di Andrea Romanzi
autore di Gert Nygårdshaug, L’amuleto, Milano, SEM, 2018 (da Jegerdukken, Oslo, Cappelen Damm, 1987)
L’amuleto del norvegese Gert Nygårdshaug è il secondo episodio di una serie che conta ben dodici volumi con protagonista Fredric Drum. Pur non presentando particolari sfide traduttive (a differenza, per esempio, del secondo volume, Fredric Drum e il re di pietra, in cui il protagonista incontra una setta formata da giovani punk filosofi che parlano una lingua inventata), questo thriller ecologico ha richiesto molta attenzione nella resa di elementi stilistici e strutturali del testo, per restituire ai lettori italiani la cifra del particolare impianto narrativo di Nygårdshaug.
Aspetto fondamentale dell’Amuleto è infatti la natura. La costruzione del racconto si muove su un sottotesto di critica allo sfruttamento e alla distruzione delle bellezze naturali della terra per mano dell’uomo, aspetto strettamente correlato all’attivismo politico ecologista dell’autore. La natura assume così un ruolo cruciale, divenendo di fatto protagonista del romanzo: la lingua utilizzata da Nygårdshaug per descrivere i floridi e verdeggianti panorami norvegesi – in netto contrasto con le lande desolate, cupe e oscure dei noir più canonici – si avvale di una terminologia di tipo scientifico che disseziona il paesaggio descrivendone con precisione quasi maniacale la flora e la fauna, il che richiede approfondite ricerche per garantire una corretta resa in traduzione.
Anche l’utilizzo di varietà regionali e dialettali del norvegese nei dialoghi contribuisce a esporimere un attaccamento alla natura e a uno stile di vita basato su un rapporto di simbiosi e non di sfruttamento. È il caso del mitico cacciatore Hugar, solitario abitante della valle chiamata Rødalen, che parla una variante linguistica incomprensibile persino ai norvegesi, i quali però riconoscono a colpo d’occhio (o d’orecchio) che egli proviene da una valle. I dialoghi, quindi, hanno fatto affiorare l’annoso problema della traduzione dei dialetti: scartata l’ipotesi di utilizzare un dialetto italiano (o una variante regionale) per un personaggio che abita una sperduta valle della Norvegia, ho tentato di ricostruire una lingua che rispecchiasse la genuinità che contraddistingue il personaggio e il suo modo di vivere, lontano dalle convenzioni della moderna vita urbana, senza però marcarlo in diastratia, cioè con un italiano finto-popolare. Ho optato quindi per dialoghi scarni, privi di fronzoli e a tratti difficili da comprendere, forzando leggermente le regole grammaticali italiane, ma senza comprometterle.
Allo stesso modo, la complessa trama del romanzo si avvale di elementi specifici delle culture scandinave, in particolare norvegese e islandese, che hanno richiesto – in determinate occasioni – una riscrittura che consentisse al lettore di acquisire le conoscenze necessarie alla comprensione, e per colmare l’eventuale distanza culturale, come, per esempio, spiegare nel testo il termine skræling, il nome con cui i popoli scandinavi chiamavano gli eschimesi nell’antichità.
Nygårdshaug, inoltre, inserisce nella storia numerosi riferimenti a eventi storici realmente accaduti o teorie e pratiche scientifiche esistenti, manipolandole quel tanto che basta affinché questi conferiscano una veridicità quasi documentaristica al racconto, arricchendo l’esperienza di lettura con l’opportunità di entrare in contatto con vicende storiche o con la cultura tradizionale islandese, come le complesse pratiche per la mummificazione e tumulazione dei cadaveri.