ENGLISH E ENGLISHES NELLA TRADUZIONE ITALIANA DI WHITE TEETH
di Alessandra Castellazzi
The first publishing sensation of the millenium, il primo fenomeno editoriale del millennio: così viene salutata la pubblicazione di White Teeth di Zadie Smith su «The Guardian» (Merritt 2000). Smith, autrice inglese di origini giamaicane, debutta sulla scena letteraria nel 2000, appena ventiquattrenne, con un romanzo ambientato nella Londra multietnica di fine Novecento. Intrecciando le vicende di tre famiglie di immigrati provenienti dai poli dell’ex impero britannico, dalla Giamaica al Bengala, White Teeth si snoda sul tema del rapporto tra comunità di etnie diverse: racconta la ricerca della propria identità e di uno spazio nella metropoli, affrontando con ironia le difficoltà e gli aspetti positivi di un periodo in cui l’aggettivo British assume delle accezioni nuove. Smith attira fin da subito l’attenzione della critica e dei media, che la paragonano a Salman Rushdie e Hanif Kureishi e vedono in lei una portavoce dell’identità multiculturale, fino a consacrarla nuovo punto di riferimento della Black British Literature. White Teeth diventa così un fenomeno editoriale nel mondo anglosassone.
In Italia il romanzo, sull’onda del successo in Gran Bretagna, viene pubblicato nello stesso anno da Mondadori. La traduzione è affidata a Laura Grimaldi, storica collaboratrice della casa editrice, scomparsa nel 2012. Esperta del genere giallo e del noir, Grimaldi ha diretto per anni le collane «Segretissimo», «Il Giallo Mondadori» e «Urania», oltre ad aver tradotto centinaia di romanzi di autori come Ray Bradbury, John Dickson Carr, Raymond Chandler, Agatha Christie e Philip K. Dick.
Il successo del romanzo in Italia è però minore: leggendo i commenti sui maggiori siti web che si occupano della vendita di libri, ci si accorge che i lettori italiani spesso non hanno finito Denti bianchi, che considerano troppo lungo e a volte eccessivamente prolisso. Questa differenza spinge a porsi delle domande. Che la realtà multietnica di Londra sia poco interessante per il lettore italiano? Per apprezzare il romanzo servono determinate conoscenze di tipo storico, letterario e culturale? La traduzione italiana non ha saputo forse valorizzare i punti di forza di White Teeth – quello stile scattante, vivace e ironico con cui viene dipinta la Londra di fine Novecento? Per rispondere occorre considerare proprio i punti di forza della narrazione: i temi trattati, lo stile e le voci che animano il romanzo.
Identità ibride e voci coloniali nella Londra di White Teeth
Willesden, un quartiere di Londra noto per la sua popolazione multietnica, fa da sfondo alle vicende rocambolesche che coinvolgono i personaggi di White Teeth nei decenni che vanno dal 1970 alla fine del secolo. Al centro del romanzo ci sono tre famiglie: i Jones (Archie, inglese, Clara, giamaicana, e Irie, la figlia), i bengalesi Iqbal (Samad, la moglie Alsana e i gemelli Millat e Magid, coetanei di Irie) e i Chalfens, rappresentanti della borghesia intellettuale inglese. Nonostante l’ambientazione londinese, il romanzo è animato da una forza centrifuga che spinge la narrazione in tutti gli angoli dell’impero e attraverso tutto il Novecento. Le storie personali dei personaggi si intrecciano con gli eventi della Storia: i disordini razziali scatenati dal discorso Rivers of Blood di Enoch Powell, il periodo del thatcherismo, le proteste legate ai Satanic Verses di Rushdie, la caduta del muro di Berlino. Ma anche il terremoto che scuote Kingston, capitale della Giamaica, agli inizi del Novecento e le vicende di Mangal Pande, antenato di Samad, che spara il primo colpo dell’Indian Mutiny nel 1857. Londra diventa così il crocevia di eventi avvenuti anche in luoghi e tempi lontani, di tensioni che sono il frutto della storia imperiale del Regno Unito e della convivenza multiculturale.
In questo contesto socio-culturale, identità e radici assumono un ruolo dominante. In Imaginary Homelands, Rushdie esplicita la condizione degli immigrati: Our identity is at once plural and partial. Sometimes we feel that we straddle two cultures; at other times, that we fall between two stools(Rushdie 1991, 10: «La nostra identità è al tempo stesso plurale e parziale. A volte ci sembra di essere a cavallo di due culture; altre, di cadere tra due sgabelli» – traduzione mia), sottolineando così il problema dell’appartenenza. Genitori e figli, come si vede nel romanzo, si trovano però a fare i conti con questa realtà in modo differente. La prima generazione ha paura di perdere identità e radici: Alsana è terrorizzata all’idea di vedere la propria identità diluita in quella inglese, mentre Samad è frustrato per la mancanza di riconoscimento a livello sociale. Entrambi subiscono l’influenza occidentale sia a livello profondo (la difficoltà di Samad a vivere secondo i valori del Corano) sia a livello superficiale (i vestiti che indossano).
I problemi per la seconda generazione sono ancora più grandi: le radici sono ingarbugliate, l’identità ibrida. Irie non corrisponde ai canoni di bellezza europei e ricorre alla stiratura chimica dei capelli per rinnegare metaforicamente le sue radici. Dopo questa esperienza traumatica decide di cercare le proprie origini giamaicane a casa della nonna Hortense, ripercorrendo un passato fatto di miti e leggende. Anche Millat si trova a cavallo tra due culture, tanto da essere definito schizofrenico dalla voce narrante: è l’esempio perfetto dell’identità ibrida che vive nell’in-betweenness, uno spazio a metà tra due mondi. Prima esaspera gli atteggiamenti presi dall’Occidente (ragazze, alcol, droga) e poi diventa un fondamentalista islamico entrando nel gruppo Kevin, che predica il distacco dai valori occidentali.
Se Millat viene definito schizofrenico, la scrittura di Smith viene invece ricondotta da James Wood, in un articolo apparso su «New Republic», al “realismo isterico” (Wood 2000). Il critico inglese delinea le caratteristiche di questo genere, che porta alle estreme conseguenze le convenzioni del romanzo: l’accumulo spropositato di eventi e informazioni, parallelismi e intrecci (tipici ad esempio della scrittura dickensiana), dà alla narrazione una patina di irrealtà. Ne risultano personaggi senza profondità, ridotti a caricature. Wood, tuttavia, riconosce l’abilità di Smith nel delinearli grazie al monologo interiore e al discorso indiretto libero.
Lo stile e le voci del romanzo sono, infatti, uno dei suoi maggiori punti di forza. La voce del narratore è ironica e colta e fa un uso creativo della lingua. Un misto di accenti, slang e varietà linguistiche caratterizza i personaggi e sottolinea il tema dell’identità ibrida, come indica Waiters (2005):
To highlight the murkiness of ethnic identity, Smith demonstrates how English speech, perhaps one of the more recognizable signifiers of Englishness, has become hybridized. White Teeth skillfully captures an array of vernaculars and dialects (Standard English, Cockney, Jamaican patois, and Bengali) which are spoken by many of the country’s inhabitants. Smith’s appropriation of this polyglot of voices is unique. To underscore the hybridization of society Smith demonstrates that specific speech patterns are not relegated to a single ethnic group for Arabs speak with Cockney accents and Jamaican patois is as likely to be spoken by a Bengali as it is to be spoken by an Englishman (Waiters 2005, 317)
(«Per evidenziare la torbidezza dell’identità etnica, Smith dimostra come l’inglese parlato, forse uno dei significanti più riconoscibili della Englishness, sia diventato ibrido. White Teeth cattura abilmente una varietà di vernacoli e di dialetti (inglese standard, Cockney, patois giamaicano, bengalese) che sono parlati da molti abitanti del Paese. L’appropriazione da parte di Smith di questo insieme di voci poliglotte è unico. Per sottolineare l’ibridazione della società Smith dimostra che una specifica varietà di lingua parlata non è confinata a un singolo gruppo etnico, perché gli arabi parlano con un accento Cockey e il patois giamaicano può essere parlato tanto da un bengalese quanto da un inglese» – traduzione mia)
L’inglese usato dai personaggi è quindi una lingua contaminata, aperta a tutte le sue varietà e in costante trasformazione. È una lingua che riflette la società ibrida in cui si muovono i protagonisti, dove le diverse comunità etniche prendono in prestito termini radicati in altre culture, in uno scambio e in un’evoluzione continua. Tanti personaggi minori, stereotipi e macchiette sono caratterizzati quasi solo esclusivamente dal modo di parlare e il crogiolo di voci diverse che ne risulta dà un effetto comico al romanzo. È fondamentale, quindi, conservare questi elementi in traduzione.
Letteratura postcoloniale e traduzione
In White Teeth, quindi, sono presenti varie caratteristiche riconducibili alla letteratura postcoloniale. Le discipline degli studi postcoloniali e dei translation studies hanno diversi punti di contatto e si sono largamente influenzate a vicenda perché entrambe si rapportano con l’Altro. La loro è una vicinanza a livello teorico ed emotivo, come suggerisce la celebre frase di Rushdie: I, too, am a translated man (Rushdie 1983, 29: «Anch’io sono un uomo tradotto» – Capriolo 1991, 31). Qui l’immagine della traduzione viene usata come metafora per descrivere l’esperienza dei migranti, che sono uomini tradotti nel senso pregnante del termine, perché si sono dovuti spostare da un luogo a un altro. Sul piano letterario, i loro testi sono tradotti nel momento stesso in cui vengono scritti, poiché gli autori selezionano gli aspetti della propria cultura da presentare al lettore.
La traduzione pone problemi specifici quando si tratta di affrontare un testo postcoloniale. Prima di tutto quello della lingua: la scelta spesso è tutt’altro che scontata e scrivere in inglese diventa un atto di appropriazione. In questo caso l’English, l’inglese puro del colonizzatore, viene contaminato da diversi englishes. La distinzione tra Englishe english viene introdotta per la prima volta da Ashcroft, Griffiths, Tiffin (1989, 8): We need to distinguish between what is proposed as a standard code, English (the language of the erstwhile imperial centre), and the linguistic code, english, which has been transformed and subverted into several distinctive varieties throughout the world (Dobbiamo distinguere tra quello che viene proposto come un codice standard, l’English (il linguaggio del centro dell’ex Impero), e il codice linguistico, english, che è stato trasformato e sovvertito in numerose varietà distinte in tutto il mondo – traduzione mia).
Questi inglesi, al plurale, sono le varietà nate in un contesto coloniale, come ad esempio l’inglese pidgin nigeriano o il Carribbean English, che recano tracce delle influenze del creolo e del pidgin. Scrive Franca Cavagnoli:
La lingua degli autori postcoloniali è fortemente contaminata: vi sono spesso parole e locuzioni in due lingue, […], oppure in più lingue, se i testi sono germinati in quei Paesi la cui situazione storica ha visto l’avvicendarsi di vari colonizzatori, come è successo nelle isole del bacino caraibico. Essendo la conseguenza della presenza di più culture su un certo territorio geografico, la scrittura postcoloniale è spesso creolizzata. All’inglese della madrepatria – l’English – si contrappongono le varietà di inglese che si sono sviluppate nelle ex colonie dell’Impero britannico. I vari englishes della periferia del mondo sono i frutti ibridi nati dall’incontro dell’inglese parlato nel centro dell’Impero con le varie lingue presenti in una certa area, alcune delle quali native e altre invece giunte in seguito alla colonizzazione (Cavagnoli 2010, 71-72).
La lingua diventa così uno specchio delle lotte che si svolgono nella società e serve a liberarsi del senso di dominazione esercitato sui popoli colonizzati. Accanto all’utilizzo di questo inglese ibrido, gli scrittori postcoloniali ricorrono spesso a parole ed espressioni che descrivono in modo specifico alcuni aspetti della loro cultura. Si tratta di termini legati alla cultura materiale, ma anche di dialoghi che riproducono la comunicazione orale e informale.
Scegliere come tradurre questi elementi può avere conseguenze anche sulla cultura del sistema di arrivo: una traduzione che osa, infatti, può introdurre fattori di rinnovamento, come spiega Even-Zohar:
Of course, from the point of view of the target literature the adopted translational norms might for a while be too foreign and revolutionary, and if the new trend is defeated in the literary struggle, the translation made according to its conceptions and tastes will never really gain ground. But if the new trend is victorious, the repertoire (code) of translated literature may be enriched and become more flexible (Even-Zohar 1990, 50-51).
(Naturalmente, dal punto di vista della letteratura di arrivo le norme di traduzione adottate potrebbero risultare per un momento troppo inusuali e rivoluzionarie, e se la nuova tendenza è sconfitta nella battaglia letteraria, le traduzioni fatte secondo le sue concezioni non guadagneranno più terreno. Ma se la nuova tendenza è vittoriosa, il codice della letteratura tradotta può essere arricchito e può diventare più flessibile – Even-Zohar 2002, 236).
Un tipo di esperienza a cui si faceva riferimento anche nel numero 9 di questa rivista, a proposito di Texaco tradotto da Sergio Atzeni. Il romanzo di Chamoiseau è un esempio di letteratura postcoloniale in cui il creolo a base francese ha una presenza dominante. In molti degli interventi dedicati a quella traduzione ricorre il termine «opacità» (Sulis 2015; Melaouah 2015) : è quello a cui mirava Atzeni per produrre una sensazione di straniamento nel lettore che si trovava a fare i conti con un mondo lontano dal suo, evocato tra l’altro dal francese contaminato dal creolo. Un livello di estraneità che si deve percepire anche nella traduzione di White Teeth.
Le voci del romanzo
Tradurre un romanzo come White Teeth vuol dire quindi tradurre la grande varietà di voci che partecipano alla narrazione. Dall’inglese giamaicano a quello bengalese, fino alla lingua ibridata delle seconde generazioni, English e englishes entrano in contatto ripetutamente, e la loro interazione aggiunge livelli di significato alla lettura del romanzo.
Hortense, la voce giamaicana
Nel romanzo di Smith, la voce giamaicana si incarna in Hortense, la nonna di Ingrid. L’isola caraibica di cui è originaria presenta una situazione linguistica complessa. I parlanti, infatti, si muovono all’interno di un continuum linguistico che si sviluppa tra due estremi: da un lato l’inglese non standard parlato nel bacino caraibico e dall’altro il Jamaican English Creole, cioè il creolo a base inglese nato in Giamaica, che contiene elementi di spagnolo, francese e diverse lingue africane. Tra questi due estremi esistono diverse sfumature intermedie, come sottolinea Cavagnoli: «Tra il creolo e la varietà non standard dell’inglese caraibico si trova un’ampia gamma di sfumature, di varietà linguistiche, di englishes, alcuni più affini alla varietà di inglese non standard e alcuni più vicini ai creoli meno contaminati» (Cavagnoli 2010, 98). Hortense parla una varietà che si colloca in un punto medio-alto del continuum; infatti la sua lingua è ben comprensibile al lettore madrelingua inglese e presenta elementi del creolo soprattutto a livello fonetico, che Smith rende con una variazione dello orotografia. Quando Irie scappa di casa per rifugiarsi dalla nonna, Hortense la accoglie così:
“So!’ said Hortense, entirely awake now and somewhat triumphant. ‘You finally dash from that godless woman, I see. An’ caught a flu while doin’ it! Well… there are those who wouldn’t blame you, no, not at all… No one knows better dan me what dat woman be like. Never at home, learnin’ all her isms and skims in the university, leavin’ husband and pickney at home, hungry and maga. Lord, naturally you flee! Well…’ She sighed and put a copper kettle on the stove. ‘It is written. You will flee by my mountain valley, for it will extend to Azel. You will flee as you fled from the earthquake in the days of Uzziah king of Juda. The LORD my God will come, and all the holy ones with him. Zechariah 14:5. In the end the good ones will flee from the evil. Oh, Irie Ambrosia… I knew you come in de end. All God’s children return in de end” (Smith 2000, 384).
Il discorso di Hortense è assolutamente comprensibile per un lettore anglofono. Si nota la pronuncia evidenziata da d al posto di th e tutte le finali mancanti delle forme in -ing. I tempi verbali sono in gran parte corretti, anche se a volte usa il tempo presente dove servirebbe un passato, come in You finally dash, o un condizionale, come in I knew you come. Nel discorso emergono anche dei termini tipici della varietà di inglese giamaicana, come pickney per indicare i bambini, definito dal Dictionary of Caribbean English Usage: A young child of Black (or E Indian) parentage; by extension any young child (esp a poor one) (Allsopp 2003, 438), cioè «Un bambino di origine nera o indiana; per estensione qualsiasi bambino (specialmente uno povero)» (traduzione mia). Ma anche il sostantivo maga, una versione colloquiale di mauger, che in creolo giamaicano indica eccessiva magrezza: A slim person, especially a slim woman, is called a mauger – meagre and powerless – as if not alive at all (Sobo 1997, 262), cioè «Una persona magra, specialmente una donna magra, è chiamata mauger: misera e impotente, come se non fosse viva» (traduzione mia).
La traduzione cerca di rendere la voce di Hortense usando un italiano colloquiale con qualche errore grammaticale:
«E allora!» esclamò Hortense, ormai completamente sveglia e in un certo senso trionfante. «Finalmente sei scappata da quella donna senza Dio. E mentre che scappavi, ti sei beccata l’influenza. Be’, non c’è gente che ti può biasimare, no, neanche per sogno… Nessuno meglio che me sa com’è fatta quella donna. Mai in casa, sempre all’università che impara tutti quegli “ismi” e quegli “ologi”, lasciando a casa il marito e la figlia, affamati e tristi. Signore, per forza che sei scappata! Be’…» Hortense sospirò e mise sul fornello un bollitore di rame. «È scritto. “Fuggirai dalla mia valle fra le montagne, perché si estenderà fino ad Azel. Fuggirai come fuggisti dal terremoto e al tempo di Uzziah re di Giudea. Poi verrà il signore mio Dio, e con lui tutti i santi”. Zaccaria 14,5. Alla fine i buoni fuggiranno dal male. Oh, Irie Ambrosia… Lo sapevo che alla fine venivi. Tutti i figli di Dio ritornano, alla fine» (Grimaldi 2000, 394).
Grimaldi fa un grande uso del «che» polivalente per deviare dall’italiano standard e avvicinarlo a una parlata più popolare. Adotta anche l’imperfetto dove nella versione inglese Hortense usa dei tempi verbali non corretti, e quindi riproduce in modo adeguato la voce giamaicana. Sceglie invece di tradurre i termini pickney e maga, mentre sarebbe stato possibile conservarli invariati, considerando che nemmeno il lettore anglofono ha un accesso immediato al loro significato e quindi si sarebbe mantenuto lo stesso grado di estraneità dell’originale.
Alsana, la voce bengalese
Alsana, la giovane moglie tutt’altro che remissiva di Samad, è la voce bengalese del romanzo. La varietà d’inglese che parla è molto vicina allo standard: se ne discosta solo perché usa una gran quantità di termini specifici della sua cultura e per la tendenza a creare neologismi e stringhe di parole con un grande senso di libertà nei confronti della lingua inglese. Si prenda questo esempio:
“Foolishness. Massive immigration problem to follow,” said Samad to the television, dipping a dumpling into some ketchup. “You just can’t let a million people into a rich country. Recipe for disaster.”
“And who does he think he is? Mr Churchill-gee?’ laughed Alsana scornfully. ‘Originalwhitecliffsdover piesnmash jellyeels royalvariety britishbulldog, heh?” (Smith 2000, 241)
Alsana assume i cliché tipici della Britishness e li unisce in parole singole storpiandoli leggermente, con un marcato effetto comico e ironico. Ha una completa padronanza della lingua inglese, accompagnata però da un distacco che le consente di plasmarla e giocarci a piacimento. Grimaldi conserva questa libertà a livello formale quando Alsana crea neologismi, ma sceglie di cambiare il referente a livello di contenuto:
«Che idiozia. Ne conseguirà un enorme problema di immigrazione» disse Samad alla televisione, inzuppando uno gnocco nel ketchup. «Non potete far entrare un milione di persone in un paese ricco. Sarà un disastro voluto.»
«E chi si crede di essere, quello? Winston Churchill in persona?» rise Alsana, sprezzante. «O le vere scoglieredidover il christmaspudding la gelatinadiribes le guardiedellaregina il bulldog-inglese, eh?” (Grimaldi 2000, 251).
È una strategia coerente con quanto individuato in precedenza, quando Grimaldi sceglie di non tradurre esplicitamente il discorso Rivers of Blood per avvicinare il testo alle conoscenze del lettore. Qui il riferimento è alla cultura inglese popolare e la traduttrice opta per dei riferimenti più noti al pubblico italiano. Ad esempio, il Royal Variety, una festa di gala annuale a cui partecipano i componenti della famiglia reale, viene modificato in “guardiedellaregina”, mantenendo il riferimento alla monarchia inglese ma spostandolo su una caratteristica più conosciuta in Italia. Lo stesso vale per pienmash e jellyeels, due piatti tipici della tradizione culinaria operaia di Londra, che vengono tradotti liberamente, scegliendo altre specialità inglesi come il «christmaspudding» e la «gelatinadiribes».
Millat, la voce della seconda generazione
Millat rappresenta la seconda generazione di immigrati: la sua identità ibrida si riflette in una voce confusa, che accoglie influenze provenienti dai contesti più diversi, fondendosi in un linguaggio di strada che il giovane non esita a usare per incutere timore. Durante la spedizione della sua Crew a Bradford, in occasione delle proteste contro Rushdie, Millat si trova a discutere con il bigliettaio della stazione:
Millat spread his legs like Elvis and slapped his wallet down on the counter. “One for Bradford, yeah?”
The ticket-man put his tired face close up to the glass. “Are you asking me, young man, or telling me?”
“I just say, yeah? One for Bradford, yeah? You got some problem, yeah? Speaka da English? This is King’s Cross, yeah? One for Bradford, innit?”
Millat’s Crew (Rajik, Ranil, Dipesh and Hifan) sniggered and shuffled behind him, joining in on the yeahs like some kind of backing group.
“Please?”
“Please what, yeah? One for Bradford, yeah? You get me? One for Bradford. Chief.”
[…] “That’ll be seventy-five pounds, then, please.”
This was met with displeasure by Millat and Millat’s Crew.
“You what? Takin’ liberties! Seventy – chaaaa, man. That’s moody. I ain’t payin’ no seventy-five pounds!”(Smith 2000, 230).
Si nota la differenza di toni tra l’inglese standard del bigliettaio, con la forma di cortesia will e l’uso tipicamente British di please a ogni battuta, e lo slang di Millat, costellato invece di arroganti yeah alla fine di ogni domanda retorica. Il lessico si concede prestiti dai contesti più disparati: chief, ad esempio, è un insulto usato nella zona nord di Londra, come ha già sottolineato la voce narrante in precedenza: […] ‘chief’, for some inexplicable reason hidden in the etymology of North London slang, meaning fool, arse, wanker, a loser of the most colossal proportions (Smith 2000, 163), cioè: “[…] Per qualche inspiegabile ragione nascosta nell’etimologia del dialetto del Nord di Londra, “capo” significava stupido, cazzone, segaiolo, un perdente di colossali proporzioni” (Grimaldi 2000, 167). Il tutto sembra essere pronunciato con l’accento giamaicano, a giudicare dalle espressioni chaaaaa – versione abbreviata di “Accha”, che significa Good!, Okay! All right! (Allsopp 2003, 9) – e I ain’t paying no seventy-five pounds, con l’uso della doppia negazione. Un crogiolo di lingue unite in uno slang ibrido come l’identità di Millat. In traduzione, Grimaldi rispecchia questa varietà linguistica:
Millat allargò le gambe come Elvis e sbatté il portafoglio sul banco. «Uno per Bradford, okay?»
Il bigliettaio avvicinò la faccia stanca al vetro. «Giovanotto, me lo chiedi o me lo ordini?»
«Ho appena detto, okay? Uno per Bradford, okay? Hai qualche problema, okay? Parli tu inglese? Questa è King Cross, okay? Uno per Bradford, d’accordo?»
La Ciurma di Millat (Rajik, Ranil, Dipesh e Hifan) ridacchiò e strusciò i piedi dietro di lui, unendosi in coro agli okay come se fosse un gruppo d’appoggio.
«Per favore».
«Per favore che cosa, eh? Uno per Bradford, okay? Mi hai capito? Uno per Bradford. Capo!
[…] «Allora fanno settantacinque sterline, per favore».
La notizia fu accolta con dispiacere da Millat e dalla sua Ciurma.
«Che cosa? Ti stai approfittando di me! Settanta… Chaaaa, amico! Non va bene. Non le pago settantacinque sterline!» (Grimaldi 2000, 240-241).</blockquote>
Grimaldi rende bene il tono provocatorio, mantenendo i termini specifici dell’originale e ricorrendo ad accorgimenti, come la dislocazione del pronome, che abbassano il registro del discorso. Anche la presenza dell’esclamazione “Chaaa”, pur non essendo direttamente riconducibile dal lettore italiano al creolo giamaicano, rende l’idea della contaminazione della voce di Millat.
La voce narrante
L’altra voce dominante nel romanzo è quella del narratore. Paragonata a Rushdie e Kureishi per la leggerezza, per l’accostamento di toni alti e bassi e per l’utilizzo di neologismi e calchi creativi. Il narratore si muove tra gli intrecci del romanzo con agilità e naturalezza, e soprattutto con molta ironia. Il suo sguardo sui personaggi oscilla tra la compassione e la presa in giro, mantenendo un equilibrio tra i due estremi. I numerosi giochi di parole intervallati a riferimenti colti aiutano a raggiungere questo scopo.
È in questo aspetto del romanzo che si intravede un po’ di fatica. La traduttrice ha infatti dovuto compiere delle scelte che mediassero tra l’autore e il lettore, spesso prediligendo la fruizione del romanzo da parte quest’ultimo. Questa strategia si nota ad esempio nell’approccio ai riferimenti culturali disseminati nel testo. Quando Alsana parla della situazione difficile degli immigrati a Whitechapel negli anni settanta, la descrive così:
Willesden was not as pretty as Queens Park, but it was a nice area. No denying it. Not like Whitechapel, where that madman E-knock someoneoranother gave a speech that forced them into the basement while kids broke the windows with their steel-capped boots. Rivers of blood silly-billy nonsense (Smith 2000, 62).
In questo brano si nota come la voce del narratore si plasma su quella di Alsana, che tende a usare neologismi e stringhe di aggettivi uniti in una parola sola. Qui si fa riferimento in modo non esplicito, ma chiaramente identificabile dal lettore, al discorso Rivers of Blood di Enoch Powell, che il politico conservatore pronunciò nel 1968 contro le leggi che cercavano di limitare la discriminazione razziale, scatenando numerosi scontri tra i cittadini inglesi e le comunità di immigrati. Nella traduzione italiana ogni riferimento si perde:
Willesden non era elegante come Queens Park, ma era una bella zona. Impossibile negarlo. Non come Whitechapel, dove c’era sempre quel pazzo come-si-chiamava che faceva discorsi tali da costringere la gente a rifugiarsi in cantina, mentre i ragazzi rompevano le vetrine con gli stivali dalla punta di metallo. Fiumi di assatanate assurdità (Grimaldi 2000, 72).
Con l’espressione «assatanate assurdità» si voleva probabilmente rendere l’assonanza di “silly-billy”, ma in questo modo si perde il riferimento al nome di Enoch Powell e al suo discorso che in questa parte del testo ha un ruolo importante. Qui si dovrebbe identificare la dominante del testo nella resa del contenuto, piuttosto che della forma. Probabilmente Grimaldi riteneva che il lettore medio italiano non avrebbe riconosciuto il riferimento a Powell e al suo discorso.
Una scelta simile viene compiuta in riferimento alle diverse varietà di lingua, a cui il testo inglese fa riferimento in modo molto preciso. Ad esempio, patois (una parola francese che significa «dialetto» e che viene usata da Clara in riferimento al creolo giamaicano) è tradotto come «dialetto», appunto, ma così avviene anche per “cockney”, una varietà di inglese tipica dell’East End londinese. Si usa cioè lo stesso traducente per due realtà linguistiche molto lontane tra loro, anziché lasciare le parole in lingua originale e quindi permettere di identificarle con più precisione. Per quanto riguarda la Received Pronunciation (la pronuncia standard insegnata agli stranieri, usata dalla classe colta), Grimaldi usa in traduzione l’espressione «Pronuncia Affettata» (Grimaldi 2000, 207), con la lettera maiuscola, facendola così sembrare un’invenzione dell’autrice e non una realtà linguistica ben definita.
Anche a livello macro-testuale sono presenti delle scelte che indeboliscono la traduzione italiana. Una di queste è la perdita dei riferimenti intratestuali, che influiscono in modo significativo su un romanzo come White Teeth, in cui la storia non è intesa in senso lineare, ma circolare. Riprendendo passaggi interi e modi di dire, Smith vuole sottolineare che la storia è spesso uguale a se stessa e quindi la ripetizione non ha solo un valore stilistico. Alcuni episodi si ripresentano a distanza di decenni, come l’abitudine di Archie di lanciare in aria una moneta per prendere ogni decisione importante:
The coin rose and flipped as a coin would rise and flip every time in a perfect world, flashing its light and then revealing its dark enough times to mesmerize a man. Then, at some point in its triumphant ascension, it began to arc, and the arc went wrong, and Archibald realized that it was not coming back to him at all but going behind him, a fair way behind him, and he turned with the others to watch it complete an elegant swoop towards the pinball machine and somersault straight into the slot (Smith 2000, 457).
Questo passaggio descrive il lancio della moneta nel pub O’Connel, nel 1999, e riprende parola per parola la scena di un flashback risalente al 1945, quando una moneta decide della sorte del nazista Perret in tempo di guerra. La descrizione varia solo nella conclusione: […] and Archibald realized that it was not coming back to him at all, but going behind him, a fair way behind him, and he turned round to watch it fall in the dirt (Smith 2000, 540). Questa è una strategia precisa adottata dall’autrice ed è quindi importante conservarla in traduzione. Invece in italiano si legge:
La moneta si alzò e vorticò così come tutte le monete si alzano e vorticano in un mondo perfetto, riflettendo la luce e poi mostrando il loro lato oscuro tante volte quante ne bastano per ipnotizzare un uomo. Poi, a un certo punto della sua ascesa trionfale, cominciò a curvare, e la curva andò male, e Archibald si rese conto che non ritornava da lui, ma andava oltre le sue spalle, molto oltre, e si girò con gli altri per guardarla completare un elegante arco verso il flipper e infilarsi dritta nella fessura.” (Grimaldi 2000, 467).
Il secondo brano viene tradotto senza tener conto del fatto che si tratta di una richiamo intenzionale al primo:
La moneta si alzò e roteò nell’aria come tutte le monete si alzano e roteano sempre in un mondo perfetto, riflettendo la luce e poi rivelando il loro lato oscuro tante volte da ipnotizzare un uomo. Poi, a un certo punto della sua trionfale ascensione, cominciò a descrivere un arco, e l’arco andò male, e Archibald si rese conto che la moneta non tornava affatto da lui, ma finiva alle sue spalle, molto lontano dietro di lui, e si voltò per vederla cadere nel terriccio (Grimaldi 2000, 551).
Un lettore italiano attento può accorgersi che l’episodio si ripete a distanza di anni, ma la scelta di tradurre questi passaggi in modo diverso non lo facilita a individuare il rimando interno, che l’autrice aveva invece sottolineato nell’originale. La distruzione dei richiami intratestuali avviene anche in altri punti del romanzo. Un esempio riguarda Samad e il mantra can’t say fairer than that (Smith 2000, 139), usato per giustificare le sue mancanze in ambito religioso e ripreso ad anni di distanza da Millat in una situazione simile. Il fatto che il figlio usi la stessa espressione di Samad, pur essendo in aperto conflitto con lui e cercando in tutti i modi di essere diverso, è una riflessione sulla forza dell’eredità trasmessa dalla propria famiglia e dalle proprie radici, anche se si fa di tutto per negarle. Quando Samad riflette sulla sua situazione spirituale si giustifica usando questa espressione:
Samad gave up masturbation so that he might drink. It was a deal, a business proposition, that he had made with God […]. And since that day Samad had enjoyed relative spiritual peace and many a frothy Guinness […] thinking: I’m basically a good man. […] I have the odd drink. Can’t say fairer than that… (Smith 2000, 140)
Samad rinunciò alla masturbazione in modo da poter bere. Era un patto, un accordo d’affari, che aveva stretto con Dio. […] E da quel giorno Samad aveva goduto di una relativa pace spirituale e di molte Guinness schiumose […] pensando: “In fondo sono un brav’uomo. Bevo qualcosa di tanto in tanto. Non posso dirlo in modo più corretto di così…” (Grimaldi 2000, 149).
Grimaldi traduce la formula con «non posso dirlo in modo più corretto di così…» e mantiene la stessa traduzione tutte le volte in cui è Samad a pronunciarla. Quando tocca a Millat fare un esame di coscienza sul suo impegno spirituale di musulmano, Grimaldi opta invece per una traduzione diversa. Questa è la descrizione del dilemma di Millat, che rimanda evidentemente a quello che aveva affrontato il padre decenni prima: He smoked the odd fag and put away a Guinness on occasion (can’t say fairer than that), but he was very successful with both the evil weed and the temptation of the flesh (Smith 2000, 444).
In traduzione il testo diventa: «Fumava una sigaretta una volta ogni tanto e buttava giù una Guinness solo in certe occasioni (a essere sinceri), ma andava veramente forte riguardo all’“erba cattiva” e alle tentazioni della carne» (Grimaldi 2000, 454).
Per il lettore italiano è impossibile cogliere il richiamo, facendogli perdere quindi una componente importante del racconto: la ripetizione di certi schemi nel rapporto – conflittuale – tra padre e figlio.
Conclusioni
La traduzione di White Teeth risale ormai a diciassette anni fa, un tempo non breve se si tiene in considerazione che i Translation Studies sono una disciplina relativamente giovane. In questo lasso di tempo si è evoluta l’attenzione dedicata alla traduzione, sia in ambito formativo sia per il pubblico più ampio. Questo implica una diversa sensibilità, anche per quanto riguarda tematiche legate agli studi coloniali. In questo senso, la traduzione di Grimaldi è molto attenta a conservare la peculiarità delle voci dei personaggi presenti nel romanzo. Ricorre ad esempio ad alcune caratteristiche tipiche dell’italiano orale, sottolineando quindi in modo efficace la presenza di un inglese non standard, con tutto quello che comporta per la comprensione dei diversi livelli di significato del testo.
È nella voce narrante, tuttavia, che la traduzione rivela delle debolezze: si perdono dei riferimenti significativi alla storia e alla cultura inglese e delle ripetizioni intenzionali che danno coesione al romanzo. Anche i riferimenti alla varietà di lingue presenti viene semplificata a favore del lettore. Oggi, probabilmente, la traduzione verrebbe affrontata in modo diverso, mantenendo maggiore il grado di “opacità” che caratterizza la scrittura postcoloniale ed evitando alcune scelte addomesticanti nella traduzione per permettere al lettore di sperimentare a pieno la diversità. In italiano, i Denti bianchi di Smith hanno perso un po’ del loro mordente.
Bibliografia
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Morta la scrittrice Laura Grimaldi, una vera signora in giallo (non firmato), in «la Repubblica», 3 luglio 2012