LE TRADUZIONI DI THINGS FALL APART
di Sara Amorosini
“There is no story that is not true,” said Uchendu. “The world has no end,
and what is good among one people is an abomination with others.”
(Achebe 2010, 99)
«Non c’è storia che non sia vera,» disse Uchendu. «Il mondo non ha fine,
e ciò che è bene presso un popolo è abominio per un altro»
(Pezzotta 2016, 135)
Il mondo non ha fine, e men che meno la traduzione. Con la più recente versione italiana di Things Fall Apart (Pezzotta 2016; l’originale è del 1958, e questa è la terza traduzione italiana) lo scrittore nigeriano Chinua Achebe entra a far parte ufficialmente di quella che Alberto Rollo ha chiamato, in una conversazione alle Giornate di Urbino del 2012, «la traduzione infinita» (cfr. Sullam 2017, 229).
Si tratta di un testo notevolmente complesso, frutto di una serie di relazioni storiche e culturali, e osservare solo quel sottoprodotto finale che ne è la traduzione comporterebbe uno svilimento di un pezzo di alta letteratura. Per questo motivo, ho scelto un approccio più articolato, idealmente suddiviso in due parti correlate ma che si prestano ciascuna a una lettura autonoma: la prima per contestualizzare il romanzo nella sua ragion d’essere, nel suo rapporto con il canone inglese e con Conrad in particolare (paragrafi da 1. a 3.), e la seconda per affrontare le sue tre traduzioni italiane (4.), anche grazie al prezioso contributo della direttrice editoriale della Nave di Teseo, Elisabetta Sgarbi (5.).
La genesi dialogica di Things fall apart
1. In origine fu il Congo
Se si vuole cercare la genesi di questo affascinante romanzo bisogna fare un salto indietro, precisamente al 1890. In Congo.
Quell’anno infatti il futuro scrittore Joseph Conrad, polacco in esilio e marinaio della marina mercantile britannica, partì per il Congo, all’epoca colonia di re Leopoldo II del Belgio. Sbarcò a Boma e si diresse prima verso Kinshasa e poi fino alle cascate Stanley. Passò in Congo buona parte dell’anno (da maggio a dicembre) ed ebbe modo di vedere con i propri occhi i funzionari del governo belga all’opera. È lì infatti che i suoi sogni e ideali di gioventù si scontrarono con la realtà della colonia, portandolo alla «disgustosa consapevolezza della più vile corsa al saccheggio che abbia mai sfigurato la storia della conoscenza umana e dell’esplorazione geografica» (Hampson 2000, xxii). Il governo leopoldino è infatti passato alla storia per la sua brama di ricchezza, direttamente proporzionale al numero di morti che ne sono derivati. Il Congo, inizialmente con lo status di proprietà privata del monarca e solo nel 1908 trasferito dal parlamento belga allo stato, subì non poche atrocità. Emblematiche le cifre per la costruzione della ferrovia che collega Léopoldville a Matadi: nove anni di lavoro che, secondo le stime ufficiali, costarono la vita a 132 bianchi e 1.800 lavoratori neri (Ki-Zerbo 1977, 598).
Conrad raccolse le impressioni e le vicende di quel viaggio in un diario in inglese (sua terza lingua, dopo il polacco e il francese), il Congo Diary (1890). Tuttavia il reale impatto di quell’esperienza si concretizzò nel romanzo breve Heart of Darkness, pubblicato dapprima a puntate sul «Blackwood’s Magazine» tra febbraio e aprile del 1899 e uscito in volume nel 1902.
Heart of Darkness (uscito in Italia nella traduzione di Alberto Rossi nel 1924 per Sonzogno con il titolo Cuore di tenebra) è un romanzo difficile da incasellare e da interpretare. Si rifà in parte all’esperienza congolese, ma allo stesso tempo ne prende le distanze: Conrad elabora infatti una sofisticata miscela di reale e non reale, integrando le proprie vicende personali con i racconti di altri esploratori dell’epoca (soprattutto quelli con cui Henry M. Stanley raccontò la ricerca di Livingstone, ma anche quelle del capitano Francis L. McClintock sulle orme della spedizione di Franklin nell’Artico) e una riflessione sul colonialismo in sé. La narrazione è costruita su due voci diverse (un narratore esterno anonimo che ricorda quanto a sua volta gli ha narrato il protagonista Marlow), che creano una doppia distanza dall’autore e permettono di dare spazio non solo alle sensazioni immediate del protagonista ma anche alla riflessione e all’interpretazione. Questa particolare tecnica viene definita da Ian Watt delayed coding (codifica ritardata – citato in Tredell 1988, 94) in quanto verbal equivalent of the impressionist painter’s attempt to render visual sensation directly. […] the delay in bridging the gap [between the protagonist’s immediate sensations and understanding] enacts the disjunction between the event and the observer’s trailing understanding of it (Tredell 1988, 94: equivalente verbale del tentativo del pittore impressionista di restituire sensazioni visive in modo diretto. […] il ritardo nel colmare lo spazio [tra le sensazioni immediate del protagonista e la loro comprensione] rappresenta lo scollamento tra l’evento e il processo di elaborazione da parte dell’osservatore – traduzione mia).
Nel romanzo si narrano le peripezie di Marlow, marinaio inglese giovane e ingenuo, che parte alla volta del Congo belga per risalire il fiume e raggiungere la Stazione Interna. Lì dovrà recuperare l’agente Kurtz, malato e in pericolo di vita. Una missione all’apparenza semplice ma che rappresenterà per il ragazzo un viaggio di formazione, intima e geografica. Nulla corrisponde alle aspettative iniziali, tutto risulta amplificato nella sua intensità, a partire dalla natura africana, prepotentemente fuori dal tempo, fino alla brutalità dei coloni e alla disumanità dei colonizzati. La tenebra del titolo rappresenta qualcosa di primordiale non solo nella natura e negli uomini, ma anche interno, un’oscurità insita nell’animo umano.
Ha scritto Edward Said:
[The totalizing] imperial attitude is, I believe, beautifully captured in the complicated and rich narrative form of Conrad’s great novella Heart of Darkness. […] True, Conrad scrupulously recorded the differences between the disgraces of Belgian and British colonial attitudes, but he could only imagine the world carved up into one or another Western sphere of dominion. But because Conrad also had an extraordinary persistent residual of his own exilic marginality, he quite carefully (some would say maddeningly) qualified Marlow’s narrative with the provisionality that came from standing at the very juncture of this world with another, unspecified but different (Said 1993, 24 e 27)
L’atteggiamento totalizzante dell’imperialismo è, credo, splendidamente catturato nella ricca e complessa forma narrativa della celebre novella di Conrad Heart of Darkness. […] Certo, Conrad ha scrupolosamente registrato le differenze tra la degradazione della politica coloniale belga e britannica, ma non riusciva a immaginare il mondo se non come inciso in questa o quella sfera di dominio occidentale. Ma siccome in lui persisteva uno straordinario residuo della propria marginalità di esule, ha minuziosamente (in modo perfino esasperante, si potrebbe dire) caratterizzato la narrazione di Marlow con l’incertezza derivante dal trovarsi a cavallo tra questo mondo e un altro, non definito ma diverso (traduzione mia).
Marlow quindi non si configura come un semplice “testimone oculare” dell’imperialismo europeo ma piuttosto come un attore pensante, la cui riflessione è amplificata dal linguaggio della narrazione, veicolo e strumento di conoscenza. Nonostante la presa di coscienza di Marlow (e, a un altro livello, di Conrad), secondo Said ci troviamo comunque davanti a un limite invalicabile:
Conrad’s tragic limitation is that even though he could see clearly that on one level imperialism was essentially pure dominance and land-grabbing, he could not then conclude that imperialism had to end so that ‘natives’ could lead lives free from European domination. As a creature of his time, Conrad could not grant the natives their freedom, despite his severe critique of the imperialism that enslaved them (ibidem).
Il tragico limite di Conrad è che, pur rendosi conto con chiarezza che l’imperialismo a un certo livello era essenzialmente puro predominio e rapina territoriale, non riusciva ad arrivare alla conclusione che solo la fine dell’imperialismo avrebbe permesso ai “nativi” di condurre una vita libera dal dominio europeo. Creatura del suo tempo, Conrad, benché criticasse severamente l’imperialismo che li schiavizzava, non poteva concedere ai nativi la libertà (traduzione mia).
Questo impasse di fondo ha dato adito a numerose critiche verso Heart of Darkness, ma soprattutto ha lasciato scoperto un punto essenziale: la rappresentazione dell’Altro. Marlow, infatti, nel suo resoconto parla di sé e delle sue impressioni, del fascino per la misteriosa figura di Kurtz, delle atroci assurdità che si trova di fronte. Parla ben poco dell’Altro, ovvero dei nativi del Congo e della loro terra. Li descrive in più occasioni, ma non va mai davvero oltre la superficie, se ne percepisce quasi il blocco, o la repulsione. L’Africa è descritta come un luogo preistorico, senza tempo (Going up that river was like travelling back to the earliest beginnings of the world; «Risalire quel fiume era come viaggiare a ritroso verso i più remoti primordi del mondo»- Bernascone 2000, 102-103), mentre i suoi abitanti sono descritti come esseri quasi animaleschi, al limite dell’umano eppure non del tutto privi di umanità (il dubbio su quanta sia la reale distanza tra “noi” e “loro”’ ricorre più volte nei pensieri di Marlow). Una riflessione chiave a titolo esemplificativo:
The earth seemed unearthly. We are accustomed to look upon the shackled form of a conquered monster, but there – there you could look at a thing monstrous and free. It was unearthly, and the men were… No, they were not inhuman. Well, you know, that was the worst of it – this suspicion of their not being inhuman. It would come slowly to one. They howled and leaped, and spun, and made horrid faces; but what thrilled you was just the thought of their humanity – like yours – the thought of your remote kinship with this wild and passionate uproar. Ugly. Yes, it was ugly enough; but if you were man enough you would admit to yourself that there was in you just the faintest trace of a response to the terrible frankness of that noise, a dim suspicion of there being a meaning in it which you – you so remote from the night of first ages – could comprehend.
La terra non aveva nulla di terrestre. Siamo abituati a guardare il mostro vinto e in catene, ma lì – lì quel che si vedeva era il mostruoso in piena libertà. Non aveva nulla di terrestre, e gli uomini erano… No, non erano disumani. E, sapete, proprio questo era il peggio – il sospetto che non fossero disumani. Era qualcosa che saliva dentro lentamente. Quelli urlavano e saltavano, e giravano, e facevano smorfie orrende; ma quel che dava i brividi era il pensiero della loro umanità – pari alla nostra – il pensiero di una remota parentela con quel grido selvaggio e sfrenato. Brutt’affare. Brutt’affare davvero; eppure se eravate abbastanza uomini avreste dovuto confessare a voi stessi l’esistenza di un’eco, magari debolissima, alla tremenda franchezza di quel chiasso, un vago sospetto che contenesse un significato che noi – pur così lontani dalla notte dei primordi – potevamo comprendere (Bernascone 2000, 110-111).
Ci troviamo quindi di fronte a un testo stilisticamente, e contenutisticamente, straordinario, dove la critica all’imperialismo occidentale è inequivocabile, ma dove allo stesso tempo manca la sensibilità per approfondire la concoscenza dell’Altro. Chi sono questi nativi, queste «figure» dalla natura incerta, che Marlow incontra e su cui suo malgrado si interroga? Hanno una cultura, una storia? Conrad non ce lo dice, ed è questo suo silenzio che verrà colmato, mezzo secolo più tardi, da Achebe.
2. Il contraltare della letteratura permanente
Nell’analisi di quella che chiama literature of empire (letteratura imperiale), ovvero opere scritte da autori europei ambientate nelle colonie, Hunt Hawkins afferma che A chief argument in favor of imperialism is that non-European peoples have no culture or that their culture ranks below European culture on some imagined linear scale (Hawkins 1991, 80: Un caposaldo dell’imperialismo è la convinzione che i popoli non europei non abbiano una cultura propria, oppure che essa si posizioni al di sotto di quella europea sulla base di una presunta scala di valori lineare – traduzione mia). Come si vedrà più avanti, Achebe sceglierà di rispondere a questo assunto ritraendo la ricchezza della cultura igbo, mentre altri autori useranno strategie e metodi differenti. A questo proposito, Maria Renata Dolce nota l’importanza fondamentale che per gli autori postcoloniali riveste il rapporto con il canone occidentale, un «referente centrale da imitare, ripudiare o piuttosto interrogare e riformulare creativamente». Questo rapporto viene idealmente suddiviso in tre fasi:
Dalla prima fase di imitazione pedissequa del modello da riprodurre tout court affinché una letteratura degna del nome potesse prendere forma, a quella del rifiuto dello stesso ai fini della definizione di culture letterarie nazionali autonome e originali, al momento, infine, della maturazione di letterature che, preso atto del lascito della storia coloniale, lo rielaborano criticamente (Dolce 2010, 174).
La questione del canone assume rilevanza a partire dagli anni novanta, quando si comincia ad analizzare la «collusione del canone con i discorsi di potere», ma quando la società contemporanea, soprattutto anglosassone, subisce anche profondi cambiamenti che «impongono una rivalutazione della rappresentatività del canone quale specchio dei valori di comunità sempre più articolate e polifoniche» (Dolce 2010, 175). Sono questi i motori di un nuovo modo di leggere testi canonici come Heart of Darkness, ma anche Robinson Crusoe di Daniel Defoe oppure Jane Eyre di Charlotte Brontë, in una «rilettura diacronica e contestualizzata dei classici [che] si attesta in primis come fondamentale strumento di conoscenza del passato e di disvelamento delle strategie di oppressione e marginalizzazione» (Dolce 2010, 176). Va sottolineato che questa rilettura non si innesta su un rapporto di dipendenza o subalternità, ma piuttosto di scambio e arricchimento reciproco, per proporre una «modalità dialogica di apertura e confronto critico» (ivi, 192). Ed è all’interno di questa cornice dialogica che troviamo uno dei testi fondanti della letteratura postcoloniale di lingua inglese, ovvero Things Fall Apart del nigeriano Chinua Achebe.
Chinua Achebe (1930 – 2013), di etnia igbo, nasce a Ogidi nella Nigeria orientale. Si laurea in letteratura inglese allo University College di Ibadan nel 1953 e successivamente va a lavorare alla Nigerian Broadcasting Corporation come produttore radiofonico. Nel 1958 esce il suo primo romanzo, appunto Things Fall Apart. Chimamanda Ngozi Adichie, nella sua introduzione all’edizione del romanzo per la collana «Everyman’s Library», riporta i dubbi dell’editore Alan Hill, incerto se pubblicare o meno il romanzo perché Would anyone possibly buy a novel by an African? (Adichie 2010, vii: «Chi mai comprerebbe il romanzo di un africano?» – traduzione mia). Infatti, benché fossero già stati pubblicati in quegli anni alcuni testi di autori africani, come ad esempio The Palm-Wine Drinkard di Amos Tutuola (1952), primo romanzo africano scritto in inglese pubblicato all’estero (edito in Italia da Bocca nel 1954 come Il bevitore di vino di palma, nella traduzione di Adriana Motti), nessuno di loro aveva the ambition, the subtlety, or the confidence of Things Fall Apart (Adichie 2010, vii: l’ambizione, la sottigliezza e l’audacia di Things Fall Apart – traduzione mia). Non solo invece il romanzo ebbe un successo a livello di critica, ma ebbe soprattutto il merito di fornire un’immagine a tutto tondo dell’uomo africano. Adichie ricorda come lei stessa abbia vissuto in modo conflittuale e doloroso il rapporto con la rappresentazione dell’Africa riscontrabile nella letteratura occidentale:
The strangeness of seeing oneself distorted in literature – and indeed of not seeing oneself at all – was part of my own childhood. I grew up in the Nigerian university town of Nsukka in the 1980s, reading a lot of British children’s books. My early writing mimicked the books I was reading: all my characters were white and all my stories were set in England. Then I read Things Fall Apart. It was a glorious shock of discovery, […]; I did not know in a concrete way until then that people like me could exist in literature (Adichie 2010, viii-ix).
Io stessa durante la mia infanzia ho provato la strana sensazione di vedere la mia immagine distorta – o di non vederla affatto – nei libri. Sono cresciuta in Nigeria nella città universitaria di Nsukka, negli anni ottanta, leggendo un sacco di libri inglesi per bambini. I miei primi scritti imitavano rigorosamente i libri che leggevo: tutti i miei personaggi erano bianchi e tutte le mie storie erano ambientate in Inghilterra. Poi ho letto Things Fall Apart. E’ stato un vero e proprio shock, una rivelazione, […]; fino a quel momento non avevo idea che le persone come me potessero esistere concretamente in letteratura (traduzione mia).
Questa riflessione, che la scrittrice ha ribadito in più occasioni (ad esempio nell’ormai notissimo discorso tenuto al TED nel 2009, The danger of a single story), non ha nulla di eccezionale se non il fatto di continuare a ripetersi di generazione in generazione. Esperienze simili infatti compaiono con prepotenza nella narrativa degli autori africani cosiddetti “di prima generazione”: basti pensare alla vera e propria lotta dell’autore keniota Ngugi wa Thiong’o, ma anche allo stesso Chinua Achebe, che racconta una storia molto simile in riferimento agli anni di scuola:
I did not see myself as an African to begin with. […] I took sides with the white men against the savages. The white man was good and reasonable and intelligent and courageous. The savages arrayed against him were sinister and stupid or, at the most, cunning. I hated their guts (Achebe 2010, viii)
Tanto per cominciare, non mi riconoscevo nell’africano. […] Prendevo le parti degli uomini bianchi contro i selvaggi. L’uomo bianco era buono e assennato e intelligente e coraggioso. I selvaggi schierati contro di lui erano sinistri e stupidi oppure, nel migliore dei casi, subdoli. Li odiavo con tutto me stesso (traduzione mia).
Nel 1960, anno dell’indipendenza della Nigeria, esce No Longer At Ease, che ripercorre la storia del nipote di Okonkwo (protagonista di Things Fall Apart) negli ultimi anni di governo coloniale, e nel 1964 Arrow of God, che invece fa un salto indietro e riprende le vicende di Nwoye (figlio di Okonkwo). Con uno sguardo complessivo a tutta l’opera di Achebe e non solo alla trilogia africana, Itala Vivan fa notare l’interesse di Achebe a «situare i suoi romanzi in fasi storiche di intervallo e transizione che gli consentissero di strutturare un nuovo discorso sull’Africa, e quindi, in un certo senso, di inventare l’Africa», con un occhio alla resa non stereotipata del passato e allo stesso tempo non mitizzata del presente, che rischia di trascurare il fattore umano e la cultura dell’Africa contemporanea (Vivan 1991, xv e xiv).
Negli anni della guerra civile (1967-1970) Achebe parteggia per la regione secessionista del Biafra. Dagli anni sessanta è docente in diverse università nigeriane e degli Stati Uniti, oltre a promuovere la narrativa africana come editor e responsabile della African Writers Series (AWS), una collana della casa editrice Heinemann inaugurata nel 1962 con una nuova edizione di Things Fall Apart e che, nei dieci anni in cui è stata sotto la direzione di Achebe (fino al 1972), ha visto la pubblicazione di oltre cento titoli. Nel corso della sua lunga carriera Achebe ha ricevuto una moltitudine di premi, come ad esempio il Commonwealth Poetry Prize (1972) e il Man Booker International Prize (2007).
Autore ormai di fama mondiale, in un discorso del 1975 presso la University of Massachusetts ad Amherst Chinua Achebe parlò del suo rapporto con il canone, scagliandosi apertamente contro l’ideologia trasmessa da Heart of Darkness, un libro che è a tutti gli effetti parte integrante di quella che lui definisce permanent literature (letteratura permanente – Achebe 1988), letto e fatto leggere e commentato in ogni scuola e università. Secondo Achebe infatti:
Joseph Conrad’s Heart of Darkness better than any other work that I know displays the Western desire and need […] to set Africa up as a foil to Europe, as a place of negations at once remote and vaguely familiar, in comparison with which Europe’s own state of spiritual grace will be manifest. […] Heart of Darkness projects the image of Africa as “the other world”, the antithesis of Europe and therefore of civilization, a place where man’s vaunted intelligence and refinement are finally mocked by triumphant bestiality (Achebe 1988).
Più di ogni altra opera che conosco Heart of Darkness di Joseph Conrad mostra il desiderio e il bisogno dell’Occidente di fare dell’Africa il proprio contraltare, un luogo di negazioni, remoto ma allo stesso tempo vagamente familiare, dal cui confronto la stessa grazia spirituale dell’Europa non possa che risultare evidente. […] Heart of Darkness proietta l’immagine dell’Africa come di “un altro mondo”, l’antitesi dell’Europa e quindi della civiltà, un posto dove l’intelligenza e la raffinezza tanto decantate dall’uomo si riducono a loro scimmiottamento e al trionfo della bestialità (traduzione mia).
Nella sua reazione al testo, Achebe si infervora per l’uso strumentale dell’Africa, ridotta a fondale davanti al quale mettere in scena la vera storia (il deterioramento mentale di un europeo – Kurtz – tra malattia e solitudine; il viaggio interiore di Marlow), privata del fattore umano africano. Forse con qualche esagerazione, lo scrittore arriva a sostenere non solo il razzismo ma un vero e proprio odio irrazionale verso l’uomo africano, quasi un’ossessione.
L’attacco di Achebe crea irrevocabilmente uno spartiacque nello studio di Conrad e di Heart of Darkness, un punto di non ritorno. La critica, fino a quel momento in buona parte omogenea nei confronti dell’opera, subisce una spaccatura netta, portando alla creazione di due fazioni: coloro che ritengono le parole di Achebe un’offesa gratuita a uno dei maggiori capolavori inglesi di fine Ottocento e coloro che invece le ritengono illuminanti, realmente in grado di fornire una nuova chiave di lettura al testo. Entrambi gli approcci verranno ulteriormente messi in discussione in seguito dall’avvento del poststrutturalismo e dalla sua convinzione dell’impossibilità di un legame tra parola scritta e realtà (e quindi di una rappresentazione letteraria in qualche modo fedele della realtà) che non sia meramente arbitrario. In Culture and Imperialism Edward Said riprende le idee di Achebe, concordando con lui nel sostenere che Conrad did not originate the image of Africa which we find in his book. It was and is the dominant image of Africa in the Western imagination and Conrad merely brought the peculiar gifts of his own mind to bear on it (Achebe 1988: «Non è stato Conrad a dare origine all’immagine dell’Africa che troviamo nel suo libro. Era ed è tutt’ora l’immagine dominante dell’Africa all’interno dell’immaginario occidentale, sul quale si è fondato il particolare talento di Conrad »- traduzione mia).
Al di là dei vari approcci teorico-narratologici all’opera (a cui forse gioverebbe una lettura complementare e non contrapposta dei due testi), la risposta fattiva di Chinua Achebe alla mancata e distorta immagine dell’Africa di Conrad era già arrivata nel 1958, con la pubblicazione del suo romanzo d’esordio.
3. Da Marlow a Okonkwo
Nel 1830 Hegel sosteneva che «l’Africa non è una parte storica del mondo, non offre alcun movimento o sviluppo, alcuno svolgimento storico proprio» (citato in Ki-Zerbo 1977, 4). Una terra senza storia né evoluzione, il cui unico apporto alla storia del mondo deriva dalla colonizzazione europea che le ha dato un’identità (ausiliaria) e permesso di progredire. Questa posizione, espressa in termini più o meno espliciti e denigratori, è stata condivisa da un notevole numero di storici per oltre un secolo. All’irrilevanza storica va poi aggiunta la presunta inutilità della tradizione orale, considerata da molti storici «meno consistente delle fonti scritte» e bisognosa di essere «confermata da un’altra fonte» (Ki-Zerbo 1977, 13). Ed è in presenza di questa presunta terra nullius che trovano spazio e una ragione i governi coloniali: come sopperire a tutto ciò se non importando, impiantando la propria storia e la propria cultura? Per quanto non sia questo il luogo più adatto per approfondire degnamente il ruolo dell’istruzione e della missione civilizzatrice coloniale (ovvero il kiplinghiano «fardello dell’uomo bianco»), qualche cenno diventa tuttavia fondamentale per farsi un’idea delle basi sulle quali è potuto nascere un testo come Things Fall Apart.
Nell’analisi del periodo coloniale, lo storico Joseph Ki-Zerbo sottolinea come la politica britannica fosse basata innanzitutto sull’autonomia finanziaria, «condizione e misura dell’autonomia politica», in una sorta di amministrazione indiretta. Una politica in realtà ben più complessa e ambigua, che prevedeva da un lato di «portare agli Africani i benefici della civiltà materiale e morale e [dall’altro] sfruttare le ricchezze dell’Africa» (Ki-Zerbo 1977, 577-578).
Ma vediamo più nel dettaglio la situazione specifica della Nigeria e del gruppo etnolinguistico trattato da Achebe, gli igbo (sudest, cristiani), terza etnia nigeriana per dimensione dopo gli hausa-fulani (nord, musulmani) e gli yoruba (sudovest, cristiani). Anche nel protettorato delle province della Nigeria veniva applicata questa forma di governo indiretta, la cui debolezza di base risiede però nella concezione stessa di «organizzazione politica». Secondo Dan Izevbaye la struttura sociale igbo did not conform to British ideas of government and civil order. Civilization, for the British, meant a hierarchy of authority, a centralized system of rule (Izevbaye 1991, 46: non corrispondeva all’idea britannica di governo e ordine civile. Civiltà, per i britannici, significava gerarchia di autorità, un sistema di governo centralizzato – traduzione mia). Izevbaye riprende a questo proposito una relazione di Sir Frederick Lugard, a lungo governatore della Nigeria,: The Southern Provinces were [mostly] populated by tribes in the lowest stage of primitive savagery, without any central organisation […] A great part of the North, on the other hand, had come under the influence of Islam, and […] had an elaborate administrative machinery (Lugard 1920, 67: Le province del Sud erano popolate principalmente da tribù di selvaggi allo stadio primitivo più basso, senza alcuna organizzazione centrale. […] Gran parte del Nord, invece, era sotto l’influenza dell’Islam e […] possedeva un’elaborata macchina amministrativa – traduzione mia).
Mentre questa politica di governo indiretto poteva considerarsi in un certo qual modo “adatta”’ alla struttura monarchica e centralizzata del Nord (della Nigeria, ma non solo), diversa era la questione per il Sud. Il governo britannico decise comunque di trattare le due aree come un’unica unità amministrativa da riunire infine in un solo protettorato nel 1914. Questo significò un’opera di conquista non indifferente: siccome gli igbo non avevano un governo centralizzato, andava conquistata ogni singola comunità.
A sudest dell’attuale Nigeria si era costituito il potente e dinamico gruppo ibo, con una struttura “ultrademocratica” che favoriva l’iniziativa individuale. L’unità sociopolitica è il villaggio, e più villaggi si raggruppano a volte sotto l’egida di una stessa divinità e di un capo lignaggio, l’okpara. Certi fattori di integrazione hanno comunque plasmato la forte personalità degli Ibo: l’esogamia, i mercati principali le cui vie di accesso sono il frutto di lavori collettivi e annuali, i culti comuni come quello del grande oracolo chuku ad Aro-Chuku e dell’oracolo Agballa ad Akwa […].
Alla base [delle società dell’Africa precoloniale] troviamo delle società frazionate in cui il principale e talvolta anche l’unico motore socioeconomico era rappresentato dalla grande famiglia patriarcale a patronimico comune, in genere riunita in una corte comune […]. Più clan generalmente legati dal denominatore linguistico costituiscono una etnia, che a livello elementare rappresenta già una comunità di cultura e di destino […]. Queste società erano fondamentalmente rurali; la terra era generalmente oggetto di appropriazione collettiva (Ki-Zerbo 1977, 195 e 215-216).
Accanto a queste società «poco diversificate, con un coefficiente di mutazione minimo», si sono costituite anche società dalla complessa struttura statale, ma non è questo il mondo in cui Achebe vuole portare il lettore. Quello che lui vuole farci conoscere è il microcosmo cristallizzato del villaggio e del clan famigliare, con tutte le sue tradizioni e le sue credenze. Infatti la prima delle tre parti che compongono Things Fall Apart si occupa esattamente di questo: un’immersione totale nella vita di un villaggio, Umuofia, all’apparenza mitico ma assolutamente realistico. L’episodio della distruzione del villaggio di Abame da parte dei colonizzatori, ad esempio, è ricalcato su un fatto realmente accaduto: 471 abitanti del villaggio igbo di Ahiara vennero sterminati tra il 1905 e il 1906 come “punizione” (in termini coloniali) per aver ucciso un uomo bianco, ma anche e soprattutto a scopo intimidatorio verso i villaggi che non volevano cooperare (Lindfors 1991, 39-40). Lo stesso vale per i costumi e le vicende narrati: si tratta infatti molto spesso di elementi autobiografici, propri della storia famigliare dell’autore (Lindfors 1991, 42-43).
Con questa tecnica narrativo Achebe ricrea quindi un tipico villaggio igbo all’inizio del ventesimo secolo, momento in cui le autorità e i missionari britannici cominciarono a spingersi a est del fiume Niger. La comunità di Umuofia risulta perfettamente funzionante e armonica, finché questa integrità non si disgrega sotto l’influenza degli invasori Wren 1991, 38-39). Things Fall Apart ha quindi un duplice scopo: mostrare la realtà precoloniale (una sorta di testimonianza, anche con lo scopo di decostruire, o per lo meno relativizzare, tutta una serie di pregiudizi sulla presunta conoscenza delle popolazioni del basso Niger, particolarmente assorbiti prima e durante il periodo coloniale, come ad esempio il fatto che non ci fosse alcuna sostanziale differenza tra i vari gruppi etnici dell’Africa nera e che gli igbo vivessero in un quasi totale isolamento) e allo stesso tempo i meccanismi della colonizzazione.
What [Things Fall Apart] does, in a lordly, objective, incontrovertible manner, is to demonstrate that every society depends on a fairly rigid set of conventions which can only be lived as a whole and can therefore only be evaluated as a whole – ideally from the inside. […] [Chinua Achebe] prefers to reveal the darker side of both traditions as well as the better side and leave us to draw our conclusions. He does not romanticise Igbo society nor vilify Christian European behaviour as a whole (Cook 1977, 67-68).
Quello che [Things Fall Apart] fa in un modo nobile, obiettivo e inconfutabile, è dimostrare come ogni società si basi su un insieme discretamente rigido di convenzioni, le quali possono essere vissute solo nella loro totalità e di conseguenza solo nella loro totalità possono essere valutate, meglio se dall’interno. [Chinua Achebe] preferisce rivelare il lato più oscuro di entrambe le tradizioni così come l’aspetto migliore e lasciare a noi di trarre le conclusioni. Non idealizza la società igbo né condanna in toto il comportamento europeo cristiano.
Questo primo romanzo infatti – che nell’intenzione dell’autore era il primo di una trilogia sulla storia pre- e postcoloniale della Nigeria – adoperando la prospettiva di un narratore esterno ma dall’ideologia molto vicina a quella della comunità tribale di Umuofia, di cui condivide e comprende i valori, ci mostra il germe della colonizzazione. Non quello che “già si sa”, ma in quale modo uno sparuto gruppo di stranieri riesce a far valere e in seguito a imporre il proprio volere: prima la religione, poi il governo e infine il commercio (definita da Wren (1991, 42) colonial trinity [trinità coloniale]). Achebe lo ottiene in modo intelligente, lucido, sottile. Nella prima parte mostra al lettore un mondo compatto, dalle leggi e i valori ben chiari, dove tutto è regolato dalla tradizione. Nella seconda, che corrisponde all’arrivo del primo missionario e dei suoi seguaci, la coesione di questa comunità, ora confusa e incerta sul da farsi, comincia a dare segni di cedimento. La narrazione di Achebe tende a mostrare fin da subito, a onor del vero, che il mondo di Umuofia presenta già delle debolezze interne al suo funzionamento, sulle quali basterà fare leva per far crollare inesorabilmente tutta la comunità. Uno dei personaggi che Achebe usa a questo scopo è Nwoye, primogenito di Okonkwo nonché protagonista del secondo libro della trilogia secondo l’ordine cronologico della narrazione (Arrow of God, terzo in ordine di pubblicazione). Scontrandosi con il padre e abbandonando Umuofia per unirsi alla comunità missionaria dà infatti voce alle perplessità e al disappunto verso tutte quelle usanze che non comprende o non condivide, esplicitando narratologicamente l’attrazione di un convertito verso i valori cristiani. La terza parte vede l’affermazione di una comunità missionaria forte e sicura, strutturata, che predomina su una Umuofia ormai profondamente e dolorosamente divisa. Lo vediamo all’interno del villaggio e soprattutto all’interno dell’animo del protagonista Okonkwo: lui incarna la quintessenza dei valori e delle tradizioni precoloniali, con un’ostinazione e una cecità che al lettore danno perfino fastidio, e i suoi moti interiori (compreso il crollo finale) altro non sono se non lo specchio della Storia. Okonkwo è una figura quasi eroica, epica nella sua eccezionalità e allo stesso tempo nella sua inevitabile disfatta.
Ciò che infine tiene unita questa particolare materia in cui trama e contesto si fondono è la lingua usata da Achebe, un inglese abilmente modellato sull’igbo. Uno stile fluido nella sua linearità a cui si aggiunge un’attenzione estrema per il linguaggio; Adichie parla di una vera e propria «celebrazione del linguaggio»:
Achebe writes spare, elegant sentences in English but it is a Nigerian English and often, more specifically, an Igbo English. All three novels are filled with direct translations from the Igbo […]. It is, however, the rendition of proverbs, of speech, of manners of speaking, that elevate Achebe’s novels into a celebration of language (Adichie 2010, x).
Achebe usa frasi semplici ed eleganti nel suo inglese, ma si tratta di un inglese nigeriano e spesso, più precisamente, di un inglese igbo. Tutti e tre i romanzi sono pieni di traduzioni pressoché letterali dalla lingua igbo […]. Ciononostante è la resa dei proverbi, del parlato, del modo di esprimersi, che eleva i romanzi di Achebe a una celebrazione del linguaggio – traduzione mia).
Il romanzo, non a caso, ha consacrato Achebe come il padre del romanzo africano.
Già allora, nell’epocale anno 1958 in cui alla Conferenza panafricana di Accra risuonarono alte le voci di Patrice Lumumba e di Frantz Fanon, le parole di Achebe tracciavano il filo di un controdiscorso che, riprendendo la voce della propria cultura, analizzava il passato dell’Africa intessendone storie e ricavandone una storia (Vivan 1991, xi)
La traduzione infinita
4. Things Fall Part arriva in Italia
La storia intessuta da Achebe arrivò quattro anni dopo, in seguito alla conquista dell’indipendenza nigeriana (1960), anche in Italia. La prima traduzione, compiuta da Giuliana De Carlo, uscì nel 1962 da Mondadori nella collana «Il Bosco» con l’affascinante titolo Le locuste bianche.
Tuttavia, la traduzione più nota di questo romanzo, quella diventata in un certo senso canonica, è la successiva. L’editore è Jaca Book e la nuova traduzione è di Silvana Antonioli Cameroni: pubblicata nel 1977, a quindici anni di distanza, nella collana «di fronte e attraverso» con il titolo Il crollo, stavolta è inserita all’interno del ciclo narrativo Dove batte la pioggia insieme alle traduzioni degli altri due testi della trilogia africana di Achebe, della stessa Antonioli Cameroni: No longer at ease (1960), col titolo Ormai a disagio, e Arrow of God (1964), col titolo La freccia di Dio. Da notare il brusco cambio di titolo: mentre il primo, lontano da quello originale, crea un parallelismo tra le vere locuste che arrivano a Umuofia e l’invasione bianca, il secondo torna all’origine, frutto dell’accordo raggiunto in sede redazionale insieme alla traduttrice e allo stesso Achebe. Questa seconda versione, rivista da Marco Grampa (traduttore storico presso la casa editrice milanese), si presenta inoltre arricchita di una sostanziosa introduzione dello scrittore sudafricano Richard Rive, una trentina di pagine in cui si ragiona sul ruolo essenziale di Achebe all’interno della letteratura africana. Questa stessa traduzione verrà in seguito acquisita da E/O e ripubblicata nella collana «I Leoni» in coedizione con Jaca Book nel 2002, sempre col titolo Il crollo.
Infine, la traduzione più recente: a fine 2016 la neonata Nave di Teseo fa ritradurre l’opera ad Alberto Pezzotta e la pubblica nella collana «Oceani» con il titolo Le cose crollano, operando quindi una significativa modifica del titolo. La concisa nota del traduttore non rende forse pienamente merito all’opera; lodevole invece il ripristino del glossario di termini ed espressioni igbo a fine romanzo (non presente nelle due traduzioni precedenti), che rispetto a quello originale vede l’aggiunta di circa quaranta voci, tra termini igbo e vere e proprie spiegazioni, elaborate ad hoc per un lettore italiano che si avvicini a questo tipo di letteratura. Meno necessario appare l’uso di note all’interno del testo per esplicitare alcuni passaggi. Un esempio lo troviamo a pag. 63: vista la rigorosissima intessitura nel testo originale di espressioni igbo tradotte e non, perché offrire la traduzione di una filastrocca che l’autore aveva scelto di lasciare in igbo? Oppure a pag. 138: la situazione in realtà è già chiara al lettore, tuttavia il traduttore sceglie di approfondire ulteriormente il tema dell’incomprensione tra dialetti (non del tutto motivata inoltre la resa di my buttocks con «il mio culo», che sia De Carlo sia Antonioli Cameroni hanno invece reso con «le mie natiche»). Ma questo genere di scarti – su cui in questo stesso numero di «tradurre» si pronuncia lo stesso Pezzotta intervistato da Giulia Caterini – verrà osservato meglio poco più avanti.
Queste tre edizioni cominciano a mostrare le loro specificità già nel «confezionamento», e le rese in italiano non fanno eccezione. Le tre traduzioni presentano infatti una serie di caratteristiche che, messe a confronto, rivelano il mutamento della concezione stessa di traduzione nonché dell’evoluzione del modo di affrontare un testo “altro” nell’arco degli ultimi decenni. Al fine di osservare le scelte lessicali e sintattiche così come le strategie complessive che sono state applicate da questi tre traduttori verranno quindi accostati due brani di Things Fall Apart alle rispettive tre versioni. Per praticità, sono sottolineati alcuni punti salienti.
Il primo brano corrisponde all’incipit del romanzo. Poche righe che provano a mostrare in che modo i tre traduttori abbiano lavorato sulla resa sintattica della lingua di Achebe:
Okonkwo was well known throughout the nine villages and even beyond. His fame rested on solid personal achievements. As a young man of eighteen he had brought honour to his village by throwing Amalinze the Cat. Amalinze was the great wrestler who for seven years was unbeaten, from Umuofia to Mbaino. He was called the Cat because his back would never touch the earth. It was this man that Okonkwo threw in a fight which the old men agreed was one of the fiercest since the founder of their town engaged a spirit of the wild for seven days and seven nights (Achebe 2010, 5).
Okonkwo era molto conosciuto in tutti i nove villaggi e anche oltre. La sua fama era basata su notevoli meriti personali. Da giovane, a diciott’anni, aveva fatto onore al suo villaggio battendo Amalinze, il Gatto. Amalinze era il grande lottatore che per sette anni era rimasto invitto da Umuofia a Mbaino, e lo chiamavano il Gatto perché la sua schiena non toccava mai terra. Okonkwo lo vinse dopo un incontro che, a giudizio dei vecchi, fu uno dei più violenti dal tempo in cui il fondatore della loro città lottò per sette giorni e sette notti con uno spirito dei boschi. (De Carlo 1962, 9)
Okonkwo era famoso in tutti i nove villaggi e anche oltre. La sua fama si basava su importanti meriti personali. Ancora diciottenne aveva portato onore al suo villaggio atterrando Amalinze, il Gatto. Amalinze era il grande lottatore che per sette anni non fu mai battuto, da Umuofia a Mbaino. Lo chiamavano il Gatto perché la sua schiena non toccava mai terra. Fu questo l’uomo che Okonkwo atterrò in una lotta che gli anziani riconobbero essere stata una delle più feroci da quando il fondatore della loro città aveva combattuto uno spirito della foresta per sette giorni e per sette notti. (Antonioli Cameroni 1977, 5)
Okonkwo era ben conosciuto nei nove villaggi e anche oltre. La sua fama si basava su imprese indiscutibili. A diciotto anni aveva procurato onore al suo villaggio sconfiggendo Amalinze il Gatto. Amalinze era un grande lottatore e non perdeva da sette anni, da Umuofia a Mbaino. Il soprannome di Gatto si doveva al fatto di non toccare mai terra con la schiena. Fu questo l’uomo che Okonkwo sconfisse, alla fine di una lotta così feroce, a detta degli anziani, come non se ne vedevano da quando il fondatore del villaggio aveva combattuto con uno spirito della foresta per sette giorni e sette notti. (Pezzotta 2016, 13)
La resa semantica è pressoché identica nelle tre versioni. A livello di costruzione della frase, invece, si possono riscontrare differenze significative. La prima traduzione (De Carlo 1962) è quella che appare, in un certo qual modo, più ibrida, indecisa tra la normalizzazione (riportando il soggetto in capo alla frase) e la resa più vicina all’originale. Le altre due prendono una direzione più nitida. Mentre Antonioli Cameroni sceglie di rimanere accuratamente “fedele” alla costruzione originale, Pezzotta mantiene l’inizio ma riformula il tutto, preferendo una resa più fluida e di più immediata ricezione per il lettore. La stessa tendenza si può notare anche nelle frasi precedenti la sottolineatura («Amalinze […] schiena»), che De Carlo lega con una congiunzione, Antonioli Cameroni ricalca (sostituendo il letterario e obsoleto «invitto») e Pezzotta normalizza, semplificando (ad esempio prefendo dire «il soprannome» piuttosto che «lo chiamavano»). Non del tutto chiara, dal punto di vista lessicale, la traduzione di solid personal achievements: da «notevoli/importanti meriti personali» a «imprese indiscutibili». A questo proposito, il secondo brano rende maggiormente l’idea delle strategie lessicali messe in atto. Si è scelta qua una parte di dialogo tra il protagonista Okonkwo e l’amico Obierika:
Just then Obierika’s son, Maduka, came into the obi from outside, greeted Okonkwo and turned towards the compound.
“Come and shake hands with me,” Okonkwo said to the lad. “Your wrestling the other day gave me much happiness.” The boy smiled, shook hands with Okonkwo and went into the compound.
“He will do great things,” Okonkwo said. “If I had a son like him I should be happy. I am worried about Nwoye. A bowl of pounded yams can throw him in a wrestling match. His two younger brothers are more promising. But I can tell you, Obierika, that my children do not resemble me. Where are the young suckers that will grow when the old banana tree dies? If Ezinma had been a boy I would have been happier. She has the right spirit.”
“You worry yourself for nothing,” said Obierika. “The children are still very young.”
“Nwoye is old enough to impregnate a woman. At his age I was already fending for myself. No, my friend, he is not too young. A chick that will grow into a cock can be spotted the very day it hatches. I have done my best to make Nwoye grow into a man, but there is too much of his mother in him.”
“Too much of his grandfather,” Obierika thought, but he did not say it. The same thought also came to Okonkwo’s mind. But he had long learned how to lay that ghost. Whenever the thought of his father’s weakness and failure troubled him he expelled it by thinking about his own strength and success. And so he did now. His mind went to his latest show of manliness (Achebe 2010, 47-48).Proprio allora Maduka, il figlio di Obierika, entrò nell’obi dall’esterno, salutò Okonkwo e fece per uscire in cortile.
«Vieni: voglio stringerti al mano» disse Okonkwo al ragazzo. «La tua abilità nella lotta, l’altro giorno, mi ha dato molto piacere.» Il ragazzo sorrise, strinse la mano di Okonkwo e uscì in cortile.
«Farà grandi cose» osservò Okonkwo. «Sarei felice di avere un figlio come lui. Nwoye mi preoccupa. In combattimento, anche una ciotola di farinata può metterlo a terra. I suoi due fratelli minori promettono molto di più. Ma io ti dico, Obierika, che i miei figli non mi somigliano. Dove sono i giovani virgulti che cresceranno quando il vecchio banano morirà? Se Ezinma fosse un maschio sarei più contento. Lei ha carattere.»
«Ti preoccupi senza motivo» disse Obierika. «I tuoi figli sono ancora molto giovani.»
«Nwoye è abbastanza maturo da ingravidare una donna. Alla sua età me la sbrigavo già da solo. No, amico, non è troppo giovane. Il pulcino che diventerà gallo si riconosce appena uscito dall’uovo. Ho fatto tutto il possibile perché Nwoye diventi un uomo, ma assomiglia troppo alla madre.»
«O al nonno» pensò Obierika, ma non lo disse. La stessa idea passò anche per la mente di Okonkwo. Ma da un pezzo aveva imparato a scacciare questo spauracchio. Ogni volta che il pensiero della debolezza e del fallimento del padre lo assaliva, egli lo respingeva pensando alla propria forza e al proprio successo. Così fece ora, rievocando la sua più recente dimostrazione di virilità (De Carlo 1962, 57).Proprio allora il figlio di Obierika, Maduka, entrò nell’obi, salutò Okonkwo e si diresse verso il recinto.
«Vieni a stringermi la mano,» disse Okonkwo al ragazzo. «Mi ha fatto molto piacere vederti lottare l’altro giorno.» Il ragazzo sorrise, strinse la mano a Okonkwo e andò nel recinto.
«Farà grandi cose,» disse Okonkwo. «Sarei contento di avere un figlio come lui. Sono preoccupato per Nwoye. Basterebbe una ciotola di ignami pestati per metterlo a terra in un incontro di lotta. I suoi due fratelli minori promettono di più. Ma posso dirti, Obierika, che i miei figli non mi assomigliano. Dove sono i giovani rampolli che cresceranno quando il vecchio banano morirà? Se Ezinma fosse un ragazzo, sarei più contento. Lei ha il carattere giusto.»
«Ti preoccupi per niente,» disse Obierika. «I tuoi figli sono ancora molto giovani.»
«Nwoye è grande abbastanza da fecondare una donna. Alla sua età io provvedevo già a me stesso. No, amico mio, non è troppo giovane. Il pulcino destinato a diventare gallo, lo si può riconoscere il giorno stesso in cui esce dall’uovo. Io ho tentato di tutto per fare di Nwoye un uomo, ma c’è troppo di sua madre in lui.»
«Troppo di suo nonno,» pensò Obierika, ma non lo disse. Anche Okonkwo pensò la stessa cosa. Ma aveva imparato da molto tempo ad allontanare quel fantasma. Ogni volta che il pensiero della debolezza e del fallimento di suo padre lo turbava, lo cacciava pensando alla propria forza e al proprio successo. E così fece adesso. La sua mente andò alla sua ultima dimostrazione di virilità. (Antonioli Cameroni 1977, 58-59).Proprio allora Maduka, il figlio di Obierika, fece capolino nell’obi, salutò Okonkwo e si diresse verso il cortile
«Vieni a stringermi la mano,» disse Okonkwo al ragazzo. «Vederti lottare, l’altro giorno, mi ha riempito di gioia.»
Il ragazzo sorrise, strinse la mano a Okonkwo e uscì.
«Farà grandi cose,» disse Okonkwo. «Sarei felice se avessi un figlio come lui. Nwoye invece mi preoccupa. In un incontro di lotta, una ciotola di fufu basterebbe a metterlo a terra. Ho più speranze sui suoi due fratelli più piccoli. Ma ti posso dire, Obierika, che i miei figli non mi assomigliano. Dove sono i virgulti che cresceranno quando il vecchio banano morirà? Sarei stato più felice se Ezinma fosse stata un ragazzo. Ha lo spirito che ci vuole.»
«Ti preoccupi per niente,» disse Obierika. «Sono solo dei bambini.»
«Nwoye è grande abbastanza da mettere incinta una donna. Alla sua età, io badavo già a me stesso. No, amico mio, non è un bambino. Il pulcino che diventerà un gallo si vede il giorno stesso in cui esce dall’uovo. Ho fatto di tutto perché Nwoye diventasse un uomo, ma dentro di lui c’è troppo di sua madre.»
Troppo anche di suo nonno, pensò Obierika, ma non lo disse. Anche Okonkwo ci aveva pensato. Ma da tempo aveva imparato a seppellire quel fantasma. Ogni volta che era turbato dal pensiero della debolezza e del fallimento di suo padre, lo scacciava ricordando la propria forza e i propri successi. E così fece in quel momento. Rivide mentalmente le ultime manifestazioni della propria virilità (Pezzotta 2016, 68-69).
Mentre in questo secondo brano la sintassi è resa in modo molto simile dai tre traduttori, appare evidente come il lessico sia stato trattato in tutt’altra maniera. La prima frase (sottolineata) mostra prima di tutto una resa inadatta di compound da parte di Antonioli Cameroni; e infatti Pezzotta riprende il «cortile» di De Carlo per la sua traduzione (questo termine viene anche lungamente spiegato nel glossario). Al di là del mero errore traduttivo, che di per sé non ci interessa, questa inesattezza è in realtà sintomo di quella che si potrebbe definire un’idea non chiara dell’immagine di arrivo, di quell’immagine mentale che il traduttore si impegna a (ri)creare nel lettore del testo di arrivo. La stessa incertezza la troviamo in De Carlo quando indica con il termine «farinata» questo particolare tubero pestato (già corretto da Antonioli Cameroni). Tutt’altro approccio è quello di Pezzotta 2016. Interessante l’inserto del «capolino» all’inizio, non presente in Achebe ma di sicura efficacia, così come la scelta di passare dall’ignami pestato al fufu (o foufou, un piatto che ha origine probabilmente in Ghana, molto comune non solo in tutto il continente africano ma anche il zone con un’alta concentrazione di popolazione di discendenza nera, come nei Caraibi), plausibilmente il prodotto finale. Non altrettanto felice l’espressione colloquiale «mettere incinta» per il sobrio impregnate, che De Carlo e Antonioli Cameroni decidono invece di rendere mantenendo un tono neutro, in accordo con il resto della conversazione (va qui sottolineato come i dialoghi di Things Fall Apart abbiano sempre un tono quasi formale, di estremo rispetto delle tradizioni – soprattutto tramite l’uso frequente di metafore e proverbi – e dell’interlocutore; anche nei momenti più drammatici, la lingua del parlato non si allontana dallo standard).
Queste sono solo alcune delle considerazioni che si possono fare sulle tre traduzioni di Things Fall Apart. Si è scelto qua di circoscrivere l’osservazione a brevi estratti e scelte specifiche, che cercano al contempo di dare un’idea delle strategie adottate o non. Nell’insieme si potrebbe dire che la traduzione di De Carlo 1962 ha certamente il merito di aver dato per prima una voce italiana a Things Fall Apart, ma è solo dalle due traduzioni successive che risalta un lavoro sul testo realmente consapevole, seppur con esiti differenti. Antonioli Cameroni 1977 è quella che più si impegna a rimanere aderente alla sintassi e alla costruzione del testo originale, mentre Pezzotta 2016 tende più spesso a una normalizzazione volta ad avvicinarsi al lettore (vedi in questo stesso numero di «tradurre» l’intervista di Giulia C. Caterini al traduttore). Al di là di quelle che sono le scelte e le convinzioni personali, questo può anche essere considerato un riflesso della tendenza odierna a facilitare il lettore, più che sfidarlo a mettersi alla prova, un atteggiamento spesso riscontrabile in traduzione così come nella narrativa italiana.
Things Fall Apart si rivela un testo dalle mille sfaccettature non solo nella sua composizione originale, calibrata al millimetro da un giovane Achebe agli esordi (non dimentichiamo che all’epoca aveva appena ventotto anni) ansioso di mettere sulla pagina quella versione della Storia che così spesso aveva visto manipolata e distorta, ma anche nelle sue traduzioni italiane, dove la posizione di una parola e o la scelta di un vocabolo possono davvero fare la differenza per il lettore di arrivo.
Si tratta di un testo che a quasi sessant’anni dalla sua pubblicazione ha ancora tanto da dire e che, grazie alla traduzione di Pezzotta che ne consacra lo status di classico entrato ormai di diritto nel ciclo della «traduzione infinita», continuerà ancora per molto a sussurrare all’orecchio di quel lettore che vorrà leggere «il romanzo di un africano».
E a questo proposito abbiamo sentito il parere dell’editore di quest’ultima traduzione.
5. Elisabetta Sgarbi, direttrice editoriale della Nave di Teseo, e i classici della narrativa africana
Things Fall Apart è stato letto e amato in Italia prima nella traduzione di Giuliana De Carlo e poi nella canonica traduzione di Silvana Antonioli Cameroni. Che cosa l’ha spinta a scegliere di far ritradurre Chinua Achebe, e questo testo in particolare?
Seguivo le vicende di questo autore da alcuni anni. Ad ogni incontro con il suo agente letterario Andrew Wylie gliene parlavo e vedevo che crescevano i suoi editori stranieri. Fondata la Nave di Teseo, ho deciso di acquisirne i diritti. È stata forse la prima vera nuova acquisizione della Nave di Teseo, di cui sono molto orgogliosa perché mi sembra dia il giusto tono. Ogni grande libro ha un suo tempo. Non ogni momento è il momento giusto perché un classico venga apprezzato. Questo vale per tutte le opere d’arte. Il mondo sta cambiando, l’asse degli equilibri si sta enormemente spostando verso il continente africano. Scoprire la Letteratura (cioè la vita) di un mondo così complesso ed eterogeneo sarà una necessità dei prossimi decenni per l’Occidente e per i figli e nipoti dei migranti di oggi che vorranno scoprire le proprie radici. Achebe, Soyinka, Ngugi sono i padri della grande letteratura africana. E la Nave di Teseo intende dare un contributo in questo senso. Una giovane casa editrice deve ragionare anche così.
Una volta deciso di riportare sugli scaffali italiani Things Fall Apart, come è stato gestito il lavoro in redazione (scelta del traduttore/del revisore, promozione)?
Cercavo un ottimo traduttore, che però fosse uomo di vasta cultura generale. Pezzotta è persona che conosco da molti anni, ho condiviso con lui molti progetti editoriali in tutti i campi. È straordinariamente rigoroso. E dovevo dare un nuovo inizio per un autore per cui penso sia davvero giunto il momento per incontrare una platea di lettori più vasta e attenta. Senza nulla togliere alle ottime traduzioni del passato. Ma si trattava, ripeto, di dare il senso di un nuovo inizio.
Domanda d’obbligo: come siete arrivati alla decisione (non scontata) di cambiare nuovamente il titolo e di riportarlo più vicino al significato letterale dell’originale?
Alberto Pezzotta ha spinto molto in questo senso. Suona bene, è più letterale.
Nella breve nota di Alberto Pezzotta, che Giulia C. Caterini intervista per noi in questo stesso numero, si anticipa la notizia della ripresa della traduzione di Silvana Antonioli Cameroni di Arrow of God del 1964 (già uscita col titolo La freccia di Dio da Jaca Book, 1977, e più volte ripubblicata ), seguendo quindi l’ordine tematico più che cronologico. Seguirà No Longer at Ease del 1960 (Ormai a disagio, sempre Jaca Book, 1977, sempre Antonioli Cameroni)?
Certamente. Uno all’anno.
Avete intenzione di lavorare solamente su autori già noti al grande pubblico oppure andrete alla riscoperta anche di quelli rimasti inediti in Italia (e non solo)?
Una giovane casa editrice non ha una capienza infinita. Dobbiamo necessariamente selezionare, senza a priori, ma con un progetto preciso.
La maggior parte degli editori che si occupano al momento di letteratura africana preferiscono in linea di massima concentrarsi sulla narrativa contemporanea. Come si posiziona La nave di Teseo rispetto a questa tendenza?
Achebe è un contemporaneo ma anche un classico. Il concetto di contemporaneo è, almeno per ambiti così ancora, per molti versi, inesplorati, molto labile. Ripeto, si parte dai libri, e dalla attenzione che si presta loro.
Qualche anticipazione sulle prossime uscite?
A ottobre una raccolta di saggi di Ngugi wa Thiong’o, e il prossimo anno il suo nuovo romanzo The Wizard of the Crow.
Ringraziamenti
Ci tengo a ringraziare La nave di Teseo nelle persone di Elisabetta Sgarbi, Caterina Franceschini (ufficio stampa) e Alberto Pezzotta per il loro prezioso contributo, oltre a Giulia C. Caterini per la proficua collaborazione.
Bibliografia
Testi
Achebe 2010: Chinua Achebe, Things Fall Apart, in Chinua Achebe, The African Trilogy. Things Fall Apart (1958), No Longer at Ease (1960), Arrow of God (1964), (Introduction by Chimamanda Ngozi Adichie), Londra, Everyman’s Library, 2010
Antonioli Cameroni 1977: Chinua Achebe, Il crollo in Dove batte la pioggia, Milano, Jaca Book (traduzione di Silvana Antonioli Cameroni da Chinua Achebe, Things Fall Apart, Edinburgh, Heinemann, 1958)
Bernascone 2000: Joseph Conrad, Cuore di tenebra (traduzione di Rossella Bernascone da Conrad 2000, con testo a fronte), Milano, Mondadori
Conrad 2000: Heart of darkness (prima edizione 1902); with The Congo diary, edited with an introduction and notes by Robert Hampson, London, Penguin books
De Carlo 1962: Chinua Achebe, Le locuste bianche, Milano, Mondadori (traduzione di Giuliana De Carlo da Chinua Achebe, Things Fall Apart, Edinburgh, Heinemann, 1958)
Hampson 2000: Robert Hampson, Introduzione (traduzione di Rossella Bernascone da Robert Hampson, Introduction, in Conrad 2000) in Bernascone 2000
Pezzotta 2016: Chinua Achebe, Le cose crollano, Milano, La nave di Teseo (traduzione di Alberto Pezzotta da Chinua Achebe, Things Fall Apart, Edinburgh, Heinemann, 1958)
Letteratura critica
Achebe 1988: Chinua Achebe, An Image of Africa: Racism in Conrad’s Heart of Darkness, in «Massachussets Review», n. 18, 1977; ora in Robert Kimbrough, Heart of Darkness. An Authoritative Text. Background and Source Criticism, London, W.W. Norton and co., (III ed., consultato al sito http://kirbyk.net/hod/image.of.africa.html, senza numerazione di pagina)
Adichie 2010: Introduction, in Achebe 2010
Cavagnoli 1991: Chinua Achebe, Viandanti della storia, Roma, Edizioni Lavoro (traduzione di Franca Cavagnoli da Chinua Achebe, Anthills of the Savannah, London, Heinemann, 1987)
Cook 1977: David Cook, African Literature. A Critical View, London, Longman
Dolce 2010: Maria Renata Dolce, “Con-Test/azioni postcoloniali’: il dialogo con il canone e la riscrittura dei grandi classici, in Gli studi postcoloniali. Un’introduzione, a cura di Shaul Bassi e Andrea Sirotti, Firenze, Le Lettere
Hampson 2000: Robert Hampson, Introduzione a Bernascone 2000 (traduzione di Rossella Bernascone da Robert Hampson, Introduction in Conrad 2000)
Hawkins 1991: Hunt Hawkins, Things Fall Apart and the Literature of Empire, in Approaches to Teaching Achebe’s Things Fall Apart, edited by Bernth Lindfors, New York, The Modern Language Association of America, 1991
Izevbaye 1991: Dan Izevbaye, The Igbo as Exceptional Colonial Subjects: Fictionalizing an Abnormal Historical Situation, in Approaches to Teaching Achebe’s Things Fall Apart, edited by Bernth Lindfors, New York, The Modern Language Association of America, 1991
Ki-Zerbo 1977: Joseph Ki-Zerbo, Storia dell’Africa nera. Un continente tra la preistoria e il futuro, (traduzione di Roberto Long), Torino, Einaudi, 1977
Lugard 1920: Frederick Lugard, Report on the Amalgamation of Northern and Southern Nigeria, 1912-1919, presented to Parliament by command of His Majesty, December, 1919, London, H.M.S.O. (ora in Lugard and the Amalgamation of Nigeria: A Documentary Record, edited by A.H.M. Kirk-Greene, London, Cass, 1968, da cui si cita)
Said 1993: Edward Said, Culture and Imperialism, Londra, Chatto & Windus, 1993 (esiste una traduzione italiana di Stefano Chiarini e Anna Tagliavini: Cultura e imperialismo. Letteratura e consenso nel progetto coloniale dell’Occidente, con prefazione di Joseph A. Buttigieg e postfazione Giorgio Baratta, Roma, Gamberetti, 1998)
Sullam 2017: Sara Sullam, Mappe transnazionali. Scrittori postcoloniali e afropolitani, Milano, in «Tirature ‘17», a cura di Vittorio Spinazzola, pp. 229-236 (http://www.fondazionemondadori.it/cms/culturaeditoriale/841/tirature-17-da-una-serie-all-altra )
Tredell 1988: Nicolas Tredell, Icon Critical Guides. Joseph Conrad. Heart of Darkness, Cambridge, Icon Books, 1988
Vivan 1991: Itala Vivan, Introduzione a Cavagnoli 1991
Wren 1991: Robert M. Wren, “Things Fall Apart in Its Time and Place”, in Approaches to Teaching Achebe’s Things Fall Apart, edited by Bernth Lindfors, New York, The Modern Language Association of America