La lotta per una lingua propria

NGUGI WA THIONG’O E L’AUTOTRADUZIONE IN GIKUYU

di Sara Amorosini

The choice of language and the use to which language is put
is central to a people’s definition of themselves in relation to their natural and social environment, indeed in relation to the entire universe

Ngugi 1986, 4

[La scelta della lingua e dell’uso ad essa assegnato è centrale
per la definizione che un popolo dà di sé in relazione con il proprio ambiente naturale e sociale
– anzi, con l’intero universo
Carbone 2015, 15]

ngugiLa presentazione all’ultima edizione del Salone del Libro di Torino di Decolonizzare la mente a quasi trent’anni dalla sua pubblicazione in lingua inglese (Ngugi 1986), edito ora in Italia da Jaca Book nella traduzione di Maria Teresa Carbone (2015), ha riportato sulla scena letteraria il noto scrittore e intellettuale keniota Ngugi wa Thiong’o.

La figura di Ngugi wa Thiong’o, periodicamente candidato al Nobel, ha un fascino particolare, oltre a essere di notevole importanza per i cultori dei postcolonial studies (africanisti e non). Professore di inglese e letterature comparate e direttore dell’International Center for Writing and Translation alla Irvine University (California), Ngugi ha all’attivo numerose pubblicazioni e traduzioni. Al centro della sua riflessione, sia nelle opere di saggistica sia in quelle di narrativa, la lotta contro l’imperialismo in ogni sua forma.

Fin dalle prime esperienze di giornalismo, quando da giovane neolaureato (tra il 1962 e il 1963) tiene la rubrica dal nome As I See It sul «Daily Nation» di Nairobi, Ngugi sostiene fermamente l’importanza di una condizione equa tra l’ex colonia e l’ex madrepatria, che nella sua visione va sviluppata attraverso tre fasi: l’indipendenza politica, l’indipendenza economica e l’indipendenza psicologica (Cook 1983, 14). Ottenuta la prima, molto discutibile la seconda, secondo Ngugi il vero problema dell’individuo postcoloniale è la terza fase, che richiede una vera e propria “decolonizzazione della mente”, un concetto che verrà pienamente teorizzato vent’anni dopo in Decolonising the Mind. A questo proposito Ngugi sostiene che

La conquista dell’Africa è stata fatta con i cannoni, ma per rendere eterna tale conquista dovevano intervenire sulle scuole, sulla formazione delle élites, trasformare la pluralità in una sorta di monoglottismo del capitale. Dovevano incantare l’anima e la mente, asservendole silenziosamente (Dotti 2015, 10).

Già nel numero del 21 aprile 1963, in un pezzo intitolato As I See It: Mboya is Right – Education is an Investment, Ngugi scriveva che il sistema dell’istruzione coloniale aveva prodotto una serie di persone dalla doppia mentalità: un estremo complesso di inferiorità da una parte e un altrettanto estremo senso di dipendenza dall’altra. L’accusa principale è quella di inserire lo studio della storia africana all’interno dei prigrammi scolastici come una mera estensione di quella europea, come se questa fosse cominciata solo a partire dalle missioni europee, cosa che fa sì che il bambino africano per molto tempo pensi di non avere una storia (Cook 1983, 15-16). Gesso e lavagna si erano rivelati armi ben più efficaci delle pallottole (Ngugi 2015, 21). Di conseguenza, secondo Ngugi, l’unico modo e veicolo per porre rimedio a questo stato di cose è la rivalorizzazione della lingua e della cultura native, pre-coloniali.

Appunti su questi presupposti Ngugi ha progressivamente costruito la sua produzione letteraria. In The River Between (1965), il suo secondo romanzo pubblicato ma il primo ad essere stato scritto, Ngugi comincia a sviluppare già buona parte dei temi che ricorreranno anche nelle narrazioni successive, tra cui le diverse reazioni all’arrivo dei coloni europei: complicità, rifiuto e adattamento (Mapanje 2002, x). Questo testo si inserisce in quella che Jack Mapanje definisce the classical tradition of realistic fiction and in impeccable received English (p. xiii) (la tradizione classica della narrativa di stampo realistico scritta in un inglese standard impeccabile) e che ricorda molto la produzione iniziale di altri autori africani, come l’ormai canonico Things Fall Apart di Chinua Achebe. Successivamente, nella prefazione a The Trial of Dedan Kimathi, scritto insieme a Micere Githae Mugo, Ngugi si chiede (e chiede al lettore) apertamente:

Why was Kenyan Literature on the whole so submissive and hardly depicted the people, the masses, as capable of making and changing history? Take the heroes and heroines of our history: Kimathi, Koitalel, Me Kitilili, Mary Nyanjiru, Waiyaki. Why were our imaginative artists not singing songs of praise to these and their epic deeds of resistance? Whose history and whose deeds were the historians and creative writers recording for our children to read? (Ngugi 1976, senza numerazione di pagina)

Ma perché la letteratura keniota era tutta così sottomessa e non ritraeva quasi mai le persone, le masse, come in grado di fare e cambiare la storia? Prendiamo gli eroi e le eroine della nostra storia: Kimathi, Koitalel, Me Kitilili, Mary Nyanjiru, Waiyaki. Perché i nostri artisti, così creativi, non cantavano canzoni di lode a loro e alle loro epiche gesta di resistenza? Di chi erano la storia e le gesta che gli storici e gli scrittori facevano leggere ai nostri figli?

L’evoluzione letteraria va di pari passo con la notevole produzione di Ngugi wa Thiong’o e si permeerà sempre di più della lingua e della cultura dei kikuyu (ad esempio, fin da The River Between, Ngugi specifica come la lingua gikuyu usata nel testo rispecchi fedelmente quella parlata nella zona), nella ferma convinzione dell’inscindibilità tra lingua e cultura:

 Culture is almost indistinguishable from the language that makes possible its genesis, growth, banking, articulation, and indeed its transmission from one generation to the next. […] Language carries culture, and culture carries, particularly through orature and literature, the entire body of values by which we come to perceive ourselves and our place in the world (Ngugi 1986, 15-16).

La cultura è quasi indistinguibile dalla lingua che ne rende possibile la nascita, la crescita, la preservazione, l’articolazione e la trasmissione da una generazione all’altra. […] La lingua veicola cultura e la cultura veicola, in particolare attraverso l’oratura e la letteratura, l’intero corpus di valori attraverso i quali percepiamo noi stessi e il nostro posto nel mondo (Carbone 2015, 27-28).

Tuttavia è sufficiente grattare un po’ sotto la superficie per rendersi conto di quanto il lavoro e la vita stessa di Ngugi si possano rivelare fondamentali non solo per ciò che riguarda l’atteggiamento linguistico in un paese dal passato coloniale, ma anche per una riflessione essenziale sul ruolo della traduzione. La questione della lingua si trova da sempre al centro delle lotte dell’autore, accompagnata intimamente da quella della traduzione in quanto passaggio da una lingua-mondo all’altra: potrebbe quasi definirsi una sfaccettatura più personale delle lotte pubbliche di Ngugi contro l’imperialismo e il neocolonialismo.

Ci si rende subito conto del fatto che questo tipo di prospettiva è in realtà un argomento sfaccettato che vede Ngugi wa Thing’o allo stesso tempo come autore tradotto da altri (in questo caso specifico, verso l’italiano), ma anche come traduttore dei propri testi, prima scritti in gikuyu e poi da lui stesso tradotti in inglese. Queste due facce della traduzione potrebbero infine trovare un connubio nel caso letterario rappresentato dal romanzo Matigari ma Njiruungi, pubblicato nel 1986 in gikuyu e nel 1989 in inglese con il titolo Matigari, nella traduzione della scrittrice keniota Wangui wa Goro, in quanto unico romanzo della sua vastissima produzione letteraria a essere stato tradotto (dal gikuyu all’inglese) da qualcuno che non fosse lo stesso Ngugi wa Thiong’o.

Ngugi tradotto in italiano

Il breve elenco, che si trova in calce a questo articolo, delle opere di Ngugi (che sono in totale oltre una cinquantina) tradotte in italiano permette di osservare almeno un paio di cose: l’interesse di lunga data per l’opera di Ngugi da parte dell’editore milanese Jaca Book e il sostanziale vuoto riscontrabile tra la fine degli anni settanta e la fine del secolo, con una lenta ripresa fino alla recente traduzione di Decolonising the Mind.

Tra la gli anni cinquanta e l’inizio degli anni sessanta si hanno le prime pubblicazioni di autori africani in lingua inglese, quella che Ngugi wa Thiong’o definisce «letteratura afro-europea» (Ngugi 2015, 46), di cui i più noti sono probabilmente i nigeriani Chinua Achebe con Things Fall Apart (1958) e Wole Soyinka, le cui prime opere teatrali appaiono, sempre nel 1958, con The Swamp Dwellers. Di questo periodo Marco Grampa (1997, vii-viii) afferma che:

L’Europa ha probabilmente perduto una grossa occasione quando, negli anni sessanta, la stagione più significativa del romanzo africano, ha sovente liquidato in gran fretta quella produzione stigmatizzando una incapacità degli autori a superare il logoro tema del conflitto tra due culture, lascito del colonialismo. Non ha compreso, allora, che quello era l’unico punto di partenza, di appoggio, per ulteriori avventure (ora non più liquidabili con altrettanta facilità). Era segno di un diverso porsi del romanziere e di una diversa finalità, di un diverso “consumo” del romanzo.

Asua volta Claudia Gualtieri (2014) ha osservato che bisognerà aspettare ancora un paio di decenni perché si risvegli l’interesse editoriale in Italia per gli autori di origine africana:

Alla fine degli anni Ottanta, l’accoglienza dello sguardo postcoloniale in Italia doveva formarsi non soltanto tramite il confronto critico nelle università, ma anche attraverso la diffusione e la lettura dei testi letterari. Pochissimi erano stati tradotti – tra cui Piangi terra amata [Cry, the Beloved Country] di Alan Paton, pubblicato in Sudafrica nel 1948 e tradotto nel 1958 [in realtà la prima edizione della traduzione di Maria Stella Ferrari per Bompiani risale al 1950 – nota mia], e Il bevitore di vino di palma [The Palm-Wind Drinkard, 1952] di Amos Tutola tradotto nel 1954 [da Adriana Motti per Bocca – idem] […]. Tra il 1987 e il 1996 furono pubblicati molti romanzi di autori africani e caraibici, tradotti in modo impeccabile e corredati da puntuali inquadramenti storici, culturali e linguistici, affinché il lettore potesse comprendere storie e visioni del mondo e della vita lontane e differenti dalle proprie. L’editoria di qualità gradualmente assunse il compito importante di tradurre nuove cosmologie e pratiche quotidiane per un pubblico ancora in parte inesperto e impreparato.

Partendo quindi da queste considerazioni, il quadro che appare è quanto meno contraddittorio e contro corrente: se da un lato le opere di Ngugi sono state tradotte prima di molte altre (e va sottolineato il fatto stesso di essere tradotte, e con ciò la lungimiranza dell’editore che ha voluto investire su di lui), dall’altro quest’opera di trasmissione al pubblico italiano si è bruscamente interrotta proprio quando la letteratura di origine africana e caraibica cominciava invece ad apparire in modo consistente sul mercato editoriale italiano.

Curiosamente, questa particolarità non si riflette nelle traduzioni in altre lingue europee. Ad esempio, non si può dire che abbondino le traduzioni in spagnolo e in francese, né nei primi anni di carriera di Ngugi né tanto meno in quelli più recenti. Al contrario, come mostra il minuzioso lavoro di ricerca bibliografica di Carol Sicherman (1989) e come si può verificare anche nel catalogo della Deutsche Nationalbibliothek più di recente, le traduzioni in tedesco sono puntuali e costanti nel tempo, pubblicate spesso a pochi mesi di distanza dall’edizione in lingua originale e periodicamente riviste.

A questa contraddizione dell’editoria italiana va inoltre aggiunta una sfortunata coincidenza. Ngugi wa Thiong’o esordisce nel mondo della letteratura a soli ventiquattro anni con la messa in scena – e la seguente pubblicazione – della pièce teatrale The Black Hermit (1962) al National Theatre di Kampala, in onore dei festeggiamenti per l’indipendenza dell’Uganda. Con la critica a favore, Ngugi pubblica di lì a poco ben tre romanzi: Weep Not, Child (1964), The River Between (1965) e A Grain of Wheat (1967). Negli anni successivi, di queste prime opere letterarie due vengono tradotte in Italia per Jaca Book nella collana «di fronte e attraverso»: Se ne andranno le nuvole devastatrici (traduzione di Marco Grampa da Weep Not, Child) nel 1975 e il già citato Un chicco di grano (sempre Grampa da A Grain of Wheat) nel 1978.

Marco Grampa si è occupato anche, sempre per Jaca Book, di Chinua Achebe, sia con la revisione di Dove batte la pioggia, il volume in cui nel 1977 l’editore ha riunito Il crollo (Things Fall Apart), Ormai a disagio (No Longer at Ease) e La freccia di Dio (La freccia di Dio), nellatraduzione di Silvana Antonioli Cameroni, sia, nello stesso anno, con la traduzione di A Man of the People (1966: Un uomo del popolo). Quella prima edizione di Un chicco di grano non è accompagnata, come vent’anni dopo la seconda, da un’introduzione del traduttore; Ngugi wa Thiong’o è alla sua prima apparizione in Italia, sconosciuto ai più, ed è forse a questo che si deve il titolo accattivante (più del titolo originale, preso da un verso di Walt Whitman citato in apertura) e il nome in copertina semplicemente come Ngugi. Di tutt’altro calibro è invece l’esaustiva introduzione, che già ho avuto occasione di citare, a Un chicco di grano nell’edizione del 1997, che permette di cominciare a riflettere non solo sul ruolo del libro all’interno della produzione letteraria di Ngugi, ma anche sul processo traduttivo che lo accompagna. A Grain of Wheat è considerato uno dei testi meglio riusciti e compiuti di un Ngugi wa Thiong’o ormai letterariamente maturo, e presenta una notevole complessità espressiva. Marco Grampa (1997, xi) accenna a uno dei problemi linguistici del testo:

Opposizione interessante nel romanzo è quella dell’uso incrociato dei tempi verbali, che si possono dividere in:
a) passato storico
b) imperfetto
Il passato storico svela un concatenarsi di avvenimenti, un come e un quando. Dice di un accaduto.
L’imperfetto segnala invece l’esperienza personale, l’emozione continua nel tempo e il riflesso che taluni fatti hanno sui singoli personaggi. Da ciascuno dei due piani narrativi si può passare all’altro nel breve volgere di un periodo.

Un commento simile oggi può sembrare quasi scontato, soprattutto visto il crescente interesse per il mestiere del traduttore, ma se pensato nel suo contesto di quasi vent’anni fa rivela invece qualcosa di più: un’informazione di qualità linguistico-sintattica che porta con sé una riflessione di tipo traduttivo. Grazie a questo “campanellino d’allarme”, di conseguenza, anche il lettore meno consapevole viene avvertito che dovrà prestare attenzione all’uso dei tempi verbali nella traduzione italiana, in quanto cifra stilistica dell’autore e chiave di interpretazione del testo.

A conferma di ciò anche David Cook, uno dei maggiori studiosi dell’opera di Ngugi wa Thiong’o, nota che l’autore fa spesso affidamento all’uso del simple past ma si avvale anche degli altri tempi verbali, dai più complessi al presente, a seconda dell’effetto che vuole ottenere in un determinato passaggio. In breve:

Thus, throughout, Ngugi’s apparent simplicity is in a sense deceptive. He is simple in that he writes prose which is easy to read, but not in the sense of avoiding the full range and variety of the English language (Cook 1983, 180-18).

L’apparente semplicità della scrittura di Ngugi rischia di trarre in inganno. È sì semplice nel senso che lui scrive una prosa facile da leggere, ma non certo nel senso di non sfruttare al massimo tutte le possibilità e la varietà della lingua inglese.

Tutt’altro approccio editoriale è stato invece adottato per il successivo Petals of Blood, tradotto con il titolo Petali di sangue nel 1979. Se si è scelto di corredare Un chicco di grano di una ricca introduzione, in Petali di sangue nella traduzione di Alda Carrer (1979) si è scelto di inserire un apparato paratestuale del tutto assente nel testo originale: una serie di note esplicative a fine libro e un glossario. Le note sono state usate per tradurre alcune citazioni, ma soprattutto per chiarire elementi culturali non immediati per il lettore italiano, come sigle e riferimenti letterari. A ciò si aggiunge il glossario, una lunga lista di termini in gikuyu tradotti in italiano.

Questi diversi approcci alla traduzione mostrano in effetti un’evoluzione nella tendenza editoriale. Mentre inizialmente si preferisce portare la cultura d’origine verso il lettore, offrendo il maggior numero possibile di spiegazioni, successivamente (soprattutto a partire dagli anni novanta) si cambia rotta e si fa sì piuttosto che un’introduzione esauriente guidi il lettore verso l’estraneo, con una maggiore consapevolezza del contesto e della cultura di provenienza. La svolta comporta la percezione delle peculiarità culturali dell’Altro già nella scrittura stessa, cosa che richiede anche e soprattutto una notevole consapevolezza da parte del traduttore che se ne occupa. Nel caso specifico di Ngugi e del suo inglese «chi traduce deve essere pronto ad accogliere l’uso non standard e non lasciarsi tentare da traduzioni generalizzanti che cancellino l’uso creativo dell’autore» (Cavagnoli 2010, 66).

Il decennio che va dal 1967-68 al 1977 costituisce per Ngugi, diventato lettore di inglese all’università di Nairobi poco dopo la pubblicazione delle sue prima opere, un periodo di impegno ideologico soprattutto sul fronte accademico, che lo vede lottare per l’abolizione dell’English Department in favore di un Literature Department afrocentrico, dove il piano di studi avrebbe compreso, a partire dalla letteratura africana, anche quella della diaspora africana, quella asiatica e americana oltre a quella europea, e dove l’inglese avrebbe svolto «il ruolo di lingua di mediazione» (Carbone 2015, 112: with English as the mediating language [Ngugi 1986, 95]), un’intenzione pienamente teorizzata nella raccolta di saggi Homecoming, del 1972.

Nel 1977, stesso anno di uscita di Petals of Blood, Ngugi lavora anche alla pièce in gikuyu Ngaahika Ndeenda (con il titolo inglese I Will Marry When I Want) insieme a Ngugi wa Mirii. Ed è proprio in questo periodo che Ngugi perde la propria voce in Italia, nonché la libertà: quest’ultima opera, considerata altamente sovversiva dal governo dittatoriale di Daniel arap Moi, gli costerà un anno di detenzione senza processo nel carcere di massima sicurezza di Kamiti. È lo stesso Ngugi a raccontare in vari libri (Detained, Barrel of a Pen e, ovviamente, Decolonising the mind) il lavoro svolto nel centro culturale del villaggio di Kamiriithu a partire dal 1976 e le vicende che ne sono scaturite, fino al drammatico epilogo: la sua incarcerazione nel 1977 e in seguito la “fine” del centro:

On 12 March 1982 three truckloads of armed policemen were sent to Kamiriithu Community Educational and Cultural Centre and razed the open-air theatre to the ground. By so doing it ensured the immortality of Kamiriithu experiments and search for peasant/worker-based language of African theatre (Ngugi 1986, 59).

Il 12 marzo 1982 al Kamiriithu Community Educational and Cultural Centre arrivarono tre camion carichi di poliziotti armati che rasero al suolo il teatro all’aperto. Così facendo il governo assicurò l’immortalità degli esperimenti di Kamiriithu e la ricerca di una lingua contadina e operaia del teatro africano. (Ngugi 2015, 73).

Abdulrazak Gurnah (2002, xiii) fa notare come Petals of Blood, pubblicato pochi mesi prima della messa in scena di Ngaahika Ndeenda, pur essendo fortemente critico nei confronti del governo keniota, non avesse suscitato alcuna reazione da parte delle autorità. Al contrario, il vicepresidente Mwai Kibaki, con una pubblica dimostrazione di tolleranza e rispetto per la libertà di parola, lo aveva perfino promosso. Ma un testo altrettanto critico scritto in gikuyu, comprensibile quindi anche e soprattutto per la massa operaia e contadina della popolazione, rappresentava una minaccia di tutt’altro tipo: una scrittura in grado di intervenire attivamente nel cambiamento sociale ed essere strumentale al progresso era qualcosa che non poteva far altro che mandare il governo nel panico, come dimostra l’incarceramento repentino dello scrittore.

Nonostante tutto, è grazie a questa esperienza umiliante che Ngugi ha modo di maturare una nuova consapevolezza di sé e di ciò che è in grado di ottenere con il potere della lingua madre. Tuzyline Jita Allan (2007, 4) riferisce che la scrittrice sudafricana era molto colpita dalla crescente reputazione di Ngugi in quanto people’s writer, one whose pen was mightier than the swords of Kenya’s neo-colonial leaders («scrittore del popolo, la cui penna era più potente della spada dei leader del Kenya neocoloniale»)

Una volta rilasciato, Ngugi e la moglie Njeeri si allontanano dal Kenya per un lungo periodo di (auto)esilio, dal 1982 fino al 2002, anno della morte di Moi dopo ventiquattro anni di governo dittatoriale. L’esilio però, dopo che Ngugi, in un primo tentativo di tornare in Kenya nel 2004, ha rischiato la vita, è da considerarsi pressoché definitivo.

Il periodo che va dalla sua scarcerazione a oggi vede Ngugi principalmente come autore di testi in gikuyu, totalmente inediti in Italia. Lui stesso lo annuncia nello Statement che precede l’introduzione di Decolonising the mind, che non compare nella edizione italiana:

This book, Decolonising the Mind, is my farewell to English as a vehicle for any of my writings. From now on it is Gikuyu and Kiswahili all the way. However, I hope that through the age old medium of translation I shall be able to continue dialogue with all (Ngugi 1986, xiv).

Con questo libro, Decolonizzare la mente, dico addio all’inglese in quanto veicolo di qualsiasi mio scritto. D’ora in poi, nient’altro che gikuyu e kiswahili. Ciononostante, spero che tramite l’antico mezzo della traduzione sarò in grado di continuare a dialogare con tutti.

Tuttavia, nonostante questa dichiarazione di intenti, negli anni si è notata una distinzione, spesso oggetto di discussioni e critiche (come nel caso delle sue due autobiografie), tra opere di narrativa (in gikuyu) e di saggistica (in inglese). A questo proposito, l’autore risponde semplicemente: «Ho scelto di non scrivere più, se non per la forma-saggio, in una lingua che cresce sulla morte delle altre lingue» (citato in Dotti 2015, 10).

Come si può notare anche dalla bibliografia iniziale, è stata proprio la saggistica in inglese di Ngugi wa Thiong’o a riportarlo in Italia, grazie a due diverse traduzioni: Spostare il centro del mondo (Nocentelli Truett e Cristina Lombardi-Diop 2000) e ovviamente il recentissimo Decolonizzare la mente (Carbone 2015).

Questo testo rappresenta per molti versi il cuore pulsante del lavoro e della riflessione di Ngugi sulla lingua, nonché del suo rapporto con l’imperialismo e soprattutto il neocolonialismo. Diviso in più parti, in modo da approfondire il discorso della lingua in ambiti specifici (l’uso della lingua in un contesto postcoloniale, il teatro, il romanzo, l’insegnamento della letteratura), cerca in realtà di far vedere al lettore quanto l’uso dell’inglese (e con esso la letteratura e la cultura inglese) abbia condizionato i soggetti coloniali, creando una profonda frattura con la propria lingua letteratura e cultura e a cui si può porre rimedio solo attraverso un alacre lavoro su più fronti (degli intellettuali, dello stato, della piccola e medio borghesia) per riappropriarsi dei valori e della dignità del proprio popolo. Come si vedrà più avanti, un’accurata trasposizione letteraria della situazione descritta da Ngugi in Decolonising the mind si ha proprio in Matigari ma Njiruungi, che trasforma in romanzo satirico quella che è la realtà del Kenya postcoloniale: un paese diviso tra tensioni opposte, tra continuità neocoloniale e rivoluzione popolare.

A proposito dell’operazione editoriale rappresentata invece dall’inaspettata traduzione di Decolonising the Mind, la stessa traduttrice ha sottolineato il momento strategico della sua pubblicazione che ha visto il convergere di più fattori: la recente traduzione francese (uscita a marzo 2011 per La fabrique éditions di Parigi, con l’interessante titolo Décoloniser l’esprit) e soprattutto la prospettiva di avere l’autore come ospite d’onore al Salone del Libro, una delle tappe del tour italiano di Ngugi wa Thiong’o. Per quanto riguarda invece l’esperienza di poter lavorare a un testo così noto, Maria Teresa Carbone mi ha dichiarato che

Si tratta di un lavoro all’interno del quale si sommano tre elementi: la sfida (il testo è complesso, ha le sue basi in un contesto orale, quello della conferenza, contiene lunghi inserti di teatro, è insieme saggistico e autobiografico), la responsabilità (Decolonizzare la mente è un’opera che ha avuto un ruolo essenziale per gli studi postcoloniali), il piacere (sempre esistente nella traduzione, ma qui più accentuato, nel gusto di traghettare in italiano le parole e il pensiero di un grande autore).

Ngugi traduttore: la traduzione come pietra d’inciampo

La scelta di non usare più l’inglese come lingua di scrittura e di passare al gikuyu, lingua madre di Ngugi wa Thiong’o, ha radici profonde nella politica e nella vita dell’autore keniota. Nell’intervista con Marco Dotti, Ngugi ribadisce come l’inglese rimanga ovviamente la lingua di comunicazione: «ma una lingua non è solo comunicazione, è molte altre cose – stratificazione di immagini in un immaginario, ad esempio» (Dotti 2015, 10). Ed è esattamente il rapporto tra lingue e immaginario a interessare Ngugi, a partire soprattutto da come questo avviene nella mente del bambino, in quanto «la cultura non si limita a riflettere il mondo in immagini, ma attraverso quelle immagini condiziona il bambino a vedere il mondo […] come lo vedeva e lo rifletteva la cultura della lingua di imposizione» (Carbone 2015, 30) (Since culture does not just reflect the world in images but actually, through those very images, conditions a child to see the world […] as seen and defined by or reflected in the culture of the language of imposition [Ngugi 1986, 17]).

La consapevolezza nell’uso della lingua – prima la propria e poi quella straniera – e di come questa dia voce all’immagine di sé si ritrova, in modo sempre più acuto, in tutta la vita dello stesso Ngugi. Fin da bambino, Ngugi mostra un’inconsueta ma profonda sensibilità verso la parola e l’immagine mentale che questa è in grado di produrre:

Noi [bambini] imparavamo così a dare valore alle parole per il significato e le sfumature. Il linguaggio [dei racconti orali] non era un semplice susseguirsi di parole, aveva un potere di suggestione che andava ben oltre il significato immediato e lessicale. […] Imparavamo così, accanto al contenuto, anche la musica della lingua. Attraverso immagini e simboli la lingua ci mostrava il mondo ma aveva anche una sua bellezza intrinseca (Carbone 2015, 22).

We [children] therefore learnt to value words for their meaning and nuances. Language [of story-telling] was not a mere string of words. It had a suggestive power well beyond the immediate and lexical meaning. […] So we learnt the music of our language on top of the content. The language, through images and symbols, gave us a view of the world, but it had a beauty of its own (Ngugi 1986, 11).

Una piccola ma significativa dimostrazione la si trova nel suo modo di gestire – e tradurre – ciò che di più identificativo una persona possiede: le parole che compongono il proprio nome. È risaputo che, dopo i primi scritti pubblicati con il nome di James Ngugi, l’autore abbia optato per una sorta di “ritorno alle origini” adottando il nome kikuyu Ngugi wa Thiong’o. Questa scelta va considerata come il punto di arrivo di un lungo processo di consapevolezza linguistico-culturale sviluppatosi negli anni. Non a caso nelle autobiografie pubblicate finora – Dreams in a Time of War (Sogni in tempo di guerra) e In the House of the Interpreter (inedito in Italia) – Ngugi riserva sempre uno spazio ai nomi in generale e al suo in particolare, a partire dai nomignoli più o meno graditi dell’infanzia, come il soprannome Kiriri (Crybaby – Ngugi 2010, 45, ossia «piagnucolone» – Guendanelli 2012, 44) per via di un problema agli occhi, e l’appellativo kiswahili Mzee in segno di rispetto. Dreams in a Time of War copre l’infanzia di Ngugi ed è un testo illuminante sulla poetica e la scrittura dell’autore keniota, che sullo sfondo del Kenya coloniale (ricordiamo che Ngugi è nato nel 1938, ancora in piena colonia) permette da un lato di conoscere i movimenti di indipendenza (dai Mau Mau alla conseguente dichiarazione dello stato di emergenza, ma anche alla politica del leader Jomo Kenyatta) e dall’altro la vita e la formazione di un bambino in tale contesto, dove convivono la cultura eurocentrica imposta dagli inglesi e quella tradizionale kikuyu a cui appartiene l’autore. Fin dalle prime pagine, Ngugi spiega il complesso sistema di nomi previsto dalle convenzioni (Carbonelli 2012, 28-29), ed è così che il lettore viene a sapere che il primo, vero nome di Ngugi (nome già ereditato dal nonno materno [ivi, 98]) è in realtà Ngugi wa Wanjiku (letteralmente, Ngugi figlio di Wanjiku, cioè sua madre). Infatti, in un sistema patriarcale a base poligamica, i figli venivano conosciuti dalla comunità con il nome della madre. La figura della madre di Ngugi oltretutto è di fondamentale importanza nel primo periodo di istruzione: è grazie a lei che Ngugi può studiare, ed è sempre lei a spronarlo a fare del proprio meglio. Il passaggio a Ngugi wa Thiong’o, adottando quindi il nome del padre come “cognome” (una concezione in realtà del tutto inesistente nel sistema di onomastica kikuyu) avviene a scuola:

[The teacher] asks me my name. I say Ngugi wa Wanjiku, because at home I identified with my mother. I am puzzled when this is greeted with giggles in the class. Then he asks me: What’s your father’s name, and I say, Thiong’o. Ngugi wa Thiong’o is the identity I shall carry throughout this school, but I am not conflicted by the two ways of identifying myself (Ngugi 2010, 61).

[L’insegnante] mi chiede il mio nome. Gli dico Ngugi wa Wanjiku, perché a casa venivo identificato tramite mia madre. Rimango sorpreso quando le mie parole sono accolte dal resto della classe con delle risatine. Allora mi chiede: «Qual è il nome di tuo padre?». Rispondo Thiong’o. In questa scuola quindi sarò conosciuto con il nome Ngugi wa Thiong’o, ma avere due modi diversi di identificare me stesso non mi disturba.

Tuttavia, il nome con cui Ngugi è diventato famoso è ancora un altro: James Ngugi. Anche se bisognerà aspettare il terzo (e ultimo?) libro di memorie di Ngugi per capire esattamente la portata di questo nome, in Sogni in tempo di guerra se ne racconta perlomeno l’origine. Quest’altro nome è dovuto infatti al suo battesimo cristiano, descritto con la semplicità e l’ingenua leggerezza di un ragazzino che si lascia trascinare da ciò che fanno i compagni, e per la precisione il suo amico Kenneth:

[I] registered with Reverend Kahahu for baptism. […] There was the catechism to memorize, then a test, and after passing it one had to choose Christian names. I was weighing James Paul. Both were the baptismal names of Kahahu’s children. Reverend Kahahu said one name was sufficient. And so, by the Christian rite of baptism by water, I became James Ngugi, the name under which years later I would publish my early journalism and fiction until 1969, when I reverted to Ngugi wa Thiong’o. (Ngugi 2010, 176)

[…] mi iscrissi al corso battesimale del reverendo Kahahu. […] Bisognava imparare il catechismo, superare un test, e poi scegliere un nome cristiano. Avevo pensato a James Paul. Entrambi erano nomi di battesimo dei ragazzi Kahahu. Il reverendo disse che un nome sarebbe stato sufficiente. Così, secondo il rito battesimale cristiano dell’acqua, divenni James Ngugi, il nome col quale anni dopo avrei pubblicato i primi pezzi giornalistici e di narrativa, fino al 1969, quando tornai a essere Ngugi wa Thiong’o (Carbonelli 2012, 153).

Banale all’apparenza, il cambiamento del nome è una spia dell’atteggiamento di Ngugi verso il mondo che lo circonda e della sua evoluzione filosofica: armonia con la convenzione famigliare, ingresso nel sistema (scolastico) eurocentrico, accettazione e abbraccio di tale sistema, rifiuto e ritorno alle origini della cultura kikuyu in senso lato (ma non al sistema intimo della famiglia). Per un’analisi più approfondita, si rimanda a Bady 2013.

Tornando invece all’approccio di Ngugi alla lingua in quanto mezzo di scrittura, va notato come già il suo inglese presentasse alcune caratteristiche molto personali. Soprattutto a proposito di Weep Not, Child David Cook (1983, 181), riferendosi alla rigidità di alcuni dialoghi, osserva che the text sounds like what it is, an over-formal translation ( (il testo suona come una traduzione ultraformale perché proprio di questo si tratta – traduzione mia). Tuttavia, anche nelle opere dallo stile più maturo (e dove i dialoghi risultano assolutamente realistici e scorrevoli) la lingua gikuyu ha sempre fatto da sottotesto all’inglese di Ngugi, a partire dall’uso frequente di proverbi e da quello che Cook (1983, 188) definisce più genericamente un «linguaggio evocativo» (an evocative language), ricchissimo di immagini e frutto di un’infanzia pervasa dalla tradizionale narrazione orale.

Posizioni simili sono state prese anche da altri autori di origine africana; a questo proposito, Ngugi ricorda come in un articolo per Transition del 1963 il nigeriano Gabriel Okara inviti a «tradurre quasi alla lettera dalla lingua nativa dello scrittore in qualsiasi lingua europea egli adotti come mezzo di espressione» (Carbone 2015, 19) (to translate almost literally from the African language native to the writer into whatever European language he is using as medium of expression [Ngugi 1986, 8]), accogliendo così l’estraneo e trasmettendo il più possibile le idee e il mondo in senso lato della lingua (e cultura) di partenza. In quale misura questa sia la posizione anche di Ngugi wa Thiong’o è in realtà relativo, per via del passaggio dall’inglese al gikuyu. Franca Cavagnoli (2010, 61) fa notare, riportando un esempio da A Grain of Wheat, come Ngugi«abbia tradotto letteralmente in inglese una parola della sua lingua madre [il cui] esito è un uso altamente creativo di una parola solitamente usata in contesti diversi». Partendo quindi dall’uso creativo dell’inglese, si potrebbe affermare che Ngugi, rispetto ad altri autori più o meno sperimentali (come l’emblematico caso di Amos Tutuola in The Palm-Wine Drinkard), abbia fatto un ulteriore passo in avanti: And why not create literary monuments in our own languages?» (Ngugi 1986, 8; «E perché non creare monumenti letterari nelle nostre stesse lingue?» [Carbone 2015, 20]), prendendo così le distanze dalla «logica fatalistica della inattaccabilità dell’inglese» nella letteratura africana (Carbone 2015, 19) (fatalistic logic of the unassailable position of English in our literature [Ngugi 1986, 7]), sostenuta ad esempio da Chinua Achebe come, per il francese, da Sédar Senghor. Di qui, l’auto-traduzione portata avanti in consapevole naturalezza. L’unica traccia di questa pratica è infatti da ricercare nella scritta «Tradotto dal gikuyu dall’autore» (Translated from Gikuyu by the author) sul frontespizio di Devil on the Cross (1982), traduzione di Caitaani mutharaba-ini (1980) e successivamente del suo ultimo romanzo, Mūrogi was Kagogo del 2004 (la traduzione in inglese, con il titolo Wizard of the Crow,è del 2006,), segnando anche un ritorno alla narrativa dopo quasi vent’anni.

La scelta di passare tout court alla lingua gikuyu per la narrativa è una scelta maturata durante il periodo di detenzione in carcere. L’arresto è stato l’occasione per riflettere a fondo sul reale legame tra lingua e potere, sul «rapporto diseguale fra lingue locali e lingua coloniale» (Dotti 2015, 10) e soprattutto di lavorare al suo primo romanzo in gikuyu, Caitaani mutharaba-ini. Come racconta in Decolonising the Mind, il primo ostacolo da superare è stata l’ortografia. La lingua gikuyu scritta non era mai stata codificata in modo soddisfacente; di conseguenza tocca a Ngugi trovare un modo appropriato per indicare gli allungamenti vocalici e le variazioni di tono, entrambe caratteristiche fondamentali del gikuyu (Carbone 2015, 89). Una volta perfezionato l’aspetto morfo-sintattico, si presenta all’autore un ulteriore problema: trovare un «linguaggio narrativo» (the appropriate “fiction language” [Ngugi 1986, 75]) adatto al proprio pubblico, in base al rapporto che il romanzo ha con la forma e i materiali a disposizione (ivi, 90).

Quello che era iniziato come una sorta di sfida, scrivere un romanzo in gikuyu, si mostra alla fine come qualcosa di più, una possibilità concreta e reale. In un’intervista con Emily Wilson (2008), a proposito di questo momento fondamentale della sua vita Ngugi ha dichiarato:

when I came out of prison with a novel, Devil on the Cross, two things happened: One, it meant here I had an original novel in an African language that could be read by people who understood Gikuyu. But the same novel was now available in English, so it reached the same audience I was reaching before. It was a revelation for me, in a practical sense, that you could write in an African language and still reach an audience beyond that language through the art of translation. […] Translation can be invisible – and it is very real.

quando uscii di prigione con un romanzo, Devil on the Cross, avvennero due cose: prima di tutto mi accorsi che lì avevo un romanzo originale in una lingua africana che poteva essere letto da chiunque capisse il gikuyu. Ma quello stesso romanzo era disponibile anche in inglese, e quindi avrebbe raggiunto lo stesso pubblico di sempre. Fu una rivelazione per me, in senso pratico, rendermi conto che uno poteva scrivere in una lingua africana e raggiungere comunque un pubblico al di là della lingua attraverso l’arte della traduzione. […] La traduzione può essere invisibile, eppure è assolutamente reale.

Di lì, la scelta.

Anche io, nel mio piccolo, ho fatto la mia scelta. Posso parlare in inglese […], tenere lezioni, scrivere ancora saggi in inglese, ma non è questo il punto.
Il gikuyu fa di me un combattente. Ho combattuto così contro le politiche del governo, violente, intolleranti o semplicemente dettate dall’inerzia. Ma la mia lingua ha fatto di me quello che sono: un guerriero consapevole, un combattente pragmatico che difende le sue scelte. Amo le lingue, la differenza nelle lingue. Da Petali di sangue in poi, ho deciso che la mia narrativa l’avrei scritta solo in gikuyu (Dotti 2015, 10).

Alessandro Triulzi ricorda come Caitaani mutharaba-ini abbia avuto un successo enorme, con una tiratura di quindicimila copie (nell’arco di soli otto mesi), «una tiratura che nessun romanzo in inglese aveva mai avuto localmente» (2015, 65). Un successo confermato anche dalla traduzione di Clement M. Kabugi in kiswahili (traduttore dal gikuyu in kiswahili anche di Ngaahika Ndeenda [I Will Marry When I Want], uscito pressoché nello stesso periodo), la seconda lingua del Kenya, dimostrando così non solo una comunicazione diretta fra gikuyu e kiswahili, ma soprattutto come «questo tipo di comunicazione fra le lingue dell’Africa costituisca la vera base di un romanzo genuinamente africano» (Carbone 2015, 100: Indeed I see this kind of communication between African languages as forming the real foundation of a genuinely African novel [Ngugi 1986, 84]) e l’inizio di una nuova sensibilità verso le lingue africane (che ne include lo studio anche per scopi traduttivi). Numeri a parte, è la ricezione del testo a rappresentare maggiormente un successo per Ngugi:

[The novel] was read in families. A family would get together every evening and one of their literate members would read it for them. Workers would also gather in groups, particularly during the lunchbreak, and they would get one of them to read the book. It was read in buses; it was read in taxis; it was read in public bars. […] The process I’m describing is really the appropriation of the novel into the oral tradition (Ngugi 1986, 83).

Il romanzo venne letto nelle case: le famiglie si incontravano la sera e chi era alfabetizzato leggeva il libro ad alta voce per tutti. Anche gli operai si riunivano in gruppi, in particolare durante la pausa pranzo, e uno di loro leggeva per gli altri. Lo si leggeva negli autobus, lo si leggeva nei taxi, lo si leggeva al bar. […] In effetti, tutti questi procedimenti coincidono con la riappropriazione del romanzo da parte dell’oralità (Carbone 2015, 98-99).

Il successivo lavoro di auto-traduzione svolto da Ngugi è, in linea di massima, un argomento poco frequentato e ancor meno analizzato. Uno squarcio su questa pratica inusuale ci è dato dalla recente intervista concessa a Maria Paola Guarducci, che ha chiesto apertamente all’autore cosa significhi per lui auto-tradursi. Il risultato è stato duplice. Se da una parte Ngugi ha dichiarato senza mezzi termini di trovare questo lavoro «molto noioso» (2015, 74) in quanto nient’altro che la ripetizione di ciò che si è già scritto e “immaginato” una volta, dall’altra si è espresso sull’evoluzione del proprio approccio alla traduzione: in Devil on the Cross l’intenzione di far vedere, sentire, al lettore che sta leggendo un romanzo di lingua africana è quasi spasmodica («È quasi una forma di traduzione mentale, in un certo senso. Così provi ogni tipo di strategia possibile per dare al lettore quell’illusione che i personaggi stiano parlando in una lingua africana»), mentre in Wizard of the Crow questo senso di “dover (di)mostrare” qualcosa si fa molto meno pressante e lascia spazio alla «resa del senso, dello spirito, e basta» (Guarducci 2015, 74).

In inglese o in gikuyu, dalla pubblicazione di Devil on the Cross in poi il gikuyu è stato una presenza assidua nelle opere di Ngugi wa Thiong’o. Lui stesso sottolinea come in numerose occasioni abbia preteso che accanto al testo inglese tradotto venisse aggiunta una poesia da mantenere in gikuyu anche nel testo d’arrivo, seppure con una traduzione a lato: «Voglio che il gikuyu, anche in traduzione, lasci una traccia, sia una pietra di inciampo, faccia in qualche modo da segnavia, ricordando: ecco da dove siamo arrivati, ecco dove stiamo andando» (Dotti 2015, 11).

Lavorare a Matigari ma Njiruungi

Matigari ma Njiruungi, uscito prima nel 1986 in gikuyu e poi nel 1989 in inglese con il titolo Matigari grazie alla traduzione di Wangui wa Goro, è un romanzo difficile da incasellare, in cui satira e simbolismo si intrecciano in una forte critica sociale al governo del Kenya neo-indipendente da una parte e in un richiamo alle armi inteso come «parole armate» (armed words), o per meglio dire, «parole di verità e giustizia, con alle spalle il pieno potere delle armi» (words of truth and justice, fully backed by armed words [Ngugi 1989, 138]) dall’altra.

Il romanzo si apre con quella che vuole essere la trama più superficiale, ovvero, con un uomo di mezza età dagli abiti umili che ha combattuto per anni nella foresta contro Settler Williams e John Boy (rispettivamente il colono e il suo servitore) che hanno usurpato la casa che lui ha costruito e le terre che lui ha lavorato. Una volta sconfitti i nemici, l’uomo abbandona la foresta, seppellisce le sue armi ai piedi di un mugumo (fico) per tornare finalmente a casa e recuperare la propria vita e la propria famiglia.

Il sospetto che l’autore non voglia parlarci solo della ricerca di quest’uomo si concretizza in tutta la sua lampante chiarezza nel momento in cui si presenta per la prima volta e si scopre che il suo nome, Matigari ma Njiruungi, significa letteralmente «i patrioti che sopravvissero alle pallottole» (the patriots who survived the bullets», Ngugi 1989, 20 nota): tramite questa strategia Matigari uomo si fa sempre più simbolo di quella parte di popolazione che ha combattuto contro il governo neo-coloniale, arrivando a parlare, in momenti di particolare intensità, al plurale: noi. Quel “noi” è la conferma definitiva di come la storia, narrata attraverso un uomo, una donna e un ragazzino, sia in realtà una storia collettiva di uomini donne e ragazzini, dove ogni singolare è in realtà un plurale più o meno velato. Allo stesso modo, l’indefinitezza del tempo e del luogo in cui si dovrebbe svolgere la storia di Matigari, così come annunciato nelle prime pagine del libro (Once upon a time, in a country with no name… [Ngugi 1989, ix]: C’era una volta, in un paese senza nome…), è invece un chiaro segnale di un tempo e un luogo ben precisi: un Kenya disilluso da un élite boghese che non ha fatto altro che prendere il posto del governo coloniale britannico, impoverendo e mettendo a tacere ulteriormente le masse popolari. L’unica opposizione, rappresentata dai guerriglieri del Kenya Land and Freedom Army, meglio conosciuti come Mau Mau e che hanno cercato di ribellarsi contro il governo britannico in una guerra durata dieci anni, fino all’alba dell’indipendenza, nel 1963, è stata soffocata nel sangue. Gli “errori” del governo coloniale non solo non sono stati riparati (come ad esempio la questione delle terre), ma sono stati rincarati da governi neocolonialisti e dittatoriali come quello del presidente Moi, che in un discorso chiave del 1984 ha dichiarato: […] I call on all ministers and every other person to sing like parrots. […] Therefore you ought to sing the song I sing. If I put a full stop, you should also put a full stop. This is how this country will move forward (Ngugi 1986, 86) ([…] mi rivolgo quindi ai ministri, ai viceministri e agli altri, perché tutti cantino come pappagalli. […] Quindi voi dovete cantare la canzone che canto io. Se io smetto, anche voi dovete smettere. È così che il paese va avanti [Carbone 2015, 102]): . Ed è da questa situazione paradossale che scaturisce la storia di Matigari, in cui il governo monopartitico del «Ministro della Verità e della Giustizia» (Minister for Truth and Justice), appoggiato e idolatrato dalla chiesa, dal parlamento e dall’accademia (vedasi a questo proposito il brillante passaggio alle pagg. 100-126 del romanzo, con la graffiante satira incentrata sulla Parrotology, traducibile come “pappagallologia”). È in questo mondo che, dopo anni di lotte, appare quindi Matigari alla ricerca della giustizia e della verità; una volta abbandonate le armi non solo non troverà né giustizia né verità, ma per via del suo atteggiamento considerato sovversivo finirà prima in carcere e poi in manicomio. Accompagnato da Guthera, una prostituta, e da Muriuki, un giovane orfano senzatetto, Matigari diventa sempre più famoso nel paese (un paese) fino ad acquisire una fama mitologica: la domanda ricorrente «Ma chi è Matigari?» (But who is Matigari?) si diffonde di casa in casa, così come le voci che Matigari sia addirittura lo stesso Gesù tornato sulla terra.

Il libro si chiude con l’uomo Matigari che lotta per recuperare la sua casa, che preferisce far ardere fino alle fondamenta piuttosto che lasciarla nelle mani di John Boy Junior, e man mano la figura del singolo svanisce lasciando il posto al plurale della massa che, trascinata dal senso di giustizia di Matigari, rivendica finalmente i propri diritti e si scaglia con tutta la forza della rivolta popolare contro tutto ciò che rappresenta gli oppressori. Lo stesso Matigari sparisce: vivo o forse morto, non ha più importanza, mentre si ha un primo piano del giovane Muriuki che prende in mano le armi appartenute inizialmente a Matigari e in lontananza si sentono le voci degli operai e dei contadini, inesorabilmente e inarrestabilmente in rivolta.

Come l’autore stesso racconta nella prefazione all’edizione inglese, Matigari ha avuto un destino a dir poco grottesco:

By January 1987, intelligence reports had it that peasants in Central Kenya were whispering and talking about a man called Matigari who was roaming the whole country making demands about truth and justice. There were orders for his immediate arrest, but the police discovered that Matigari was only a fictional character in a book of the same name. In February 1987, the police raided all the bookshops and seized every copy of the novel. […] With the publication of this English edition, [Matigari, the fictional hero, and the novel] have joined their author in exile (Ngugi 1989, viii).

Nel gennaio 1987 i servizi segreti riferirono di contadini nel Kenya orientale che sussurravano e discutevano di un tale chiamato Matigari che girava in lungo e in largo per il paese reclamando verità e giustizia. Ne ordinarono l’arresto immediato, ma la polizia scoprì che Matigari altri non era se non il personaggio fittizio di un libro dallo stesso nome. Nel febbraio 1987 la polizia fece irruzione in tutte le librerie e sequestò ogni copia del romanzo. […] Con la pubblicazione di questa edizione in inglese, [Matigari, l’eroe fittizio e il romanzo] hanno raggiunto il loro autore in esilio.

Questa reificazione del personaggio di Matigari è vista da Maria Paola Guarducci (2015, 70) come «una delle chiavi di lettura di tutta l’opera narrativa e saggistica di Ngugi. Uno degli aspetti più prezioni del suo pensiero è, infatti, la continuità che egli stabilisce tra vita e arte: un’osmosi continua che arricchisce entrambe rendendole non solo indissolubilmente legate ma anche in perpetuo dialogo».

Osservando l’approccio alla traduzione della versione inglese messo in pratica dalla scrittrice e traduttrice keniota Wangui wa Goro, appare evidente come il testo sia stato inteso in primo luogo per un pubblico africano. Non necessariamente keniota, ma di sicuro non europeo. Ciò è dovuto alla presenza di note per la traduzione dei termini in kiswahili da una parte (un lessico sconosciuto a chiunque non sia originario dell’Africa orientale) e alla totale assenza di contestualizzazione dall’altra: la situazione polica del Kenya postcoloniale, soprattutto alla fine degli anni ottanta, non è immediatamente riconoscibile per un lettore europeo che non sia strettamente ferrato in materia.

Un’ultima considerazione riguarda l’uso delle lingue parlate in Kenya, impiegate tutte da Ngugi (o almeno le tre principali) per rappresentare la stratificazione socio-culturale e per ottenere una mimesi della varietà linguistica del paese. Si ha quindi un continuo code-switching che vede la narrazione svolgersi in gikuyu (non dimentichiamo che i personaggi centrali – nonché i lettori reali a cui si rivolge Ngugi – sono le masse operaie e contadine), con frequenti intermezzi in kiswahili e in inglese. L’uso dell’inglese merita particolare attenzione. Verosimilmente, l’inglese dovrebbe essere usato non solo dall’élite ma anche dal governo (il Ministro della Verità e della Giustizia e i suoi ammiratori) in quanto lingua ufficiale, tuttavia rispettare questa condizione significherebbe scrivere un quarto del libro in inglese, e non è assolutamente l’intenzione di Ngugi, ne è anzi l’esatto opposto. Quindi è logico che anche le trasmissioni radio e la conferenza tenuta dal Ministro della Verità e della Giustizia siano riprodotte in gikuyu. L’unica eccezione viene fatta a pag. 44, dove si ha un dialogo tra Robert Williams e John Boy Junior. Per abitudine, o per vanto, i due parlano tra di loro in inglese, con l’unico risultato di apparire perlomeno ridicoli. Pur simboleggiando l’ex colono, non è Robert Williams ad attirare il disprezzo della popolazione, bensì John Boy Junior. Quest’ultimo è il figlio del servitore di Settler Williams, ha potuto studiare in Inghilterra e tornare in Kenya; tuttavia non ha usato i suoi studi per aiutare la comunità, ma per inserirsi nella classe di governo e trarne vantaggi alla pari di tutti gli altri prima di lui. John Boy Junior rappresenta la delusione post-indipendenza, il classico membro della nuova élite: colto, benestante, filo-coloniale. Una pelle nera, dalla maschera bianca.

Bibliografia

Testi di Ngugi wa Thiong’o

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– 1976: (con Micere Githae Mugo), The Trial of Dedan Kimathi

– 1977: Petals of Blood, London, Heinemann

– 1982: Devil on the Cross, London, Heinemann

– 1986a: Decolonising the Mind. The Politics of Language in African Literature, Martlesham, James Currey Ltd

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– 1993 Moving the Center. Struggle for Cultural Freedoms, Martlesham,James Currey Ltd

– 2002a: A Grain of Wheat. Revised Edition with a New Introduction by Abdulrazak Gurnah, , London, Penguin (prima edizione 1967)

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– 2010: Dreams in a Time of War: a Childhood Memoir, London, Random House – Harvill Secker

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Traduzioni in italiano

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Carrer 1979: Ngugi wa Thiong’o, Petali di sangue, Milano Jaca Book, 1979, Milano (traduzione italiana di Alda Carrer da Ngugi 1977)

Grampa 1975: Ngugi wa Thiong’o, Se ne andranno le nuvole devastatrici, Milano, Jaca Book (traduzione italiana di Marco Grampa da Ngugi 1964)

Grampa 1978: Ngugi wa Thiong’o, Un chicco di grano, Milano, Jaca Book (traduzione di Marco Grampa da Ngugi wa Thiong’o 1967)

Grampa 1997a: Ngugi wa Thiong’o, Un chicco di grano. Introduzione di Marco Grampa,Milano, Jaca Book (traduzione italiana di Marco Grampa da Ngugi 1967 [I edizione 1978, senza introduzione])

Nocentelli e Lombardi-Diop 2000: Ngugi wa Thiong’o, Spostare il centro del mondo. La lotta per le libertà culturali, Roma, Meltemi (traduzione di Carmen Nocentelli Truett da Ngugi 1993, a cura di Cristina Lombardi- Diop)

Altri riferimenti bibliografici

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Cavagnoli 2010: Franca Cavagnoli, Il proprio e l’estraneo nella traduzione letteraria di lingua inglese, Monza, Polimetrica

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Guarducci 2015: Maria Paola Guarducci, La storia è bella dal basso. Incontro con Ngugi wa Thiong’o , in «Lo Straniero», n. 181, luglio

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Siti web consultati

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https://www.uwinnipeg.ca/index/newsflash-050316

http://www.lafabrique.fr/catalogue.php?idArt=562&idMot=9