di Isabella Amico di Meane
Caro Enrico, mi è stato chiesto di ricordarti con uno scritto. Non sto qui a dirti che ho accettato su due piedi, non tanto perché farlo è un onore, ma per poterti ringraziare, nel ricordarti, per avermi accompagnato per un tratto di vita – con la tua schietta umanità, con quel tuo modo di essere ironico e garbato, piacevolmente unkompliziert.
Con te sono ‘cresciuta’. Ho avuto infatti la fortuna di incontrarti a più riprese lungo il mio percorso formativo e professionale, e di conoscerti in varie vesti: prima in quella di professore universitario, poi di docente di revisione editoriale, infine di editor, attento revisore di alcune delle mie traduzioni.
Ma andiamo con ordine. Era il lontano 2001, quasi vent’anni fa, quando frequentai il tuo corso di lingua tedesca all’Università di Torino; di quel corso, come di quello che seguì l’anno successivo, mi è rimasto impresso il suo carattere non convenzionale: non c’era un manuale su cui studiare, c’eri tu che parlavi a braccio, dopo aver creato ex novo un programma su misura, che raccontavi più che spiegare, e in quei racconti le tue conoscenze ed esperienze personali, pur non essendo mai in primo piano, trasparivano in filigrana, rendendo le tue lezioni autentiche e coinvolgenti, o coinvolgenti perché autentiche; non teoria avulsa dalla realtà, ma casomai scaturita dalla realtà. Il panorama editoriale tedesco; come nasce un libro; le Bücherverbrennungen, i roghi di libri dei nazisti; o ancora: come si redige una scheda di lettura, come si confeziona una proposta editoriale? Insomma il tuo modo di insegnare si distingueva da quello degli altri professori, si sentiva che non eri un accademico, che provenivi da un altro mondo. Di te, però, delle tue mirabili imprese traduttive, a quei tempi non ci hai mai parlato, né della tua altrettanto notevole esperienza di vita e formazione bilingue, se non per vaghi accenni, conservando sempre al riguardo un pudico riserbo.
Credo infatti di aver scoperto solo anni dopo – era il 2009 – tutto quello che avevi tradotto, quando ti incontrai nuovamente, ancora nella veste di docente (questa volta si trattava di un corso di revisione del testo tradotto), alla Scuola di specializzazione per traduttori editoriali di Torino. Memorabili sabati mattina. Al lavoro puntuale e metodico sui testi inframmezzavi gustosi aneddoti sui vari autori che avevi avuto occasione di incontrare o che conoscevi personalmente. Ma il ricordo più vivido di te di questo periodo si colloca per così dire a margine del corso, quando proponesti al nostro gruppetto di traduttrici in erba di bere qualcosa insieme, un drink informale e quattro chiacchiere in piazza Vittorio, a conclusione del percorso fatto; una proposta del tutto inusuale a queste latitudini, che naturalmente fu accolta con tanta sorpresa quanto entusiasmo. Di questo periodo ricordo però anche come ti “scandalizzasti” quando ti dissi che avevo intenzione di frequentare, dopo il corso di traduzione dal tedesco, quello dallo spagnolo; il senso di quel tuo consiglio, dato – com’era nel tuo stile – quasi inavvertitamente sotto forma di battuta, era il seguente: è tempo di abbandonare il ruolo protetto dell’eterno discente, di mettersi alla prova, di buttarsi. E avevi ragione.
A quell’epoca risale anche l’inizio della mia collaborazione con Einaudi (come dimenticare la gioia mista a incredulità per quella prima traduzione che tu e Angela mi affidaste, esattamente dieci anni or sono, in una grande sala decorata di stucchi nella storica sede di via Biancamano?). Una collaborazione che si è svolta per lo più sotto la tua egida, e questa espressione non la uso certo a caso, perché di fatto, quando mi assegnavi una traduzione che poi ti saresti occupato di revisionare, così mi sentivo, come protetta da una corazza: certo, l’ansia da prestazione c’era, soprattutto all’inizio, ma c’era anche la certezza che il testo sarebbe finito nelle migliori delle mani. In mani sapienti, capaci di intervenire con competenza e garbo. La sensibilità che dimostravi nei confronti della lingua e dei testi, del resto, era la stessa che avevi nei confronti delle persone.
A rendere unica nella mia esperienza di traduttrice la nostra collaborazione di questi anni, infatti, è che non si fondasse, come ormai quasi sempre accade, su un rapporto asettico ed esclusivamente virtuale. Il più delle volte ricevevo il libro che avrei dovuto tradurre direttamente dalle tue mani. Il tempo per un caffè – non so come – lo trovavi sempre. Spesso arrivavi, come ai tempi dell’università, in bicicletta, come se sbucassi da una viuzza berlinese, con quella tua aria mitteleuropea, un po’ intellettuale ma con un tocco freak. Ma poi non è che davanti a questi caffè si parlasse solo ed esclusivamente di lavoro. Tu eri attento anche alle altre cose della vita, ti interessavi alle persone nella loro interezza. Tu che ti muovevi nelle alte sfere del mondo dell’editoria, che eri di casa nella letteratura “alta”, mi chiedevi sempre con viva curiosità: «E le galline, come stanno?», da quella volta in cui, tra una chiacchiera e l’altra, ti avevo raccontato di averne tre. O mi mandavi un messaggio veloce su WhatsApp per assicurarti che andasse tutto bene («Ciao Isabella. Dove sei e come stai? Fatti sentire»), per darmi un consiglio in questi tempi di pandemia («Fate spesa e poi chiudetevi in casa. Chiama quando sei tranquilla»). Parole semplici che rinfrancavano.
Insomma, anche nella veste di editor trovavi sempre il tempo da dedicare ai rapporti umani, un tempo di qualità, che andava oltre il mero incarico di traduzione. Cercavi il contatto e il confronto, un confronto al di là e al di fuori dei ruoli. Proprio come trovavi sempre il tempo da dedicare all’insegnamento, nelle sue forme più varie, per incontrare e parlare con i giovani, per condividere con loro la tua esperienza di traduttore e uomo di cultura tout court.
Già, Enrico, così è. Con te se ne va tutto questo. Ma un po’ di tutto questo, in fondo, rimane. Resta. Con me. Con chi ti ha incrociato lungo il proprio cammino. E con tutti coloro che ti ritroveranno nelle tue tante, indimenticabili traduzioni.