Vito Pandolfi

BRECHT E GLI ESPRESSIONISTI NEL TEATRO ITALIANO DEL DOPOGUERRA

di Raffaella Di Tizio

Con il suo impegno di regista teatrale, oltre che di critico, collaboratore e ispiratore di importanti progetti editoriali, Vito Pandolfi fu al centro della prima ricezione italiana di Bertolt Brecht e dell’espressionismo tedesco. Attivo nella resistenza clandestina, era divenuto famoso per la messinscena a Roma nel febbraio del 1943, con il regime ancora saldo al potere, di una personale e sovversiva versione della proibita Dreigroschenoper (1928). Nel dopoguerra svolse una fondamentale azione di divulgazione della drammaturgia tedesca in Italia, ma il suo ruolo di mediatore è stato solo parzialmente acquisito dalla storiografia. Un ritardo in qualche modo connesso alle dinamiche che lo portarono ad allontanarsi, dopo che aveva partecipato a esperienze come «Il Politecnico» di Vittorini e la nascita del Piccolo Teatro di Milano, dal centro riconosciuto della nuova cultura italiana.

Un’Opera da quattro soldi contro il regime fascista (1943)

Continuano a offuscare la vista gli effetti di una «vulgata storiografica che vuole il Piccolo di Milano predestinato all’incontro con Brecht» (Geraci 2015, 16). Anche per la costruzione di un monopolio di fatto sui diritti delle sue opere (Benedetto 2016), la sua ricezione italiana passò in gran parte, dagli anni cinquanta, attraverso l’azione culturale del teatro di Grassi e Strehler. Ma gli spettacoli del Piccolo non furono né i primi, né l’unica interpretazione possibile del teatro brechtiano. Studi recenti hanno riconosciuto l’azione di Vito Pandolfi come principale promotore, nel dopoguerra, dell’opera e delle idee del poeta, regista e drammaturgo tedesco (cfr. Bucciantini 2017, 64); minore attenzione è stata riservata alle sue regie, a cominciare da quella, rivoluzionaria per stile e contenuti, realizzata sfidando la censura in pieno regime fascista.

L’opera dello straccione, data al Teatro Argentina di Roma l’11 febbraio del 1943, era il saggio di diploma in regia di Pandolfi all’Accademia nazionale d’arte drammatica (l’innovativo istituto fondatoda Silvio d’Amico nel 1935, il primo dove era possibile apprendere il nuovo mestiere di regista teatrale). Vi era stato ammesso nel 1940, dopo aver lavorato per alcuni anni come maestro nell’Italia del Nord. Nato a Forte dei Marmi nel 1917, orfano del padre dall’età di dieci anni, e della madre, la scrittrice e attivista politica Ada Provera, a venti, era cresciuto per lo più in collegio. Nel 1937 aveva ottenuto il diploma magistrale, e già prima di allora aveva iniziato a insegnare in scuole di confine, a interessarsi di teatro e a pubblicare i primi articoli (Pandolfi 1957, 32). Si era poi avvicinato all’ambiente dei Gruppi universitari fascisti (Guf), partecipando ai Littoriali del 1938 e del 1941: spazi dove era possibile manifestare un certo anticonformismo, tanto che la sua seconda relazione, Teatro ed etica, era stata premiata senza che ne venisse colto il frondismo. Dal 1940 si era trasferito a Roma, e aveva iniziato a collaborare con la locale rivista del Guf romano «Roma Fascista». Nei suoi articoli aveva difeso l’idea di un teatro motivato da ragioni profonde, e che costituisse un intervento diretto sulla realtà: un teatro che evocasse, nell’Italia che si preparava all’entrata in guerra, la «conquista collettiva» di un futuro migliore di quello promesso dagli «orrendi tabù» (Pandolfi 1940). E, come precisò riferendosi ai maestri della regia straniera e ai filosofi dell’esistenzialismo – in polemica con l’ideologia teatrale di Silvio d’Amico, critico influente, fondatore dell’Accademia e suo professore di storia del teatro – dove il testo fosse trattato come uno dei contenuti dello spettacolo (cfr. Pandolfi 1941).

I suoi primi saggi (Pulcinella delle tre spose, 28 giugno 1941, e La danza della morte, 2 aprile 1942), furono composti di fonti testuali diverse e centrati su una commedia dell’arte intesa in senso grottesco, usata come spazio per la creatività degli attori. Il saggio finale, realizzato con il sostegno del maestro di regia Guido Salvini, e con la collaborazione creativa di Roman Vlad per le partiture musicali e di Toti Scialoja per costumi e scenari, avrebbe dovuto recare il titolo L’opera da quattro soldi, che ancora si può intravedere, prudentemente cancellato da un fitto tratto di penna, sul copione originale (custodito nel Fondo Pandolfi presso il Museo Biblioteca dell’Attore di Genova). Era con questo nome, ricalcato dal francese, che la Dreigroschenoper era nota: L’opéra de quat’sous era il titolo della versione per la Francia del film realizzato in Germania da Pabst nel 1931, e della messinscena data un anno prima a Parigi da Gaston Baty (al Théâtre Montparnasse, nella traduzione di Nicole Steinhof e André Mauprey). Anche l’Italia aveva avuto una sua versione dell’opera, sull’onda del suo successo internazionale: l’avevano realizzata nel 1930 per Anton Giulio Bragaglia Alberto Spaini e Corrado Alvaro, traducendo rispettivamente prosa e Songs dell’originale. La veglia dei lestofanti, come venne intitolata, era la prima messinscena del direttore dello sperimentale Teatro degli Indipendenti di Roma a essere portata di fronte a un vasto pubblico (a Milano e poi in tournée nell’Italia settentrionale). Fu uno spettacolo colorito e ricco di effetti (probabilmente ricalcati in gran parte sulla versione berlinese di Erich Engel – cfr. Di Tizio 2018, 243 ss.), ma non ebbe l’esito sperato: mancava, scrisse un critico autorevole come Renato Simoni, quel «fermento d’odio di classe» con cui Brecht aveva mutato la sua fonte, la Beggar’s opera (1728) di John Gay, ne «l’opera dei poveri contrapposti minacciosamente ai ricchi», e, eliminato il senso politico, era venuto meno qualunque possibile significato (Simoni 1930).

Di Brecht in Italia, dopo un primo intervento critico di Enrico Rocca nel 1932 su «Scenario» (a. I, n. 2, marzo 1932, 3-7), non si era parlato più molto, specialmente dopo che, nel 1933, era stato costretto all’esilio con la presa del potere di Hitler. In quell’anno ne scrisse Spaini nel suo Il teatro tedesco (Milano, Treves, 1933), e venne allestita Mahagonny, per un piccolo uditorio e in presenza di Weill, all’Accademia di Santa Cecilia di Roma. Il nome di Brecht (già presente nel 1932 alla voce Letteratura–Germania scritta da Gabetti) comparve anche nel trentesimo volume dell’Enciclopedia italiana diretta da Gentile, come espressionista in lotta contro «la tirannia e le viltà del mondo “borghese”» nella voce Satira di Ferdinando Neri (cfr. Barbon 1987, 31, 37). Ma non fu certo più il caso di parlarne dopo la svolta della proclamazione dell’impero e della guerra di Spagna, nel 1936, in seguito alla quale il regime fascista si legò strettamente a quello nazista. Un’eccezione minima – permessa dal più ampio margine lasciato dalla censura fascista alla musica – dovette essere l’esibizione nel 1940 all’Accademia di Santa Cecilia della figlia di Wedekind, con canzoni dalla Dreigroschenoper (cfr. Lista 1979, 200). L’interesse per Brecht poteva scorrere ora solo sotto la superficie dell’ufficialità fascista.

Quando Pandolfi, già impegnato in attività antifascista clandestina, realizzò in piena guerra il suo adattamento del testo, fece parlare esplicitamente i suoi personaggi di un «contrabbando tra cultura e cultura» (L’opera dello straccione, in MBA, I, fasc. 32). I compagni di Mac (Mackie Messer) erano qui un gruppo di contrabbandieri che agiva sulla Manica. Nella prima scena il bandito, detto «il Bel Pirata», era il solo a salvarsi dal naufragio di una nave sul mare in tempesta – simbolo dei giovani mandati a morire in una guerra di cui non si riusciva a vedere la fine. Si trattava di una riscrittura libera che, non potendo rifarsi apertamente a Brecht, era partita dalla sua fonte, The Beggar’s Opera di John Gay, nella traduzione che Riccardo Aragno aveva fornito in precedenza a Silvio D’Amico (Mazzella 2000, 128), ma se ne era poi visibilmente distaccata per arrivare a un nuovo testo. In controluce tra criminali e prostitute, tra le storie d’amore di Mac, tra i momenti comici e grotteschi, tra la sua incarcerazione e le sue fughe, si poteva osservare l’azione di un gruppo di ribelli alla dittatura pronti all’insurrezione.
Di traduzioni dirette dall’Opera da tre soldi nel copione se ne trovano necessariamente poche, eppure il senso generale fu chiaro, tanto che Vinicio Marinucci, pubblicando la sua traduzione della Beggar’s Opera – L’opera dei mendicanti ― per «Il Dramma» nel maggio del 1943, realizzata col dichiarato intento di liberare il lavoro inglese dalla «vernice propagandistica applicatavi dal rifacimento» tedesco, sentì il dovere di citare L’opera dello straccione per criticare le sue «reminiscenze» da Brecht e denunciarne il carattere «inspiegabilmente espressionista» (Marinucci 1943, 26-27). Una parentela su cui nell’immediato avevano invece prudentemente taciuto le cronache, lasciando intuire solo qualche velata allusione. Come quella di Achille Fiocco, che attribuì allo spettacolo «un’atmosfera di varietà internazionale 1928» unita a un generale «tono messianico, di palingenesi sociale» (Fiocco 1943).

Il titolo di Brecht, assente dal libretto di sala, tornava in realtà a spuntare tra le parole di una scena corrispondente al dialogo tra il Beggar e il Player che avviene all’inizio dell’Opera del mendicante. Preceduto dal naufragio della nave di Mac (con effetti di tuoni e lampi e scene espressioniste di Toti Scialoja) e dalla descrizione di questa stessa vicenda su cartelli appesi sulle spalle dei suoi Straccione e Suonatrice, questo momento univa dirette allusioni all’Italia contemporanea e alla Dreigroschenoper. Nel giro di poche veloci battute, si ripeteva che l’opera a cui si stava per assistere era stata scritta «tanto per far quattro soldi», «per raccogliere quattro soldi d’elemosina», «e berceli su… questi quattro soldi» (Pandolfi 1943, I, 3). Un riferimento chiaro per gli spettatori più informati, che avrebbero presto riconosciuto anche versi di Villon – altra nota fonte di Brecht – o echi diretti dei suoi Songs, come una riscrittura dell’Eifersuchtsduett (indicato nel copione come Duetto delle donne gelose) per cui Vlad (che dirigeva la piccola orchestra davanti al palco) aveva composto una partitura ricca di salti di tono, alternata tra canto e frasi rapidamente parlate, che doveva chiaramente rievocare le dissonanze di Weill (cfr. Vlad 1943).

La messinscena, giocosa e grottesca, ricordava le famose regie di Mejerchol’d e di Vachtangov, con grande uso del movimento e una recitazione sostenuta e ritmata dalla partitura musicale. A richiamare Brecht vi era più di un diretto riferimento: dallo stile dei costumi ai cartelli, dai frammenti dei suoi Songs a momenti di recitazione straniata (come una Canzone sceneggiata in cui Lucy e Polly ripercorrono gli eventi che hanno portato alla condanna di Mac – cfr. Pandolfi 1943, II, 28). Nel frattempo, però, si adombravano nei personaggi – riprendendo da Gay le caricature esplicite dei potenti del suo tempo – personalità in vista del potere fascista. In una prima versione del copione (visibile sulla partitura di Vlad conclusa il 6 febbraio 1943 – oggi custodita nell’Istituto per la Musica della Fondazione Giorgio Cini di Venezia) i coniugi Peachum si chiamavano Rachele e Volpini, diretto richiamo alla moglie di Mussolini e a Volpi di Misurata (allora presidente di Confindustria e membro del Gran Consiglio del Fascismo, cfr. Vlad 2011, 38-39). Questi nomi, poi scomparsi dal testo, dovettero costituire una traccia importante per la recitazione degli attori. Particolarmente evidente fu il modo in cui Carlo Mazzarella, interprete di Lord Catena, capo di stato maggiore dei carcerieri, parodiò pose e atteggiamenti mussoliniani: un momento che fu accolto dall’ovazione del pubblico, e che fece sì che Ruggero Zangrandi, nel suo Lungo viaggio attraverso il fascismo, ricordasse lo spettacolo come uno degli atti materialmente compiuti dai giovani contro il regime e lo stato di guerra (cfr. Zangrandi 1947, 555). Sulla scenografia di Scialoja si leggevano scritte come «Liberty is delicious», «Tra ricchi non si impicchi», «Tutti i nodi vengono alla gola». E all’inizio Mac, interpretato dall’allievo attore Vittorio Gassman, apostrofava i suoi compagni militarmente: si sarebbero rivelati alla fine una vera e propria banda di partigiani, in grado di portare in scena in catene i propri persecutori.

Sono caratteristiche che sembrerebbero allontanare il testo dalla centralità del riferimento brechtiano. Se non fosse che l’intero adattamento – definito nel sottotitolo «a modo di leggenda popolare» – può essere letto come una precisa teatralizzazione del canto della Seeräuber Jenny (Jenny dei pirati), della sua cupa minaccia e esigenza di rivolta, secondo un’interpretazione singolarmente simile a quella che sui «Musikblätter des Anbruch» aveva dato Ernst Bloch (1929), immaginando come sarebbe stata la Dreigroschenoper se davvero nel finale fossero arrivati i pirati evocati da Jenny a capovolgere l’ordine sociale (cfr. Di Tizio 2018, 322 ss.). Pandolfi, distaccandosi da entrambe le principali fonti (a cui aveva inframmezzato suggestioni surrealiste, versi di Apollinaire e di Robert Burns nella traduzione di Mario Praz), invece farà impiccare il pirata Mac, ma proprio questa morte servirà a scatenare in scena la rivoluzione.

Non è certo se Pandolfi abbia assistito, come altri a quel tempo, a proiezioni private del film di Pabst. Da un articolo che scrisse nel 1948, quando poté incontrare Brecht di persona, sappiamo che conosceva bene i dischi dell’Oper, che circolavano clandestinamente, e che aveva potuto leggere un articolo su di lui su una rivista austriaca, pubblicata nel periodo dei successi della Dreigroschenoper e di Mahagonny (Pandolfi 1948, 48). Si tratta forse proprio del giornale viennese su cui aveva scritto Bloch. Furono queste, con ogni probabilità, le fonti della sua libera rielaborazione, dove scene come quella del matrimonio (inserita da Brecht e del tutto assente in Gay) erano reinventate unendo suggestioni surrealiste a un clima denso di molteplici riferimenti culturali e visivi.

Un insieme di elementi che è stato facile sottovalutare col senno del poi, quando, dopo il suo ritorno in Europa, si è via via precisata una conoscenza filologica di Brecht e della sua opera (cfr. ad es. Squarzina 1990, 25). Ma negli anni della seconda guerra mondiale, quando l’autore era lontano e proibito, L’opera dello straccione costituì un fondamentale contributo al primo contatto dei giovani con il suo lavoro. Lo ammise, seppur con riserva e in via di ipotesi, anche Paolo Chiarini nel 1961 sul secondo dei «Quaderni del Piccolo Teatro» di Milano, attribuendo però più importanza per l’inizio della conoscenza di Brecht in Italia alla collana diretta da Paolo Grassi dal 1944 per la Rosa e Ballo, a cui ricondusse anche la scoperta «degli espressionisti, con Toller e Kaiser, oltre al “precursore” Wedekind» (Chiarini 1961, 11). Si vedrà tra poco quanto Pandolfi avesse avuto a che fare anche con queste pubblicazioni, esercitando influenze culturali non sempre facilmente tracciabili attraverso il filo delle testimonianze e della scrittura.

La messa in scena dell’Opera dello straccione fu determinante per la conoscenza di Brecht. Fu la prima tematizzazione di quel nesso tra Brecht e resistenza che Paola Barbon ha identificato come caratteristica peculiare della sua ricezione italiana (cfr. Barbon 1987, 39-41). E mentre si distanziava, dovendo avvalersi di fonti parziali e indirette, dalla lettera del testo, muovendosi all’opposto della rappresentazione curata nel 1930 da Bragaglia, fu la prima resa scenica della forza politica del teatro brechtiano.

Brecht e gli espressionisti: Rosa e Ballo, Einaudi e «Il Politecnico» (1943-1948)

Era nota la conoscenza dell’espressionismo tedesco di Pandolfi, che più volte aveva scritto dei suoi autori sulle pagine di «Roma Fascista». Fu però certo l’eco suscitata dall’Opera dello straccione, subito proibita dalla censura, a fare sì che il suo nome cominciasse ad affermarsi. Pochi mesi dopo, il 25 luglio, cadde il governo di Mussolini. Si iniziò allora a lavorare per una nuova cultura, senza immaginare di avere ancora di fronte la parte più dura della guerra. Pochi giorni prima dell’armistizio Pandolfi fu contattato da Paolo Grassi, in cerca di traduzioni per la collana «Teatro moderno» che aveva appena inaugurato con la casa editrice Rosa e Ballo di Milano. Gli propose Erdgeist (Spirito della terra, 1895) di Wedekind, Antigone (1916) di Hasenclever, Vatermord (Parricidio, 1922) di Bronnen e Trommeln in der Nacht (Tamburi nella notte, 1922) di Brecht, opere che aveva, come scrisse, già a disposizione, e parlò anche di Die Büchse der Pandora (Il vaso di Pandora, 1904), già affidata però ad altro editore (cfr. Sisto 2019, 291, che cita una lettera di Pandolfi a Grassi del 2 settembre 1943). La contrattazione fu probabilmente interrotta per via dell’occupazione tedesca: Pandolfi, che con altri ex allievi dell’Accademia si era preparato alla lotta armata, in ottobre fu arrestato e interrogato a Palazzo Braschi. Tentò la fuga saltando da una finestra, e la caduta – che ebbe pesanti conseguenze sulla sua salute, rovinandogli per sempre l’uso di un braccio – gli permise di avvisare, grazie a un’infermiera in ospedale, le persone di cui aveva letto i nomi su una lista della polizia fascista, salvando molti dalla deportazione (tra loro Carlo Lizzani e il padre di Laura Martucci, che sarebbe di lì a poco diventata sua moglie). Seguirono mesi convulsi, in cui lottò come agit-prop del partito comunista, venne nuovamente incarcerato, per uscire infine di prigione il 4 giugno del 1944, al momento della ritirata dei tedeschi.

Iniziò allora un periodo di intenso lavoro: in settembre gli fu offerta la critica teatrale sull’«Unità» di Roma, che accettò con l’orgoglio di «succedere idealmente a Gobetti e Gramsci» (Pandolfi 1957, 216). Poi cominciarono le prime regie professionali, con attori importanti e testi di immediato significato sociale: in novembre Jegor Bulycov e gli altri, del 1932, di Gor’kij tradotta da Ettore Lo Gatto (Gor’kij 1944), con Carlo Ninchi e Anna Magnani; nel febbraio 1945 la prima italiana di La luna è tramontata di Steinbeck – The moon is down, 1942, nella versione di Pilade e Paolina Vecchietti (Steinbeck 1946) – con la compagnia di Ruggero Ruggeri, entrambe al teatro Quirino.

Per la collana di Grassi uscì a sua firma, nel 1945, solo l’introduzione a Uomo massa (Masse Mensch, 1920) di Toller tradotto da Emilio Castellani. Era un altro dei testi che Pandolfi aveva proposto, insieme a L’opera da quattro soldi di Brecht (cfr. Sisto 2019, 291), mentre Il vaso di Pandora fu poi pubblicato nel 1947 su «Il Dramma» (n. 42-43-44, 1 e 15 agosto/1 settembre 1947, 14-44), tradotto da Laura Pandolfi e introdotto dall’articolo di Vito Lulù, peccatrice di troppa umanità (pp. 12-13). Sia Laura che sua sorella Lia (Emilia) Martucci furono fondamentali per l’azione di mediatore di Pandolfi. Figlie dell’ufficiale di marina ebreo Aldo Levi, avevano assunto il cognome materno per sfuggire alle persecuzioni razziali. Di vasta cultura, conoscevano perfettamente la lingua per essere state cresciute da una tata tedesca: Lia aveva anche partecipato, cantando come soprano, agli ultimi saggi d’Accademia di Vito. Entrambe collaborarono attivamente alle sue traduzioni, a partire, forse, da quella del Manichino tragico (ovvero Melück Maria Blainville, die Hausprophetin aus Arabien, 1812) di Achim von Arnim, da lui pubblicata nel 1942 con introduzione di Albert Béguin, a Roma per l’Istituto Grafico Tiberino.

Il suo impegno nella divulgazione della letteratura teatrale straniera era parte di un progetto culturale più ampio: la ricerca, come aveva fatto intendere su «Roma Fascista», di un teatro in grado di intervenire nella Storia, e che fosse necessario per la società e per il singolo. Il dopoguerra fu il momento per riprendere queste idee a voce aperta: lo fece collaborando a riviste come «Teatro», «Società», «Cultura sovietica», ma soprattutto partecipando dalla fondazione al «Politecnico» di Elio Vittorini, quando, nel 1945, passò alla redazione milanese dell’ «Unità», e formò con Franco Calamandrei, Franco Fortini, Albe Steiner e poi Stefano Terra la redazione della nuova rivista edita da Einaudi.

Nello stesso anno, insieme a Vittorini, sollecitò la casa editrice torinese a richiedere i diritti delle opere di Brecht. Pensava a Trommeln in der Nacht (Tamburi nella notte) e a Die Dreigroschenoper (Mangoni 1999, 224-25 e 490 n.): gli stessi testi che – a fronte di una conoscenza ancora parziale della sua drammaturgia – indicò come i maggiori del drammaturgo tedesco nel numero del 1° dicembre del 1945 del «Politecnico», dedicato alla Germania. Per questo fascicolo aveva organizzato alcune pagine sulla Repubblica di Weimar: senza firmare, ma dichiarando l’«aiuto prezioso» avuto da Emilio Castellani, vi pubblicò La ballata del soldato morto (Ballade vom toten Soldaten, 1922) di Brecht; un lungo brano tratto dall’autobiografia di Toller Eine Jugend in Deutschland (Una giovinezza in Germania, 1933), che, annunciava, doveva essere presto tradotta (uscirà per la Einaudi, con traduzione di Castellani, solo nel 1972); un testo di Kurt Tucholsky con fotografie di John Heartfield (Monologo del paese povero ovvero Statistiche tedesche del 1919, da Statistik in Deutschland, Deutschland über alles, 1929) e disegni di George Grosz sulla borghesia tedesca. Iniziava così a far conoscere grandi autori proibiti dal nazismo, gli stessi, come si dirà a breve, che avrebbe voluto far pubblicare da Einaudi.

La prima delle opere brechtiane tradotte in Italia fu, com’è noto, la Dreigroschenoper, introdotta e tradotta da Emilio Castellani col titolo L’opera da tre soldi per Rosa e Ballo nel 1946. Nel gennaio dello stesso anno, sulla prima pagina di un numero del «Politecnico» sul tema del colonialismo (n. 15, 5 gennaio 1946), Pandolfi pubblicò la traduzione del Canto della merce e del mercante (Lied des Händlers oder Song von der Ware, da Die Maßnahme – La linea di condotta – 1930): di Brecht sottolineava ora l’impegno nella lotta al nazifascismo e l’adesione al comunismo. La sua ballata è posta a commento di argomenti più generali, un valore d’uso che ne influenza anche la traduzione (cfr. Barbon 1987, 51-53). Nella presentazione c’è qualche inesattezza, una spinta dell’autore verso posizioni di lotta aperta e precisa adesione politica: ma è forse anche una scelta strategica, dato che questa prima divulgazione di Brecht avveniva in una fase in cui, avendo scelto «l’esilio americano invece di quello sovietico», era guardato con sospetto dal partito comunista (Lucignani 1990, 22).

Allora Pandolfi stava anche curando i rapporti di Einaudi con l’editore di Brecht, l’Aurora Verlag di New York diretta da Wieland Herzfelde. L’idea era di aprire alle opere teatrali la collana «Universale Einaudi», per cui era pronto a occuparsi anche dei diritti dei drammi di Toller Hoppla, wir leben! (Oplà, noi viviamo!, 1927), Hinkemann (Il mutilato, 1923) e Masse-Mensch (Uomo massa, 1920): ma la proposta venne bocciata dalla sezione torinese del consiglio editoriale, decisa a mettere «in guardia dall’inclusione di opere troppo sperimentali» e di «troppo teatro» (cfr. Bucciantini 2017, 60). Così la Einaudi arriverà a pubblicare Brecht solo nel 1951.

Pandolfi continuava intanto la sua opera per diffondere la conoscenza dell’autore. Nel «Politecnico» numero 20 del 9 febbraio 1946, all’interno di un articolo su Il teatro drammatico in Italia, inserì lo schema del teatro epico. Il testo, tradotto con qualche libertà, appare in un riquadro intitolato Verso il nostro teatro, introdotto da una didascalia che spiega che Brecht, studiando «a lungo la struttura e le possibilità dello spettacolo», ha espresso «termini che sono validi per tutto il teatro contemporaneo e aprono un largo cammino verso il futuro». Non vi sono riferimenti al contesto originale (le Anmerkungen zu »Aufstieg und Fall der Stadt Mahagonny«, cioè le Osservazioni circa Ascesa e caduta della città di Mahagonny, del 1930), ma non è un caso. Lo scopo di Pandolfi non era quello di analizzare la poetica di Brecht, ma di mostrare come fosse possibile, attraverso il suo metodo, lavorare a un teatro che sia «nazionale e attuale». Come esempio virtuoso riporta, a conclusione del pezzo, una fotografia della messinscena berlinese di Die Massnahme (La linea di condotta), annunciando la pubblicazione di alcuni cori. Seguì invece, sul «Politecnico» del 6 aprile del 1946 (l’ultimo fascicolo uscito come settimanale), la scena finale di Tamburi della notte: presentata come testimonianza poetica delle ragioni del fallimento della rivoluzione spartachista, in una mezza pagina, senza firme, è accompagnata anche dalla traduzione di Der tote Liebknecht (Liebknecht morto, 1919) di Rudolf Leonhard (l’iniziale del nome però è qui una W., forse per imprecisione delle fonti utilizzate).

Pandolfi scrive poi Fisionomia di Bertolt Brecht per «Il Politecnico» n. 31-32 (luglio-agosto 1946, pp. 63-64), un approfondito intervento che riprende e amplia un pezzo pubblicato sul primo numero di «Sipario», uscito in maggio (Vicende della vita e dell’opera di Brecht, pp. 40-41). Qui si trovano notizie della produzione degli anni dell’esilio e una prima interpretazione del suo percorso artistico e umano. Nel testo Pandolfi inserisce la traduzione di alcune poesie, presentate anche in lingua originale (Lob des Kommunismus, Bericht über den Tod eines Genossen, e Ein Bericht, cfr. Barbon 1987, 57). Per lo stesso fascicolo firma, nelle prime pagine, un lungo saggio sul Perché non c’è un repertorio italiano (13-22): qui, accanto al testo, inserisce una successione eterogenea di citazioni – dal Discorso di Bhâratâ (dall’antico testo sanscrito sul teatro Nātyaśāstra) a Freud, da Aristotele a Goethe e Kierkegaard, da Marx a Nietzsche, per finire con un brano dal Manifesto del teatro della crudeltà (Manifeste du théâtre de la cruauté, 1932) di Antonin Artaud (allora inedito in italiano: cfr. Trezzini 1990, 100), un frammento sul teatro epico di Brecht (dalle Note a «La Madre») e uno stralcio da Le mythe de Sisyphe (1942) di Camus. Non si preoccupa di precisare le fonti: i frammenti, collocati in margine, sono un complemento del suo discorso, che è dedicato a spiegare come la scena sia il luogo di una possibile pratica azione all’interno della realtà, e come la mancanza di un valido repertorio in Italia sia segno «di una impotenza sociale protratta nei secoli» (p. 13). In questa storia del teatro nazionale, dove viene stabilito un preciso nesso tra arte e rivoluzione, le citazioni, compresa quella di Brecht, servono soprattutto come prova dell’esistenza di un diverso teatro possibile.

Mentre divulga sul «Politecnico» la prima immagine di Brecht, Pandolfi sta anche precisando cosa debba e possa essere il teatro nella società italiana.

Incontro e corrispondenza con Brecht (1947-1950)

L’azione di Pandolfi fu fondamentale per una presa di coscienza del valore dell’opera di Brecht. Nel 1947 su «Il Dramma», di cui fu dal 1946 al 1964 tra i principali collaboratori (Cavaglieri 2017, 91) lo presentò spiegando che il suo nome significava per il teatro europeo quello che Stravinskij era per la musica e Picasso per la pittura: Brecht era l’inventore, quindi, di una nuova sintassi per l’arte della scena. Avvertì dell’importanza del suo lavoro anche come regista, e iniziò a ragionare su cosa fosse il suo “teatro epico”, «una specie di sintesi di poesia, concetti moderni sul teatro e materialismo storico», invisa ai nazisti perché «faceva sorgere nella mente degli spettatori la comprensione di concetti e pensieri che essi avevano tutto l’interesse a evitare» (Pandolfi 1947, 51). Approfondì le notizie sulle tappe del suo esilio, sulle rappresentazioni e edizioni delle sue opere (a partire da quelle distrutte dal nazismo) e sui nuovi lavori (come Die Geschäfte des Herrn Julius Caesar [Gli affari del signor Giulio Cesare], in corso di scrittura). E spiegò che i suoi testi, che univano «una profonda critica sociale» all’appello «ad una umanità oppressa e ingannata», erano «una grande espressione di quelle forze che, non essendosi lasciate sopprimere dal fascismo e dalla reazione, [conducevano] la lotta per una nuova era “in cui l’uomo non sia più lupo per l’altro uomo”» (p. 52). Pandolfi sentiva di combattere la stessa battaglia, e non appena Brecht poté tornare in Europa, si adoperò per incontrarlo.

Lo conobbe all’inizio del 1948. Del modo in cui l’incontro fu organizzato restano tracce interessanti nel Bertolt-Brecht-Archiv (BBA), a Berlino: tramite ne fu lo scrittore austriaco Franz Theodor Csokor, il quale in gennaio scrisse a Brecht da Roma annunciandogli la visita di ein junger italienischer Kritiker bei Politecnico, che intendeva cercare di portare Die Massnahme (La linea di condotta) al Maggio Musicale fiorentino: gli era stata affidata la regia della Dreigroschenoper alla Fenice di Venezia e  avrebbe anche volentieri messo in scena il Galilei. Quella che gli proponeva era una conversazione potenzialmente fruttuosa (Jedenfalls wird die Unterhaltung mit ihm für Sie fruchtbar sein können –BBA 1185/067-68). L’archivio conserva anche un biglietto di Pandolfi a Brecht, del 7 gennaio 1948 (BBA 1185/069): scrivendo in francese (se ne scusava, dicendo che conosceva il tedesco, ma che non trovava facile scriverlo), gli chiedeva un appuntamento, spiegando di doversi recare a Lugano per delle conferenze e che sarebbe passato volentieri da lui a Zurigo per le ragioni che il signor Csokor aveva spiegato nella sua lettera. Gli proponeva un’intervista per «Il Politecnico» e per «Il Dramma», e con orgoglio raccontava di essere stato il primo a occuparsi del suo lavoro in Italia, di aver spesso tradotto, scritto, parlato di lui in conferenze e alla radio: da anni desiderava fare la sua conoscenza, per poter apprendere da lui quello che aveva imparato dalla sua opera, che considerava la più viva e potente del teatro moderno, e che era stata di primaria importanza per la sua formazione umana.

Dell’incontro, avvenuto poco tempo dopo nella sede dell’Artemis Verlag, presso lo Schauspielhaus di Zurigo, Pandolfi riferì su «Il Dramma» (Pandolfi 1948). Riconosce Brecht immediatamente per aver visto una sua foto di vent’anni prima su una vecchia rivista austriaca. Lo colpiscono il suo aspetto, la sua modestia e il suo rigore. Allora il suo sguardo gli era apparso «vivo e aggressivo»: ora nei suoi lineamenti vede «un senso di carità umana, penetrato di dolore e forse di amarezza» (p. 48). Descrivendo la conversazione, proseguita fino a tarda sera in un caffè, mostra anche i suoi pensieri: si chiede se Brecht potrà mai immaginare cosa abbia voluto dire la progressiva scoperta del suo lavoro, il significato che ha avuto per la sua generazione. E descrive l’ascolto, all’inizio della guerra, «dei dischi dell’Opera da quattro soldi», quando, mentre si sentiva l’approssimarsi della catastrofe senza riuscire a immaginare una possibile via d’uscita, Mackie Messer «con il suo coltello dava il segnale della rivolta» (p. 48). Per chi lottava contro il regime, «l’eroe di Brecht» era un simbolo in cui era possibile riconoscersi. Ma questo simbolo, ora, apparteneva al passato.

Pandolfi aveva descritto l’opera di Brecht ponendola di fronte all’orizzonte di una rivoluzione possibile. Qualcosa, ai tempi di questo articolo, era cambiato. Come non si aspettava scrivendogli nel gennaio del 1948, il numero 39 del dicembre 1947 fu l’ultimo de «Il Politecnico», indebolito nelle sue ragioni essenziali dalla nota polemica tra Vittorini e il segretario generale del Pci Togliatti. Pandolfi nel giugno precedente aveva lasciato «l’Unità» e nello stesso anno, come si dirà, gli spettacoli di intervento sociale in cui credeva si erano rivelati irrealizzabili all’interno dello stabile, il Piccolo Teatro di Milano, che aveva contribuito a fondare.

Ora, in quest’articolo-intervista, parla di un Brecht che «non ha più illusioni. Ma non per questo ha mutato atteggiamento». Racconta che «detesta ogni forma di professionalismo», preoccupandosi, più che della messinscena delle sue opere, «di vederle ben rappresentate, e cioè affidate a una regia che abbia una fondamentale affinità ideologica con il suo pensiero» (p. 48). E chiarisce che questo pensiero è un marxismo che «parte dai presupposti di Rosa Luxemburg», ben lontano dalle chiuse posizioni correnti. Pandolfi, che era stato iscritto solo per breve tempo al partito comunista, credeva in un marxismo inteso come ricerca. Erano gli ideali su cui si era fondata l’esperienza della rivista di Vittorini, e che avrebbero continuato a far parte del suo impegno di regista, critico e studioso.
In questo ritratto di Brecht, in cui evocava anche le proprie battaglie, traspare forte la delusione per quello che, con il finire della guerra, non era avvenuto: «Si pensava possibile una nuova dimensione delle cose, dei rapporti sociali e morali: come se si avesse il proprio destino nelle mani. Invece era di altri, come alienato» (p. 49). Brecht gli parla di un’arte che è sempre espressione di «interessi e ideologie in lotta, mascherati da una falsa indipendenza della fantasia», parole che Pandolfi accoglie come la autentica rivelazione dello scopo del suo teatro. L’opera di Brecht, scrive, si può dividere in due fasi: da drammi costruiti come teoremi, in grado di inchiodare la realtà, scritti quando la lotta aperta era possibile, alle opere della maturità, che si servono di epoche e civiltà lontane per rivelare le forze che determinano la storia. Ma più difficile sembra l’azione nel presente, dopo la fine delle dittature e il ritorno all’ordine dei partiti, come lasciano comprendere le sue domande inespresse:

In passato ci poteva sgomentare la difficoltà della lotta. Ora, è il modo, il luogo, l’esplicazione. Ma a questo né il nostro amico né noi abbiamo accennato nel discorso. Quello che più importa, come sempre, non si è potuto dire. […] Eppure, non ci aveva lasciato senza risposta. […] Bastava che pensassi ancora alla coerenza della sua vita e del suo lavoro. Il teatro è il paradigma scelto da Brecht, perché il più adatto agli scopi di riforma interiore dell’uomo – attraverso la riforma della struttura sociale – che si è prefisso in forma rivoluzionaria, dal crollo del primo Reich.

Brecht ha individuato «una tra le fisionomie possibili» del teatro. E serve con coerenza «la sua causa in ogni gesto», gli stessi gesti con cui, conclude Pandolfi, ha potuto mimare con estrema chiarezza il Galileo davanti a Laughton, nonostante le difficoltà linguistiche (p. 49). Appena prima di questa conclusione l’articolo riporta i versi del coro finale de La linea di condotta: «Cambia il mondo, ne ha bisogno! /[…] / Comprendere l’uno, comprendere l’intero: / addestrati dalla realtà, ora possiamo / trasformare la realtà».

Pandolfi scrisse di nuovo a Brecht l’8 luglio 1950 (BBA 0774, Korrespondenz diverse Auslandspost 035), questa volta in tedesco, dando conto anche di altri pezzi che aveva dedicato al loro incontro (a cui era presente, come qui si legge, anche sua moglie Laura). Gli raccontò di averne parlato su «Sipario», «Mondo operaio», «Vie nuove», e nei quotidiani «Il Nuovo Corriere» e «Paese Sera», rendendo evidente il suo impegno nella divulgazione della sua opera e del suo pensiero teatrale. Ma la lettera era dovuta principalmente all’offerta fattagli da «Botteghe Oscure», rivista che –spiegò – conteneva in ogni numero testi inediti dei più importanti scrittori stranieri viventi, di pubblicare un lavoro tedesco con traduzione di sua moglie, che con lui aveva già reso, tra altri, testi di Wedekind, Toller, Karl Kraus e Franz Kafka. Si riferiva a pubblicazioni avvenute su «Il Dramma»: Apokalypse di Karl Kraus era apparso col titolo Ultima notte dell’uomo sul fascicolo n. 115-116 (1° settembre 1940, pp. 112-118), senza firma di traduttore ma con introduzione di Vito Pandolfi; Lulù, Spirito della terra e Vaso di Pandora di Wedekind erano usciti sul numero 42-43-44 del 1947, 14-44, con traduzione di Laura Pandolfi, che aveva curato anche una scena di Kafka, Guardiano alla tomba, per il n. 70 (1° ottobre 1948, pp. 49-56). Pandolfi raccontava quindi a Brecht di aver ricevuto dal suo editore, seguendo le sue istruzioni, il manoscritto di Der gute Mensch von Sezuan (L’anima buona del Sezuan, 1943) e chiedeva il permesso di pubblicarlo, con il consenso di Einaudi, detentore dei diritti.

La lettera testimoniava anche del suo contatto con il critico e regista americano Eric Bentley, con cui aveva parlato spesso di una possibile messinscena italiana degli ultimi lavori teatrali di Brecht, ostacolata da difficoltà pratiche, ma auspicata da aller Kulturleute Italiens. La risposta, positiva, è datata 18 luglio 1950 ed è firmata, su carta intestata del Berliner Ensemble, da Ilse Kasprowiak: vi era però richiesta un’ulteriore conferma di Einaudi, un lasciapassare che forse non fu concesso. Il quaderno VI, II semestre 1950 ,di «Botteghe Oscure» contiene una traduzione dell’opera, ma in francese, firmata da Jeanne Sterne (pp. 199-312).

Maggior successo ebbero le trattative condotte dall’editore Guanda nel 1954 con la Surkhamp per i diritti di Trommeln in der Nacht, in vista di un’antologia di dieci drammi dell’espressionismo tedesco ancora sconosciuti in Italia (Ugo Guanda a Suhrkamp, Parma, 19 giugno 1954, in BBA 788, Korrespondenz Suhrkamp Verlag 1954/33): Übersetzer wird Dott. Vito Pandolfi, der dem Autor schon bekannt ist: Traduttore sarà il dott. Vito Pandolfi, già noto all’Autore).

Traduzioni e interpretazioni dell’espressionismo tedesco (1947-1956)

Dopo la bocciatura della proposta di inserire opere teatrali nell’«Universale Einaudi», la traduzione di Hinkemann ossia Il Mutilato, di Toller, realizzata insieme a Laura Martucci Pandolfi, uscì su «Il Dramma» nel 1947. L’introduzione, Vita e morte del teatro tedesco espressionista, porta la significativa data 25 aprile 1945, e riprende un saggio pubblicato appena dopo la guerra su «Società» (Pandolfi 1945). L’analisi di Pandolfi è dedicata a mostrare, a fronte della deriva nazista, «l’esistenza di una Germania razionale, democratica, illuminista» (p. 6). È chiusa da una nota sulla difficoltà nel reperimento dei testi («In Italia è molto difficile poter leggere le principali opere del teatro espressionista. L’ho potuto fare solo nel giro di diversi anni, da un’occasione all’altra, e certo in modo incompleto») e sulla scarsa disponibilità di opere critiche: Pandolfi cita l’antologia Le théâtre allemand d’aujourd’hui, pubblicata da Gallimard nel 1934, e, per la Germania, Anarchia nel dramma di Bernhard Diebold (Diebhold 1921), Il mondo nel dramma di Alfred Kerr (Kerr 1917), mentre di Herbert Jhering si rammarica di aver potuto leggere solo Lotta per il teatro (Jhering 1922) – ragione per cui accorda al suo saggio un valore di sola «indicazione e segnalazione» (p. 29). Riterrà però valida la sostanza della sua analisi ancora nel 1953, inserendola, con poche variazioni, in Spettacolo del secolo, libro summa del suo pensiero teatrale (Pandolfi 1953).

Scrive Pandolfi che l’espressionismo, ribelle ma senza la forza di scalfire il suo tempo, è stato «il tentativo più ragguardevole e più concreto dell’epoca moderna di dare alla produzione drammatica, nel suo insieme, quell’influenza sulla vita sociale» che il teatro ha avuto nelle epoche d’oro della sua storia (p. 15). Ne sottolinea l’umanesimo e il valore ideologico, e ne descrive l’evoluzione mostrando il profondo nesso con le vicende storiche e sociali da cui è sorto. Vi riconosce un fondo «razionale e antiromantico» (p. 8), idea che lo porta a definire l’opera di Brecht come un suo «seguito, la diretta conseguenza» (pp. 25-26): il modo in cui il grido lanciato dagli espressionisti è infine riuscito a tradursi in un’arte capace di incidere sulla realtà (interpretazione poi contestata da Chiarini, che parlerà piuttosto di «consapevole e critico capovolgimento» da parte di Brecht delle modalità dell’espressionismo attraverso «l’analisi storica, economica, sociologica»: Chiarini 1961, 13).

Anche quando poté conoscere più a fondo la sua drammaturgia, di Brecht Pandolfi preferì le opere più vicine all’espressionismo, le poesie e i canti: è qui che potevano più facilmente trovarsi stimoli per il teatro che perseguiva, un teatro che fosse insieme indagine sociale e soluzione esistenziale per la vita dell’individuo. Negli espressionisti Pandolfi trovava lo stesso spirito di ribellione che aveva sentito nel disco delle canzoni dell’Opera da tre soldi, ma, mentre dava conto delle feroci persecuzioni naziste e della sorte di chi non era riuscito a rifugiarsi in America, sottolineò che Brecht era l’unico autore, tra quanti avevano partecipato di quella atmosfera culturale, ad appartenere forse a «un’epoca non chiusa» (p. 26). Su di lui scrisse poi ancora molto, precisando nel tempo, con la maggiore disposizione di informazioni e testi, i propri punti di vista critici. Nel 1953, nel già citato Spettacolo del secolo gli dedica un capitolo, in cui riporta lo schema del teatro epico (ora con più ampie spiegazioni tratte dalle Note all’opera «Ascesa e rovina della città di Mahagonny»), il coro finale de La Linea di condotta e A chi sopravvivrà, traduzione di An die Nachgeborenen (1939). Da sempre interessato al valore educativo della sua opera, nelle ultime pagine parla di Brecht come del solo che è stato in grado di fornire col teatro una «didattica […] che chiede di rispondere e non risponde per suo conto» (p. 388), un’opera che va al di là della sua drammaturgia, e che gli permette di essere, insieme ad Artaud, uno dei due estremi all’interno dei quali si potrà immaginare, per il futuro, una scena che sia profondamente radicata nella società, necessaria per attori e spettatori.

Tre anni dopo Pandolfi pubblicò l’antologia Il teatro espressionista tedesco (Pandolfi 1956), in cui raccolse testi che già nelle precedenti analisi aveva indicato come fondamentali nello sviluppo di quella corrente culturale: Lo spirito della terra, Il vaso di Pandora di Wedekind e Apocalisse di Karl Kraus (già apparsi, come si è detto, su «Il Dramma») e Il mutilato, intitolato qui Lo sciancato, di Toller, tradotti da Laura Martucci Pandolfi (i due cognomi nel libro si alternano, a suggerire l’idea di più numerosi collaboratori); L’istinto di Herwarth Walden, Una stirpe di Fritz von Unruh e Fuori della porta di Wolfgang Borchert tradotti da Ida Blätter; Il figlio di Walter Hasenclever e Tamburi nella notte di Brecht tradotti da Lia Martucci; e Spedizione al Polo Est di Arnolt Bronnen, prima versione italiana di Maria Necco. Il dramma di Borchert chiude la raccolta, ed è seguito a mo’ di epilogo dalla traduzione, senza firma, dell’ultimo testo dell’autore, morto nel 1947 «a soli ventisei anni»: E allora non c’è altro (Dann gibt es nur eins!). Nell’introduzione, Le manifestazioni e il significato del teatro espressionista, Pandolfi spiega di aver scelto di «descrivere e documentare» nel teatro tedesco, più che i «precisi limiti storici della denominazione», un certo generico «spirito “espressionista”», di cui Borchert è l’«ultima apparizione, […] dopo la seconda e ancor più tragica catastrofe» (p. VII). Segue, come prologo ai testi, Il messaggero dell’Assia (Der Hessische Landbote) di Georg Büchner, il pamphlet con cui nel 1834 il giovane scrittore aveva invitato il popolo alla rivolta contro Ludovico di Baviera (tradotto da Felice Filippini dall’edizione critica che ne aveva eliminato gli interventi misticheggianti del pastore Weidig; p. 9).

Come i suoi volumi di più aperto intervento teatrale, l’antologia del teatro espressionista si presta a una lettura unitaria, offrendo, a fianco dell’analisi storica, il messaggio programmatico del curatore. La poesia contro la guerra di Borchert, avverte Pandolfi concludendo l’introduzione, è «come un testamento», un punto da superare per tornare a volgere lo sguardo verso di sé e la realtà storica di cui si è parte (p. XVI). Tra i due poli c’è tutta la parabola della necessità di ribellione incarnata dall’espressionismo, e dal primo Brecht, anche se Tamburi nella notte è ora inteso «soprattutto come preludio alla sua opera futura» (p. IX). Quello che gli preme documentare dell’espressionismo è la volontà di intervento diretto «nella vita di una nazione» (p. X), tentativo appena cominciato e «tragicamente interrotto dalla guerra», ma fondamentale per il successivo sviluppo del teatro europeo. In una nota Pandolfi dà nuovamente conto delle obbligate limitazioni dell’«apparato critico-informativo», dovute alla mancanza, nonostante la rivalutazione dell’espressionismo iniziata nel dopoguerra, di «ristampe e studi a largo raggio» (p. XVI). Ma in questa prima antologia italiana dei suoi autori l’aggiornamento culturale è solo una parte del senso, costruito sulla necessità di rendere il libro efficace nel presente. Quella di Pandolfi è una scrittura progettuale, operativa, di uno studioso ma anche di un regista che sta via via allontanandosi dalla pratica di palcoscenico.

La ricerca di un teatro di impatto sociale: Il mutilato di Toller (1949)

L’opera di mediazione culturale di Pandolfi non è avvenuta solo attraverso processi di scrittura: ne ha fatto parte, come si è visto parlando dell’Opera dello straccione, anche uno spettacolo in grado di produrre influenze durature, ma passato poi quasi silenziosamente “sotto la pelle” del teatro italiano. Molti di più furono però gli spettacoli che non poté realizzare.

Nell’estate del 1943, fra i tre allestimenti di una Compagnia del Teatro Libero Italiano progettata da Silvio d’Amico, che tra i registi prevedeva Pandolfi insieme a Gerardo Guerrieri e Orazio Costa (direttore), era prevista una messinscena de La morte di Danton (Dantons Tod, 1835) di Georg Büchner: spettava probabilmente a Pandolfi, che al testo aveva dedicato un articolo su «Origini» nell’aprile del 1942 (Meldolesi 1984, 77). Il progetto, frenato anch’esso dalla guerra, fu ripreso nel 1946 nella forma di una Compagnia del Teatro Quirino, sempre diretta da Costa, che avrebbe dovuto ospitare vari registi diplomati all’Accademia. La Commissione del Servizio per il Teatro impose però, pena la perdita dei finanziamenti, l’esclusione di «ogni e qualunque carattere sperimentale» (Viziano 2005, 27–30, 61-65, 270). E Pandolfi non fece più parte dell’impresa.

Scrivendo il 21 gennaio del 1946 all’editore americano di Brecht per conto della Einaudi, Pandolfi aveva chiesto anche i diritti di rappresentazione delle sue opere: pensava in particolare all’Opera da tre soldi, di cui intendeva curare una versione completa. Progettava di inscenarla con la compagnia De Sica-Besozzi-Gioi e il maestro Fernando Previtali al Maggio musicale fiorentino (Bucciantini 2017, 211-212 n.): un’ipotesi che non si realizzò, come non si concretizzarono, nel 1947, alcune sue proposte per la prima stagione del Piccolo. Pandolfi faceva parte come rappresentante del Pci del comitato direttivo del teatro, e avrebbe dovuto dirigere Le notti dell’ira  (Les nuits de la colère di Salacrou, del 1946), ma ragioni organizzative spinsero il direttore del Piccolo, Paolo Grassi, ad anticipare la rappresentazione a una data in cui Pandolfi, impegnato ne La casa di Bernarda Alba (1936) di García Lorca al Teatro Nuovo, non avrebbe potuto realizzarla. Potendo scegliere un nuovo lavoro Pandolfi propose l’auto sacramental La vita è sogno (La vida es sueño, di Calderón de la Barca) che aveva messo in scena già nel giugno del 1943 con gli allievi dell’Accademia, Il malinteso (Le malentendu, 1943) di Camus, Il mutilato di Toller, La linea di condotta di Brecht o il Woyzeck di Büchner. Lo interessavano, raccontò anni dopo, testi che avessero «un significato […] attivo nell’esistenza quotidiana dello spettatore», e che avrebbe voluto mettere in scena criticamente, rivelandone il tessuto sociale e il «substrato storico» attraverso i metodi di Mejerchol’d e di Piscator (Pandolfi 1957, 217). Ma non furono giudicati i lavori migliori per l’affermazione, tra complessi equilibri politici, del primo teatro stabile italiano: Strehler e Grassi gli diedero come unica possibilità quella di dirigere il meno rischioso Arlecchino servitore di due padroni di Goldoni. Pandolfi, poco incline ai compromessi, rifiutò, e fu la fine, polemica, dei suoi rapporti con il Piccolo (Martinelli 1990, 49-52).

Gli spettacoli di cui Csokor aveva parlato a Brecht non si realizzarono. Nell’estate del 1947 Pandolfi ebbe occasione di riprendere L’opera dello straccione, per il Festival della Gioventù di Praga e poi alla Fenice di Venezia, ma scelse di trarne, con Luigi Squarzina e Luciano Salce, una nuova riscrittura, La fiera delle maschere (che tra molteplici riferimenti, oltre a Brecht, alludeva anche a Wedekind – cfr. Squarzina 2005, 334; Cuppone 2015). Della Linea di condotta fece circolare una copia dattiloscritta, permettendo a molti il primo contatto con la drammaturgia di Brecht (Capriolo 1990, 121), ma il primo a metterlo in scena fu Giorgio Strehler nel 1955, insieme agli allievi della scuola di recitazione del Piccolo, un anno prima di intraprendere, con l’Opera da tre soldi, il suo noto percorso brechtiano.

Gli altri testi che Pandolfi aveva proposto per il teatro milanese furono invece tra le sue migliori regie. Nel 1949 tradusse e mise in scena, il 28 dicembre alla Soffitta di Bologna, Il malinteso di Camus. Qualche mese prima, il 2 aprile, aveva curato la regia del Mutilato di Toller al Piccolo Teatro della Città di Firenze. L’allestimento, su scene tratte da disegni di Grosz, aggiungeva al testo inserti brechtiani e filmati nello stile di Piscator, trattando il dramma come documento della fase storica che aveva portato all’avvento del nazismo. Il libretto di sala spiegava che era la prima opera di Toller a essere rappresentata in Italia, e riportava la traduzione di An die Nachgeborenen di Brecht (A chi sopravvivrà, eseguita nello spettacolo con musica di Weill, insieme alla poesia in morte di Rosa Luxemburg, Grabschrift, 1919). Bruno Schacherl scrisse per «Il Nuovo Corriere» (3 aprile 1949) una recensione entusiasta, parlando, anche per lo stile della recitazione, del primo esempio italiano di teatro epico (Di Tizio 2018, 156-157). Attraverso le citazioni e le immagini, che mostravano il fallimento degli intenti rivoluzionari, l’atmosfera espressionista doveva riversarsi sul presente, permettendo di porre precise domande rispetto al ripiegamento delle battaglie resistenziali (Meldolesi 1984, 372). Ma lo spettacolo non trovò ad accoglierlo la stessa adesione morale del febbraio 1943.

Come il progettato ampliamento al teatro dell’«Universale Einaudi», anche le regie di Pandolfi si scontrarono con una generale estromissione delle tendenze sperimentali: dopo l’immediato dopoguerra e il tentativo di porre una nuova cultura a fondamento di una diversa società, era cominciata la fase del riflusso. Il nesso fra teatro e rivoluzione che aveva animato i suoi spettacoli e i suoi interventi trovò sempre meno posto nell’Italia della guerra fredda.

L’azione di mediatore di letteratura tedesca in Italia di Vito Pandolfi andrebbe approfondita tramite uno spoglio completo delle sue pubblicazioni, che fin qui si è potuto solo parzialmente condurre, e ulteriori ricerche di archivio (nel Fondo Ridenti a Torino si trova ad esempio una sua riduzione di In ogni acqua lavato di Wedekind, non pubblicata: cfr. Mazzocchi 2017, 124; e nel Fondo Pandolfi di Certaldo c’è una lettera del 5 maggio 1951 di Walter Nubel da New York, che lascia intravedere un interessante scambio di informazioni sulle pubblicazioni delle poesie di Brecht).

Di Brecht e con traduzione di Laura Pandolfi uscirono anche Oriente e occidente a teatro (in «Sipario», 1950, n. 53, pp. 7-8) e L’eccezione e la regola nel II volume del Teatro della Einaudi curato da Emilio Castellani e Renata Mertens (1954), pubblicazioni a cui Vito Pandolfi non fu certo estraneo. Fu lui «tra i primi in Italia […] a cogliere l’importanza di Brecht, a proporre la drammaturgia espressionistica» (Buonaccorsi 1990, 58). Uno dei meriti di una multiforme e densa attività culturale che qui non si è trattata che per uno dei suoi aspetti. Ma il suo modo di intendere la cultura, centrale nei primi anni della ricostruzione, quando si era immaginata possibile una profonda rivoluzione sociale, divenne col tempo marginale, come marginali erano divenute le ragioni della rivolta a fronte dell’assetto stabile della società e dei teatri.

Fonti

Per un rendiconto delle pubblicazioni e delle molteplici collaborazioni a periodici e quotidiani di Vito Pandolfi si vedano Cuppone 2015, contenente una fondamentale Tavola cronologica (pp. 288-289), e l’ampio Repertorio bibliografico curato da Giuseppe Ferrini e Daniela Vianelli in Mancini 1990a, 175-304.

BBA: Bertolt-Brecht-Archiv della Akademie der Künste, Brech-Haus, Berlin, Korrespondenz-Findbuch

MBA, I: Fondo Vito Pandolfi, Serie I (Carte personali 1924-2001), Museo Biblioteca dell’Attore, Genova. Una consistente parte dell’archivio personale di Vito Pandolfi si trova nella Biblioteca comunale «Bruno Ciari» di Certaldo.

Bibliografia

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Benedetto 2016: Alberto Benedetto, Brecht e il Piccolo Teatro. Una questione di diritti, Milano, Mimesis, 2016

Bloch 1929: Ernst Bloch, Lied der Seeräuber-Jenny in der Dreigroschenoper, in «Musikblätter des Anbruch», 1929, n. 11, 125-127

Bucciantini 2017: Massimo Bucciantini, Un Galileo a Milano, Torino, Einaudi

Buonaccorsi 1990: testimonianza di Eugenio Buonaccorsi in Mancini 1990a, pp. 56-61

Capriolo 1990: Ettore Capriolo, «Cos’è il teatro popolare?», in Mancini 1990a, pp. 121-126

Cavaglieri 2017: Livia Cavaglieri, Firme e tendenze della critica teatrale su «Il Dramma» (1945-1968), in Mazzocchi, Mei, Petrini 2017, pp. 83-98

Chiarini 1961: Paolo Chiarini, Bertolt Brecht. Dal teatro epico al teatro dialettico, in Nuovi studi su Brecht, a cura di Paolo Chiarini, «Quaderni del Piccolo Teatro», Milano, Tecnografica milanese, pp. 2-26

Cuppone 2015: Roberto Cuppone, Vito Pandolfi e la Commedia dell’Arte. Dall’Arlecchino furioso all’Isabella pietosa, Ariccia, Aracne

Di Tizio 2018: Raffaella Di Tizio, L’Opera dello straccione di Vito Pandolfi e il mito di Brecht nell’Italia fascista, Ariccia, Aracne

Diebold 1921: Bernhard Diebold, Anarchie im Drama, Frankfurt am Main, Frankfurter Verlags-Anstalt

Fiocco 1943: [Achille] Fiocco, L’«Opera dello Straccione» di J. Gay al secondo saggio della Regia Accademia d’Arte Drammatica, in «La Tribuna», 13 febbraio 1943

Geraci 2015: Stefano Geraci, Opere ed omissioni. Brecht e il teatro in Italia, in «Ariel», a. III, n. 1, gennaio-giugno 2015, pp. 15–31

Gor’kij 1944: Maksim Gor’kij, Jegor Bulyciov e altri. Scene in 3 episodi di Massimo Gorkji, Compagnia di prosa Anna Magnani-Carlo Ninchi ; traduzione dall’originale di Ettore Lo Gatto ; regia di Vito Pandolfi, Roma, Tip. Di Biase

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Lucignani 1990: testimonianza di Luciano Lucignani in Mancini 1990a, 22-23

Mancini 1990a: Vito Pandolfi. I percorsi del Teatro Popolare, a cura di Andrea Mancini, Bologna, Nuova Alfa Editoriale

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Mangoni 1999: Luisa Mangoni, Pensare i libri. La casa editrice Einaudi dagli anni trenta agli anni sessanta, Torino Bollati Boringhieri

Marinucci 1943: Vinicio Marinucci, John Gay e L’opera dei mendicanti, introduzione a John Gay, L’opera dei mendicanti. Versione integrale e presentazione di Vinicio Marinucci, Torino, Edizioni di Il Dramma, pp. 7-30

Martinelli 1990: Marco Martinelli, In solitudine vitae. Una biografia teatrale, in Mancini 1990b, pp. 31-76
Mazzella 2000: Giuseppina Mazzella,The Beggar’s Opera between the British and the Italian stage, tesi di laurea inedita, Università Ca’ Foscari di Venezia, a.a. 1999-2000 (una copia della tesi è conservata nel Fondo Pandolfi, MBA)

Mazzocchi 2007: Federica Mazzocchi, Lucio Ridenti e «Il Dramma» nel teatro del dopoguerra. Politiche e polemiche teatrali attraverso i carteggi Grassi, Chiesa e Pandolfi, in Mazzocchi, Mei, Petrini 2017, pp. 99-134

Mazzocchi, Mei, Petrini 2017: Federica Mazzocchi, Silvia Mei e Armando Petrini, Il laboratorio di Lucio Ridenti. Cultura teatrale e mondo dell’arte in Italia attraverso «Il Dramma» (1925-1973), Torino, Accademia University Press

Meldolesi 1984: Claudio Meldolesi, Fondamenti del teatro italiano. La generazione dei registi, Firenze, Sansoni, 1984

Pandolfi 1940: Vito Pandolfi, Il teatro. Sul metodo. Sullo spettacolo, in «Roma Fascista» n. 21, 24 marzo 1940

– 1941: Vito Pandolfi, Contributo di un critico al teatro, «Roma Fascista», 5 giugno 1941.

– 1943: Vito Pandolfi, Copione de L’opera dello straccione, in MBA, I

– 1945: Vito Pandolfi, Interpretazione del teatro tedesco espressionista, in «Società», a. 1, n. 1-2, 1945, pp. 64-90

– 1947: Vito Pandolfi, Conoscenze. L’opera di Bertolt Brecht in esilio, «Il Dramma» n. 34, 1 aprile 1947, 51-52

– 1948: Vito Pandolfi, Cronache vaganti. Bertolt Brecht, in «Il Dramma» n. 55, 15 febbraio 1948, 48-50

– 1953: Vito Pandolfi, Spettacolo del secolo. Il teatro drammatico, Pisa, Nistri-Lischi

– 1956: Vito Pandolfi, Il teatro espressionista tedesco, a cura di Vito Pandolfi Bologna, Guanda

– 1957: Vito Pandolfi, Confidenze di autori, attori, registi, in «Il Ponte», agosto-settembre 1957, 1287-1288, ora in Id., Esperienze di vita teatrale, in Mancini 1990b, 203-225

Simoni 1930: Renato Simoni, Filodrammatici: «La veglia dei lestofanti». Commedia jazz in 3 atti di Bertold Brecht da John Gay, in «Il Corriere della sera», 9 marzo 1930, ora in Id., Trent’anni di cronaca drammatica, a cura di Lucio Ridenti, Torino, Ilte, 1955, vol. III, pp. 304-305

Sisto 2019: Michele Sisto, Traiettorie. Studi sulla letteratura tedesca tradotta in Italia, Macerata, Quodlibet

Squarzina 1990: testimonianza di Luigi Squarzina in Mancini 1990a, pp. 24-31

– 2005: Luigi Squarzina, Il romanzo della regia. Duecento anni di trionfi e sconfitte, Pisa, Pacini

Steinbeck 1946: John Steinbeck, La luna è tramontata. Dramma in due parti e sei quadri. Versione italiana di Pilade e Paolina Vecchietti, in «Il Dramma. Rivista mensile di commedie di grande successo», a. XXII, n.s., n. 18 (1 agosto 1946), pp. 11-39 (dal romanzo The Moon is Down, 1942)

Trezzini 1990: Lamberto Trezzini, Gli anni del «Politecnico», in Mancini 1990a, pp. 95-101

Viziano 2005: Teresa Viziano, Silvio d’Amico & co. 1943–1955. Allievi e maestri dell’Accademia d’Arte Drammatica di Roma, Roma, Bulzoni, 2005.

Vlad 1943: Partitura de L’opera dello straccione (Opera da quattro soldi), Fondo Roman Vlad, fascicolo «Opera dello straccione», Archivio della Fondazione Giorgio Cini, Venezia. Per gentile concessione degli eredi e della Fondazione Giorgio Cini.

Zangrandi 1947: Ruggero Zangrandi, Il lungo viaggio attraverso il fascismo. Contributo alla storia di una generazione, Milano, Mursia, 1998 (Feltinelli 1947).