Franco Fortini
Lezioni sulla traduzione
a cura di Maria Vittoria Tirinato, premessa di Luca Lendini
Quodlibet pp. 231, € 16,00
di Aurelia Martelli
Tra il 20 e il 23 novembre 1989 Franco Fortini, su invito di Vittorio Russo, teneva un seminario sulla traduzione presso l’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici di Napoli. Lezioni sulla traduzione si basa sulle registrazioni audio del seminario e sui documenti cartacei conservati presso l’archivio Franco Fortini dell’Università di Siena, appunti dattiloscritti dallo stesso autore che, come si segnala nella nota al testo, possedeva e utilizzava un Macintosh già dal 1985. Sempre dalla nota apprendiamo quanta cura e dedizione Fortini avesse dedicato alla stesura di quelle lezioni, un lungo lavoro preparatorio ricostruito puntualmente nel ricco apparato critico a fine volume. A questi materiali Fortini aveva dato il titolo Lezioni sulla traduzione, scrivendolo a mano in inchiostro rosso sul primo foglio. Pare tuttavia che non avesse intenzione di pubblicare queste carte e che fossero state da lui concepite ed elaborate esclusivamente in vista del seminario napoletano.
Fortini, si sa, non era certo nuovo alla riflessione sulla traduzione, si pensi, ad esempio, ai saggi introduttivi che accompagnano le sue traduzioni più celebri: Eluard, Milton, Brecht, Goethe. Tuttavia, fatta eccezione per due importanti contributi degli anni Settanta poi inclusi nei Saggi italiani, non si tratta di veri e propri scritti teorici. Si spiega così l’operazione dell’editore Quodlibet che propone in questo volume, scrive la curatrice, «l’unica sintesi sulla traduzione letteraria che Fortini abbia mai tentato» (p. 14). Ci si riferisce per lo più alla traduzione poetica anche se, come sottolinea Antonio Prete nel volume All’ombra dell’altra lingua (recensito anch’esso in questo numero di «tradurre») «la traduzione della prosa […] non ha avuto complicazioni meno decisive con la scrittura critica, teorica e politica di Fortini di quante non ne abbia avuto la traduzione della poesia» (p. 116).
A Franco Fortini riconosciamo il merito di aver accompagnato la propria instancabile attività di traduttore (e di poeta) con un’ampia riflessione sul senso di questo mestiere, come testimonia la densità e la (non sempre godibile) complessità dei contributi contenuti in questo volume.
Forse non poteva essere altrimenti. Chi traduce sa quanto sia complesso l’atto traduttivo e quanti e quanto diversi siano i fattori di cui si deve tenere e render conto. E con questa complessità di fattori Fortini si confronta, cimentandosi in una sintesi degli aspetti linguistici, stilistici, culturali, sociali, economici ed editoriali che condizionano il lavoro e le scelte del traduttore, traduttore che, secondo l’autore, deve necessariamente abbinare l’atto traduttivo a una solida riflessione metaletteraria, guardando il testo, e decostruendolo, con l’occhio del critico e del filologo.
Ma non finisce qui. Fortini dedica molto spazio al dialogo che si crea tra poeta, poeta-traduttore e poeta tradotto e sottolinea il ruolo incisivo che il tradurre ha avuto nella sua biografia intellettuale e letteraria. Ciò che oggi più ci colpisce è il suo riconoscere alle traduzioni un ruolo decisivo nell’evoluzione della cultura di un paese, nonché il merito di stimolare, sia pur indirettamente, trasformazioni cruciali nel sistema linguistico e letterario della cultura d’arrivo, grazie all’introduzione e all’innesto di nuove forme, generi e modelli letterari. Chi si occupa di teoria della traduzione riconoscerà analogie con il concetto di polisistema della scuola di Tel Aviv e con alcune posizioni post-strutturaliste dei Translation Studies. E in effetti Fortini ha attinto largamente dal lavoro di Henri Meschonnic (ci sono riferimenti espliciti allo studioso francese a pagina 113 e pagina 124), considerato uno degli anticipatori delle posizioni di Itamar Even-Zohar e della scuola israeliana.
Posizione, almeno all’epoca, sicuramente provocatoria, così come provocatoria è un’altra delle idee portanti di questo volume, ossia l’autonomia del testo tradotto rispetto al testo di partenza. Fortini riconosce alle traduzioni d’autore (ben diverse dalle traduzioni “di servizio” che sono sostanzialmente delle parafrasi dell’originale) lo status di opere nuove e autonome, il cui valore va misurato senza passare per il confronto con l’originale, e sferra un vero a proprio attacco al testo a fronte: «La traduzione col testo a fronte adempie alla funzione delle note […] Il testo a fronte è proprio di una cultura esplicativo-didattica, rivolta all’informazione» (p. 94) e può diventare «superfluo nel caso della traduzione d’autore, della ricreazione e imitazione e anche di tutti quei casi, frequentissimi nelle edizioni di classici, nei quali la distanza fra originale e versione rinvia silenziosamente a scelte dei traduttori che meglio si gioverebbero dell’assenza dell’originale. È come se si volesse fruire della vicinanza per mettere in maggiore evidenza la distanza» (p. 95) . Da qui alla formulazione di una “deontologia della traduzione poetica” il passo è breve e Fortini prosegue insistendo sull’importanza della resistenza al confronto:
Non c’è quasi mai studio su di un singolo testo di traduzione che ometta il confronto con il cosiddetto originale. […] Non di rado si trasforma il discorso critico nell’arbitraggio di una gara atletica […] A mio parere è opportuno distinguere ─ in vista di una critica della traduzione come momento fondamentale della ricerca sulla letteratura ─ fra la messa in confronto sincronico e diacronico di varie versioni di un medesimo testo nella quale circostanza, le questioni della “resa” dei singoli passi o nessi diventa illuminante e non l’assegnazione di premi di virtù o di abilità fondanti sul grado di maggiore o minore “somiglianza” fra testo di partenza e testo d’arrivo(p. 96)
e ancora più avanti: «Insisto fino all’esagerazione nella resistenza al confronto, luogo beato, delizioso confessionale dei traduttori e dei discorsi sulla traduzione» (p. 116)
Curioso dunque il fatto che dopo aver sviscerato e sezionato traduzioni d’autore, sue e di altri (Montale, Ungaretti, Quasimodo, Caproni, Luzi, Orelli…) Fortini scegliesse di concludere queste riflessioni mettendo in guardia i traduttori dai pericoli delle «trasposizioni creative» e invitandoli a «perseguire il minimo di soggettività e di invenzione poetica a favore del massimo del rigore filologico e storico» (p. 184) e consegnando al lettore la formula: «Soprattutto non troppo genio». (Per favore, non troppo genio è il titolo di un articolo di Fortini sulla traduzione poetica pubblicato sul «Corriere della Sera» il 10 agosto 1983)
L’energia intellettuale che attraversa queste lezioni è stupefacente ma talvolta anche sfiancante. Il lettore non ha tregua: puntiglioso e critico, meticoloso fino all’esasperazione nel vivisezionare esempi del lavoro proprio e altrui, Fortini attinge generosamente alla sua esperienza di traduttore, non si esime dall’autocritica («credo di non aver mai scritto endecasillabi e settenari così brutti e sbagliati come quelli» dice a p.181 riferendosi alle sue traduzioni per Poeti arabi di Sicilia, Mondadori, 1987), esibisce una straordinaria memoria poetica (esempi da versioni di Rimbaud, Góngora, Benn, Byron, Coleridge, Donne, Goethe), e quando riflette sulle varie forme di compensazione cui il poeta-traduttore può ricorrere per tentare di condurre una poesia da una lingua all’altra (soprattutto quando si deve rinunciare alla struttura metrica dell’originale), fa sfoggio di una straordinaria conoscenza e consapevolezza delle forme metrico-ritmiche.
Sono lezioni, queste, preziose, ma anche faticose, a tratti antipatiche come antipatico sapeva essere Fortini stesso quando sciabolava sentenze quali «chiunque è capace di riconoscere a occhi chiusi i montalismi nelle versioni di Montale e gli ungarettismi in quelle di Ungaretti» (p. 86). Ma è pur vero che siamo di fronte a testi non concepiti ed elaborati dall’autore per la pubblicazione. Le lezioni sono nate per essere ascoltate più che lette e certi passaggi inevitabilmente risentono dell’assenza di tutti quegli elementi che, per forza di cose, non si trovano nelle carte e restano confinati nelle registrazioni: «le digressioni, i toni del dibattito, l’affabulazione suggestiva di Fortini, a tratti anche i rumori della città – voci di bambini, il traffico del centro – che risuonano nelle stanze stuccate a oro del Palazzo Serra di Cassano» (Tirinato, p. 13), testimonianze che restituiscono ai lettori «un’istantanea preziosa della figura intellettuale di Fortini e della sua passione ininterrotta per la trasmissione culturale» (p. 12).