto rispetto come l’Adelphi ha pensato di pubblicare, a cura di Claudio Bevegni, le sue Lettere prefatorie a edizioni greche, ossia le prefazioni in forma epistolare a dedicatari e amici da lui preposte a quei volumi. Iniziativa molto bella e stimolante ma – va detto subito – di riuscita molto inferiore a quel che meritava. L’introduzione di Nigel Wilson è uno scialbo rendiconto annalistico dell’attività aldina; le traduzioni, sia di tale introduzione (dall’inglese) che delle stesse lettere (dal latino), nel primo caso sentono l’ingessatura della prosa accademica inglese, non possono, nel secondo, rendere la brillantezza degli originali, per i quali potrebbero valere come traduzioni di servizio. Ma a questo scopo occorrerebbe il testo a fronte, che ormai dovrebbe essere immancabile nel caso di opere in lingue classiche. E invece quel testo non c’è. E il lettore davvero interessato a questo tema, quello specifico lettore (e a chi altri può rivolgersi un’iniziativa editoriale così coraggiosa?), resta così molto deluso.