Opportunità, opportunismo e politiche di genere

LA NARRATIVA PERSIANA IN ITALIANO

di Anna Vanzan

La cornice concettuale

iran_donne_xin--400x300In Iran, fino a tempi recenti la letteratura è stata dominata dagli uomini. Tuttavia, dopo lo scoppio della Rivoluzione Islamica (1978-79) le iraniane hanno dato il via a una copiosa produzione e ora costituiscono l’avanguardia del movimento letterario. Nella Repubblica Islamica d’Iran (d’ora innanzi RII) vi sono centinaia di donne che scrivono, prevalentemente prosa di finzione, ma solo le opere di alcune di loro sono state tradotte nelle principali lingue europee. In genere, le maggiori case editrici preferiscono tradurre testi di autori che vivono negli Stati Uniti o in Europa e che scrivono in una lingua europea; sono piuttosto i piccoli editori che osano tradurre libri direttamente dal persiano, incoraggiati anche dal fatto che la RII non aderisce ai trattati internazionali sul copyright e quindi non vi è obbligo di retribuire gli autori che lì risiedono. A ogni modo, la tendenza generale (ovviamente esistono eccezioni) è quella di tradurre autori, ma soprattutto autrici, che forniscano una “autentica” testimonianza delle persecuzioni subite in quanto donne iraniane/musulmane, poiché sono considerate informatrici locali (native informants) in grado di corroborare l’abusato modello delle donne musulmane oppresse e prive di agentività. Soprattutto dopo il successo internazionale di Reading Lolita in Tehran(Nafisi 2003), gli editori continuano a essere a caccia di un analogo best seller; così facendo, promuovono un genere letterario particolare, quello della “letteratura dell’oppressione”. Negli ultimi vent’anni si è assistito a una vera e propria serializzazione di biografie scritte da irano-americane, che ormai hanno saturato il mercato. Fra le varie conseguenze di questa moda, segnaliamo come questa letteratura ampiamente distribuita e che vende bene abbia promosso la competizione di marca “orientalista” (nella peggiore accezione del termine) tra un Occidente moderno, razionale e femminista, e un Oriente musulmano immobile e profondamente misogino. Tale scelta editoriale, inoltre, ha favorito gli autori che vivono in Occidente a discapito di quelli che vivono in Iran: i primi, poiché non sono sottoposti a censura e scrivono direttamente in una lingua occidentale, sono immediatamente accessibili e la commerciabilità dei loro testi facilmente testabile da parte degli editori prima ancora di pubblicare il libro. Di conseguenza, le scrittrici irano-americane e irano-europee non solo sono incoraggiate ad aderire al canone neo-orientalista che perpetua un ritratto perennemente cupo delle donne mediorientali; sono anche facilitate dallo scrivere in una lingua che non pone al traduttore, all’editore e ai lettori le sfide del testo originale persiano. Il persiano è una lingua ricca di ambiguità grammaticali e strutturali che talvolta rendono la sua traduzione problematica; ma sono proprio queste caratteristiche che permettono agli autori di eludere la censura e creare una nuova letteratura di sfida, come vedremo.

Il panorama italiano: genesi

Come si verifica in generale, anche nel caso della letteratura persiana i mercati librari dei paesi anglofoni e quello francese sono più generosi degli altri nei confronti dei loro lettori, cui offrono un’ampia selezione di letteratura femminile iraniana contemporanea. Il caso italiano è invece emblematico in senso negativo. È ben noto come nel nostro paese soffriamo di provincialismo culturale che ci spinge a tradurre autori extra-europei solo dopo che sono stati tradotti in inglese o in francese. In altre parole, gli editori non vogliono rischi e quindi traducono autori già sperimentati dai mercati anglofoni e francofoni; e ciò va a svantaggio dell’originalità e dell’iniziativa imprenditoriale. I piccoli editori, invece, dimostrano coraggio maggiore dei giganti editoriali ma, non beneficiando di una capillare distribuzione, i loro titoli sono più difficilmente pubblicizzati, reperibili e quindi diffusi.

Una ricerca (Notarbartolo 2012) ha dimostrato che dopo l’11 settembre l’appetito del pubblico italiano e la sua curiosità nei riguardi delle donne mediorientali sono cresciuti, provocando così una sostanziosa crescita di traduzioni di letteratura araba contemporanea. Il genere dominante è quello dell’autobiografia o delle “storie vere”, al solito tendenti a corroborare l’immagine delle donne dell’Islam come perenni vittime del patriarcato locale. Questo paradigma viene cercato anche nel campo della letteratura persiana, benché le autrici d’Iran siano assai meno rappresentate di quelle del mondo arabo. Gran parte delle traduzioni a nostra disposizione, inoltre, è stata condotta partendo da opere originalmente scritte in francese o inglese da iraniane in diaspora. Al momento (settembre 2015) solo una decina di romanzi di autrici iraniane scritti originariamente in lingua persiana sono pubblicati in italiano (vedi, in Bibliografia, sotto le Traduzioni italiane, l’elenco A); segnalo inoltre due collezioni di racconti brevi (vedi in Bibliografia l’Elenco B) e un’antologia pionieristica di quindici racconti firmati da altrettante autrici (Vanzan 1998).

La storia dei romanzi tradotti merita alcune considerazioni. I primi a essere stati resi in italiano appartengono alla stessa autrice, Shahrnush Parsipur. Nel 2000, la piccola AIEP di San Marino pubblica il suo romanzo più controverso (leggi: censurato in Iran), Donne senza uomini (Parsipur 2000, traduzione di Anna Vanzan). Nonostante il successo che fa rapidamente esaurire il libro, AIEP non lo ristampa. Il romanzo è invece ripubblicato nel 2004 dalle edizioni Tranchida, con una traduzione collazionata da lingue europee (Parsipur 2004a, traduzione di Paola Monteverdi). Nel 2004 la stessa casa editrice aveva pubblicato un altro romanzo di Parsipur, Tuba e il significato della notte (Parsipur 2004b, traduzione di Giulia Baselica), tradotto dalla versione tedesca. Per gli stessi tipi nel 2011 è pubblicata anche la collezione di racconti brevi La cerimonia del tè in presenza del lupo, uscita simultaneamente in persiano e in inglese negli Stati Uniti, dove Parsipur s’è trasferita da tempo. L’edizione inglese (Tea Ceremonyin the Presence of a Wolf, 1993) è curata da Afshin Nassiri, che risulta anche il traduttore della versione italiana, chiaramente condotta dall’inglese (Parsipur 2011, traduzione di Afshin Nassiri e Paola Roveda). In conclusione, le uniche traduzioni delle opere di Shahrnush Parsipur ora disponibili sul mercato italiano sono traduzioni di seconda mano.

Prosa femminile d’Iran in Italia: un passo avanti e due indietro

La situazione è leggermente migliorata negli ultimi cinque anni con la creazione di Ponte 33, una piccola casa editrice che si occupa esclusivamente di cultura persianizzante (quindi non solo letteratura d’Iran ma anche dei paesi persianofoni come l’Afghanistan) e impegnata a tradurre dal testo originale indipendentemente dal sesso dell’autore.

Tuttavia, le maggiori case editrici rimangono fredde nei confronti della prosa contemporanea dell’altopiano, con qualche eccezione. Ad esempio, la grande casa editrice Garzanti nel 2010 ha reso disponibile il romanzo di Parinoush Saniee Quello che mi spetta (Saniee 2010, traduzione di Narges Ghlizadeh Monsef e Sepideh Rouhi). È interessante osservare come l’opera viene presentata al pubblico nostrano. Ancora prima del titolo, una nota ci ammonisce: «L’Iran è in rivolta. Una donna prigioniera della tradizione. Anche amare è peccato» (Saniee 2010). Nel risvolto di copertina, un riassunto della trama fa capire al lettore che si tratta dell’usuale, ma evidentemente ricercata, storia di violenza perpetrata contro le donne d’Iran «prigioniere della tradizione, che lottano ancora, in questi giorni e queste ore, contro il fanatismo». L’editore gioca inoltre la carta dell’“unicità”, affermando che il libro in Iran era stato un immediato best seller, ma che, dopo l’attacco della censura, è stato proibito e bandito. Sfortunatamente, la storia editoriale dell’Iran contemporaneo è cosparsa di simili episodi, ma purtroppo è questo fattore che contribuisce decisamente a far tradurre e pubblicare questo e non altri romanzi disponibili in persiano, assai più originali e di valore. Ciò non significa che la prosa che coinvolge e critica le condizioni sociali delle donne nella RII non meriti d’essere tradotta, tutt’altro.

La copiosa produzione letteraria delle autrici che vivono in Iran è profondamente imbevuta dei problemi che devono affrontare ogni giorno; la peculiarità è nel come queste tematiche sono articolate e trattate nei loro racconti e romanzi, e nelle tecniche narrative che costituiscono la caratteristica più originale di questa prosa. Le migliori autrici riescono a creare un’atmosfera ricca di ambiguità grazie al loro sapiente uso dei mezzi che la lingua persiana offre, come, ad esempio, la mancanza di differenziazione tra genere maschile e femminile. Il persiano è infatti una lingua genderless, ovvero gli stessi nomi, pronomi e aggettivi vengono usati sia per il genere maschile sia per quello femminile. Ad esempio, il pronome و (u) è usato tanto per significare “lui” quanto “lei” oppure un soggetto neutro (animale domestico o altro). Anche aggettivi e verbi non hanno connotazione di genere, così che una certa ambiguità si palesa nella frase. Perciò, l’asserzione u dust-e aziz-am ast ha diversi significati: «Lui è il mio caro amico» o «Lei è la mia cara amica». Anche il sistema di punteggiatura è differente da quello usato nella maggior parte delle lingue europee; il persiano, tra l’altro, non conosce l’uso della maiuscola nel corpo del testo. Di conseguenza la sopracitata frase potrebbe anche significare «Lui (Dio/entità superiore) è il mio caro Amico».

Ovviamente, tale struttura grammaticale consente una grande gamma di giochi di significato e, al contempo, permette agli scrittori di celare il vero obiettivo delle loro parole. Sebbene sia un’antica caratteristica della lingua e letteratura persiane, questa peculiarità è costante oggetto di raffinata revisione e viene accordata, come uno strumento, per sfuggire a una censura il cui sguardo acuto si è fatto ancora più sofisticato, tanto da indurre gli scrittori a ricorrere a un linguaggio sempre più allusivo, spesso ellittico.

Nella sua versione migliore, la prosa contemporanea femminile è capace di denunciare le contraddizioni in cui vivono le iraniane, soprattutto le sfide quotidiane che il patriarcato lancia contro di loro, sintetizzabili in: un diritto di famiglia penalizzante; costumi patriarcali mascherati da regole politico-pseudoreligiose; una profonda crisi economica che paralizza l’imprenditorialità femminile. Tuttavia, questa letteratura riesce a esprimere una penetrante critica attraverso l’invenzione e l’adozione di stili originali, che creano un prodotto nuovo e danno un inedito corso alla storia letteraria dell’altopiano: un’operazione complessa, che trova riscontro presso i lettori locali, i quali sostengono questa letteratura comperandola e premiandola, mentre quelli occidentali ne sono poco consapevoli e rimangono interessati a, e intrappolati in, aspetti più “esotici”.

Vediamo, ad esempio, come il succitato romanzo di Parinoush Saniee, Quello che mi spetta, riesca a far suonare le corde occidentali (in questo caso, italiche); il colophon ci informa che si tratta di una «traduzione dal farsi». Farsi significa “persiano/a” in lingua, appunto, persiana; così come i tedeschi dicono di parlare Deutsch e i greci si riferiscono alla loro lingua come ellinika, gli iraniani usano farsi per identificare la forma parlata e scritta della lingua che usano da migliaia di anni. In altre parole, la versione corretta del colophon dovrebbe essere «traduzione dal persiano». Non si tratta di una precisazione pedante, bensì di una questione che da anni è divenuta oggetto di un acceso dibattito culturale e politico a livello internazionale. Negli ultimi decenni (ricordiamo che la RII è stata instaurata nel 1979), l’uso del termine farsi invece del corretto “persiano” è divenuto un neologismo come aggettivo generale indicante, appunto, la lingua persiana. Quest’uso genera confusione, suggerisce una divisione tra le popolazioni parlanti persiano e crea un alone di non necessario esotismo. Vi sono numerosi appelli di studiosi, e non, per evitare l’uso del termine farsi nei contesti sbagliati (un buon compendio è in Suren-Pahlav 2007), ma, evidentemente, come testimonia la versione italiana del romanzo di Parinoush Saniee,il suo sapore esotico continua a esercitare un irresistibile richiamo.

Problemi tecnici delle traduzioni: going global

Che siano le forze di mercato a svolgere il ruolo principale nella scelta dei libri da pubblicare e quindi da tradurre è risaputo. Negli ultimi decenni, le strategie di marketing hanno puntato soprattutto sulla corrente neo-orientalista: mentre, in passato, l’orientalismo aveva lanciato il filone “memorie dal harem” colorato di sensuale paternalismo, il neo-orientalismo ha imposto una pletora di diari, romanzi e (auto)biografie che lamentano l’infelice situazione delle musulmane. Allo scopo di raggiungere il pubblico, questi documenti devono rispondere a un requisito fondamentale, quello della traducibilità, intesa non tanto come una necessaria comprensibilità quanto come la possibilità che la loro lingua sia adattata/trasformata fino a perdere ogni caratteristica peculiare, con il risultato che vengono annullate anche le relative connotazioni culturali.

Nel caso del persiano, lingua ricca di allitterazioni e di ripetizioni, va da sé che la maggior parte dei redattori nostrani tenda a cancellare queste peculiarità della retorica dell’altopiano (dove il saper maneggiare la retorica è da secoli e secoli ritenuto un tratto distintivo e imprescindibile), considerandole ridondanti. Altro elemento di cui è ricco il persiano sono i sinonimi, caratteristica che si riflette anche in letteratura, i cui autori spesso rafforzano le descrizioni aggiungendo una serie di aggettivi dallo stesso significato. Molte ripetizioni consistono invece in un nome o un aggettivo accanto al quale si pone un termine con un suono simile, magari senza significato (reduplicazione). Ad esempio, nella frase berim dokan-e tala-mala negah konim, ovvero «andiamo a guardare i negozi di gioielli», tala significa “oro” mentre mala non ha significato, ma implica l’idea di andare a zonzo davanti alle vetrine delle gioiellerie e una dose di complicità amichevole nell’intraprendere una piacevole attività.

Per non parlare poi del complesso rituale che prende il nome di ta’orof , consistente in un’interminabile serie di espressioni codificate (e di posture del corpo) che costituiscono l’etichetta persiana. È inconcepibile, per fare un esempio, che due persone si scambino un semplice «buongiorno» quando s’incontrano (o si telefonano), perché saluti e richieste di informazioni sullo stato di salute dell’interlocutore devono essere ripetuti in modo gentile, anche deferente da chi è in posizione (per età, classe sociale o altro) subordinata (sull’argomento cfr. Beeman 1986). La letteratura contemporanea riflette questo cerimoniale, anche se su scala minore rispetto a quanto accade nel quotidiano, ma a un palato occidentale tali procedure appaiono come artifizi superflui e ridondanti, sui quali gli editori operano vere e proprie cesure. Concordo che una “limatura” spesso sia indispensabile, ma, al contempo, credo sia necessario mantenere parole ed espressioni che, sia pure non essenziali agli occhi occidentali abituati a vite frenetiche, rendono invece il sapore del testo originale, trasmettendo un importante aspetto della cultura iraniana che altrimenti rimane sconosciuta e tradita nell’atto del tradurre.

Ironicamente, invece, la preoccupazione per la “traducibilità” – intesa come semplificazione e abbreviazione del testo originale – a volte conduce al fenomeno dell’overtranslation. Ciò è evidente nel caso di parole che hanno bisogno di spiegazione ma per le quali l’editor vuole evitare la nota. Un comune esempio nel nostro caso è rappresentato da due parole che denotanoaltrettanti oggetti pregni di significato: manteau e rusari.

Il manteau (termine d’origine francese) indica una sorta di soprabito/lungo camicione che le donne in Iran, tanto le locali quanto le straniere, devono indossare quando appaiono in pubblico. Rusari è l’obbligatorio copricapo consistente in un foulard o una sciarpa per coprire i capelli. Insieme, questi due capi costituiscono il hijab che non è semplicemente un tipo di velo, come indicato spesso nella stampa e anche in alcuni dizionari (v. infra), ma che indica il codice vestiario completo prescritto per le donne musulmane, obbligatorio per legge in alcune entità statali (come quella della RII) in quanto non rivela le forme del corpo. Generalmente, i redattori evitano le note a piè di pagina in un testo di finzione, ma in qualche modo devono comunicare l’aspetto materiale di manteau e rusari. Ecco un esempio di come alcuni curatori hanno affrontato il problema: «[…] mi concesse di uscire coperta solo di manteau e di rusari – cioè di spolverino e di foulard in testa» (Saniee 2010, traduzione di Narges Ghlizadeh Monsef e Sepideh Rouhi, 9). Non solo questa soluzione interrompe la narrazione ma è anche innaturale: in un romanzo, poniamo, inglese, in cui la protagonista stia indossando un paio di jeans, ci sarebbe forse bisogno di spiegare di che tipo di pantaloni si tratta?

In altri casi, l’overtranslation aggiunge un inopportuno pizzico di esotismo: «Non mi ricordo affatto di aver pronunciato il baleh – il sì – della cerimonia. Khanum Jun mi stringeva forte il braccio e continuava a sussurrarmi minacciosa all’orecchio: “Di’ baleh! Di’ baleh!”» (ibid., 91). Baleh significa semplicemente “sì” nella lingua persiana usata quotidianamente e come tale andrebbe tradotto: non c’è bisogno di lasciarlo in originale.

A ogni modo, come soluzione generale per questo tipo di problemi, è assai meglio aggiungere un glossario che provvede alla necessaria spiegazione senza interferire col flusso della narrazione e quindi della lettura. Nel glossario si possono anche aggiungere quelle parole che sono entrate sì nel linguaggio della lingua d’arrivo, ma con la denotazione errata. Un tipico esempio è rappresentato dal termine chador/چادر. Questa parola persiana può essere traslitterata in vari modi, ad esempio, chādor o čādor. La maggioranza dei curatori italiani sceglie la versione chador in corsivo oppure in tondo, presumo perché i maggiori dizionari della lingua italiana riportano il termine in questa forma, che è quella corrente in lingua inglese. Tuttavia, la definizione data dai dizionari non è accettabile in quanto errata e fuorviante. Infatti, l’autorevole Zingarelli descrive il chador come: «lungo velo che copre la testa e il volto, lasciando scoperti solo gli occhi, generalmente indossato dalle donne di religione islamica» (Lo Zingarelli 2009, 431). Inoltre tale definizione, ripresa da altri dizionari, anche on line, riporta una data, 1979, come se il chador fosse stato creato in quell’anno. Si tratta invece di un tipo di velo che esiste da secoli, solo che è diventato famoso in Occidente nel 1979, quando le iraniane furono riprese dai media di tutto il mondo mentre sfilavano per le strade coperte da chador per protestare contro il regime occidentalizzante dello shah Pahlavi. La definizione è scorretta perché si tratta di un copricapo della tradizione persiana e come tale indossato dalle donne d’Iran: le musulmane d’altri paesi indossano altri tipi di velo con altre denominazioni. Ma, cosa più importante, il chador non copre la faccia. Lasciare la parola chador senza spiegazione nel glossario o in nota fa sì che i lettori usino una definizione sbagliata a detrimento dell’immagine delle iraniane, che continuano a essere rappresentate come creature coperte e appesantite da un velo che non lascia nemmeno libera la faccia. Come nel caso della non necessaria spiegazione del termine originale baleh, la versione comune del termine chador contribuisce a mantenere vive le dinamiche del neo-orientalismo. Tra l’altro, sarebbe più sensato ricorrere alla traslitterazione ciador che non solo consente al lettore italiano l’esatta pronuncia del termine originale, ma eviterebbe l’ennesimo inchino tributato dalla nostra cultura a quella egemonica anglosassone, che usa perlopiù, appunto, la versione chador; e ciò costituirebbe un piccolo segno della volontà di non rimanere nei confini culturali della lingua inglese e di ribellarsi all’imperio coloniale che detta che cosa e chi tradurre.

In persiano, così come in altre lingue, vi sono parole che hanno una chiara risonanza culturale per il pubblico locale e nessuna per la comunità linguistica che legge in traduzione. Alcune di queste parole veicolano un contesto socio-culturale e sono assai frequenti nella letteratura scritta dalle donne e/o su di loro. Prendiamo l’esempio del termine mahram e del suo contrario, namahram: il primo, che significa letteralmente “illecito” si riferisce a un uomo, anche un familiare della donna, quale il padre, il fratello, il figlio ecc., con il quale è illecito contrarre matrimonio (ovvero, avere rapporti sessuali) e in presenza del quale una musulmana non è tenuta a velarsi. L’opposto namahram indica un estraneo, qualcuno cui non è lecito entrare nel harem (altra parola pesantemente connotata!): non solo una donna deve coprirsi i capelli in presenza di un namahram, in alcuni contesti fra i due è addirittura proibita la condivisione dello stesso spazio. Questo è il caso della RII, perlomeno a livello ufficiale. In una scena del romanzo Sole a Tehran (Fereshteh Sari 2014, traduzione di Anna Vanzan), ambientato nei tumultuosi anni del post rivoluzione i cui avvenimenti sono visti attraverso gli occhi di un gruppo di amiche, una di loro, Roia, spiega come, per aiutare un musicista male in arnese, Ashkan, avesse dapprima pensato di rimanere nell’appartamento dell’amico mentre lui dava lezioni di piano a una studentessa (per la quale, appunto, lui era namahram), di modo che, in caso d’irruzione della buoncostume, non si fosse trovato solo con una ragazza. Ma, aggiunge Roia, aveva subito desistito, rendendosi conto che pure lei era namahram per Ashkan e rischiava quindi di essere duramente punita. In questo caso, la traduttrice decide di lasciare il termine originale nel testo e di spiegarlo in glossario: avrebbe potuto essere altrimenti? Namahram è una parolatalmente pregna di significati culturali che anche parafrasandola non si restituirebbe la vasta gamma d’implicazioni culturali, sociali, legali e politiche che essa comprende. Attraverso il glossario, i lettori possono non solo comprendere la complessità del termine, ma anche ricevere uno stimolo per ulteriori letture e approfondimenti verso una migliore comprensione dello status delle donne iraniane e musulmane in generale.

Il glossario è quindi indispensabile, salvo che non si voglia ricorrere alle note, e ciò comporta la doverosa visibilità del traduttore/curatore; ma a questo punto è necessaria una riflessione sulle teorie femministe in merito alla traduzione. Sono stati proprio gli studi femministi, infatti, a sottolineare l’indispensabilità di una presenza attiva del traduttore nella prefazione e nelle note (Von Flotow 1991). Certo, le teorie di traduzione femministe non sono le uniche ad affermare la necessità di fornire prefazione e note esplicative a un testo, ma la loro insistenza su questo punto è proverbiale. Gli studi femministi hanno enfatizzato la richiesta di Lawrence Venuti di dare visibilità al traduttore, affermando l’assoluta necessità di palesare la sua identità in quanto, tra l’altro, il lavoro svolto consiste in una ricreazione del testo originale. Certamente, le teoriche femministe quali Lori Chamberlain (Chamberlain 1988) hanno in mente la discriminazione nei confronti delle traduttrici che, per ragioni di politiche di genere, sono ancora più bistrattate dei loro colleghi; ma il principio è applicabile a ogni traduttore, senza distinzione di sesso.

Nel caso della letteratura persiana femminile, la questione della visibilità del/la traduttore/rice e del suo impegno e ruolo convergono. La traduzione diviene paradigmatica dell’atteggiamento dei lettori del paese d’arrivo nei riguardi della cultura dell’autrice: pertanto, la traduzione ha la responsabilità di evitare una non necessaria esotizzazione del testo e i traduttori hanno l’imperativo morale di negoziare con il redattore/editore affinché ciò non avvenga. Il traduttore sostiene la maggiore responsabilità estetica, ideologica e politica del lavoro ma, come noto, l’editore ha l’ultima parola. Di conseguenza, i traduttori dovrebbero insistere nel valorizzare tanto le differenze quanto l’importanza di non enfatizzare elementi che sono divenuti parte del processo quotidiano di denigrazione della cultura persiana. May Mikhdashi avvisa: «Evitate superficialità e generalizzazioni. A volte un hijab è solo un hijab, e a volte no» (Mikhdashi 2012 – traduzione mia).

Anche un’eccessiva enfasi sugli aspetti “religiosi” della cultura e della vita degli iraniani può risultare fuorviante: è ovvio che l’Iran è un paese musulmano, e non solo perché da oltre trent’anni è governato da una teocrazia islamica, ma in quanto negli ultimi quattordici secoli la maggioranza della sua popolazione ha aderito all’Islam. Tuttavia, non è necessario ridurre ogni aspetto della cultura persiana alla sfera religiosa. Ad esempio, la comunissima espressione dast-e shoma dard nakonad, letteralmente «che la sua mano possa non dolere» è usata semplicemente per significare «grazie per il disturbo»: non c’è alcun riferimento a Dio/Allah né alcuna sfumatura religiosa. Tuttavia, nel doppiaggio italiano di molti film iraniani la frase è tradotta come «sia benedetta la sua mano», come se anche il più piccolo gesto della quotidianità sull’altopiano fosse succube della religione.

Queste raccomandazioni non significano che il traduttore debba rubare la scena all’autore, ma solo che una prefazione e opportune note possono aiutare il lettore a contestualizzare meglio il testo e ad apprezzarlo come lavoro letterario anziché come una descrizione sociologica dello status delle iraniane. A questo proposito, l’ideale sarebbe che ci fosse collaborazione fra autore e traduttore, se possibile: l’autore può chiarire passaggi oscuri, perché, non dobbiamo dimenticarlo, la censura è sempre all’erta e spesso il significato reale è mascherato da uno spesso strato di simboli e di immagini surreali.

Verso una nuova etica della traduzione

Nel 1995 Venuti ha scritto che la violenza etnografica della traduzione è inevitabile (Venuti 1995). Ora è tempo di cambiare, ma dobbiamo compiere una riflessione seria e critica sulla traduzione partendo dalla questione dello sbilanciamento tra cultura del testo originale (in questo caso, la cultura persiana) e quella dei lettori. Benché in questo intervento mi riferisca soprattutto al contesto italiano, l’assenza di analisi critica sulla traduzione da testi di prosa contemporanea persiana al femminile è un fenomeno globale. È indicativo che le riviste specialistiche iraniane siano ricche di articoli sulle problematiche della traduzione dall’inglese al persiano, mentre il dibattito scientifico internazionale sulla traduzione persiano-inglese è confinato alla poesia classica persiana, sia pure con molti e pregevoli studi.

Il caso della letteratura femminile contemporanea persiana è paradigmatico e costituisce un’arena dove interagiscono elementi di etnocentrismo, di neo- orientalismo, di colonialismo culturale, di sfruttamento tanto delle autrici quanto dei traduttori, di dominio dei mercati editoriali e di ricezione internazionale. Prima di tutto, dovremmo ricordare che «un testo letterario o politico che in un contesto è giudicabile come radicale e liberatorio in un altro può divenire un agente del colonialismo» (Ashcroft et al. 1995, 250, traduzione mia). Come detto, la scena letteraria iraniana è ricca di letteratura femminile “impegnata”, ovvero di letteratura “alta” che al contempo ci informa su quanto sta realmente succedendo nel paese; quindi non è necessario selezionare e tradurre lavori più simili a un saggio di sociologia che a un romanzo. Secondo, anche quando un buon lavoro letterario riesce a passare il setaccio del mercato editoriale, non c’è bisogno di sezionarlo sperando di trasformarlo in un commento socio-politico. Dopo la pubblicazione italiana di alcuni loro lavori, Fereshteh Sari e Nahid Tabatabai sono venute nel nostro paese per presentarli e parlare di letteratura, ma con loro sorpresa si sono viste interrogare soprattutto, se non esclusivamente, in merito alla situazione politica iraniana. Nei loro incontri hanno sottolineato il fatto di essere delle letterate, ma il tenore delle domande è rimasto di natura socio-politica.

Allo stesso modo, è pretestuoso ridurre ogni pagina scritta da un’artista iraniana a un saggio femminista. Una delle scrittrici dell’altopiano più famose e tradotte, Goli Taraghi, è stata recentemente etichettata come autrice con «un’agenda femminista» (Vafa 2014). Ironicamente, Goli Taraghi ha costruito la propria carriera letteraria scrivendo spesso in prima persona maschile e rifiuta di essere definita “femminista”.

La distorta rappresentazione delle iraniane è dovuta a diversi fattori, alcuni dei quali coinvolgono la ricezione all’estero della letteratura da loro prodotta. Fintanto che le storie esotiche divengono dei best seller oltreoceano, ci saranno scrittrici (e scrittori) che le produrranno per consumo esterno. Questa complicità col colonialismo culturale può finire e i traduttori possono contribuire al cambiamento, non solo ponendo all’attenzione generale queste problematiche, ma anche promuovendo i tanti esempi di buona letteratura persiana che attendono di essere tradotti e conosciuti.

Bibliografia

Ashcroft et al. 1995: Bill Ashcroft, Gareth Griffiths, Helen Tiffin, Introduction alla sezione Feminism and Post-colonialism, in Idem (eds), The Post-Colonial Studies Reader, London & New York, Routledge

Beeman 1986: William Beeman, Language, Status, and Power in Iran,Bloomington, Indiana University Press

Chamberlain 1988: Lori Chamberlain, Gender and the Metaphoric of Translation, in «Signs», 13, 3, 454-472

Mikhdashi 2012: Maya Mikhdashi, How not to Study Gender in the Middle East, in «Jadalyya», March 21, 2012 (http://www.jadaliyya.com/pages/index/4775/how-not-to-study-gender-in-the-middle-east)

Nafisi 2003: Azar Nafisi, Reading Lolita in Tehran, New York, Random House

Nafisi 2004: Azar Nafisi, Leggere Lolita a Teheran, Milano, Adelphi (traduzione di Roberto Serrai da Nafisi 2003)

Notarbartolo 2012: Lodovica C. Notarbartolo, Letteratura araba in Italia tra immaginari, stereotipi e prospettive, tesi di laurea inedita, Scuola di Mediazione, Università di Milano

Parsipur 2000: SharnoushParsipur, Donne senza uomini, San Marino, AIEP (traduzione di Anna Vanzanda Zanan bedun-e mardan, 1989)

– 2004a: SharnoushParsipur, Donne senza uomini, Milano, Tranchida (traduzione di Paola Monteverdi)

– 2004b: SharnoushParsipur, Tuba e il significato della notte, Milano, Tranchida(traduzione di Giulia Baselica)

– 2011: SharnoushParsipur, La cerimonia del tè in presenza del lupo, Milano, Tranchida (traduzione di Afshin Nassiri e Paola RovedadaTea Ceremonyin the Presence of a Wolf, 1993),

Saniee 2010: ParinoushSaniee, Quello che mi spetta, Milano, Garzanti(traduzione di Narges Ghlizadeh Monsef e Sepideh Rouhi da Sahm-e man, 2004)

Suren-Pahlav 2007: Shapour Suren-Pahlav, Persian not Farsi. Iranian Identity UnderFire: An Argument Against the Use of the Word ‘Farsi’ for the Persian Language, in «CAIS. The Circle of Ancient Iranian Studies», 2 July 2007(http://www.cais-soas.com/CAIS/Languages/persian_not_farsi.htm (ultima consultazione settembre 2015)

Vafa 2014: Amirhossein Vafa, The Predicament of Complicity with Hegemonic Masculinity in Goli Taraghi’s Another Place, «Middle East Critique», 23, 3, 261-276

Vanzan 1998: Anna Vanzan, Parole svelate. Racconti di donne persiane, Padova, Imprimitur

Venuti 1995: Lawrence Venuti, The Translator’s Invisibility. A History of Translation, London & New York, Routledge (ne esiste una traduzione italiana di Marina Guglielmi: L’invisibilità del traduttore. Una storia della traduzione, Roma, Armando 1999)

Von Flotow 1991: Louise Von Flotow, Feminist Translation: Contexts, Practices and Theories, in «TTR : traduction, terminologie, redaction», 4, 2, 69-84

Traduzioni italiane

ELENCO A

Fariba Vafi, Come un uccello in volo, Firenze, Ponte33, 2010 (traduzione di Hale Nazemi e Bianca Maria Filippini da Parandeh-ye man,2002);

Parinoush Saniee, Quello che mi spetta, Milano, Garzanti, 2010 (traduzione di Narges Ghlizadeh Monsef e Sepideh Rouhi da Sahm-e man,2004)

Nahid Tabatabai, A quarant’anni, Firenze, Ponte33, 2011 (traduzione di Camelia Zahra Rafatnejad da Chehelsalegi,2005)

Soheila Beshki, Particelle, Firenze, Ponte33, 2013 (traduzione di Mario Vitalone da Zarreh, Forough Books, Köln, 2009)

Fereshteh Sari, Sole a Tehran, Firenze, Editpress, 2014 (traduzione di Anna Vanzan da Aftab dar Tehran, inedito)

Sara Salar, Probabilmente mi sono persa, Firenze, Ponte33, 2014 (traduzione di Jasmine Nassirda Ehtemalan gom shodeh am, Teheran, Nashr-e Cheshmeh 2008)

Mahsa Mohebali, Non ti preoccupare, Firenze, Ponte33, 2015 (traduzione di Giacomo Longhida da Negaran nabash 2008)

ELENCO B

Nahid Tabatabai, La veste strappata, Torino, Edizioni del Leone Verde, 2003 (traduzione di Anna Vanzan da Jamedaran, 1997)

Goli Taraqqi, Tre donne, Roma, Edizioni Lavoro, 2008 (traduzione di Anna Vanzan da un racconto inedito in persiano e da due editi; rispettivamente Zeinab/Khedmatkar dalla raccolta Khatereha-ye parakande, ovvero Memorie Sparse, 19942; e Amineh/Safar-e bozorg-e Amineh, dalla raccolta Do donya, ovvero Due mondi, 20054). Altri racconti sono pubblicati in riviste specializzate in culture del Medio Oriente (ad es. «afriche&orienti» e «A Oriente!»)