SUL RAPPORTO FRA AUTORI E TRADUTTORI: IL CASO DI CLAUDIO MAGRIS
di Barbara Ivancic
Immaginatevi un traduttore alle prese con la traduzione francese di Ada o ardore di Vladimir Nabokov. Immaginatevelo così intimorito dalla portata del compito, da ritirarsi su una remota isola dell’Atlantico e affidarsi alla generosità degli isolani, che pur di aiutarlo, mettono su una sorta di impresa di traduzione collettiva, in cui ciascuno a modo suo partecipa al processo traduttivo.
La storia è la trama di un romanzo (purtroppo non tradotto in italiano) di Erik Orsenna, il cui titolo, Deux étés (cfr. Orsenna 1997), allude alla durata di quest’impresa piuttosto bizzarra. Attraverso l’espediente della mobilitazione generale che ha luogo sull’isola, Orsenna mette in scena l’atto traduttivo e, soprattutto, il lavoro del traduttore. I generosi isolani scavano tra le pieghe delle parole, provando in prima persona le fatiche del mestiere e avvertendone allo stesso tempo il fascino.
Ma il romanzo richiama l’attenzione anche su un altro aspetto: quello del rapporto del traduttore con l’editore e con l’autore stesso. Presenze ingombranti in entrambi i casi, che non fanno che aumentare l’angoscia del povero Gilles – questo il nome del traduttore –, acuendo la sua sindrome da pagina bianca. L’editore lo subissa di lettere in cui gli ricorda le scadenze da rispettare, l’autore gli fa percepire la propria autorità sul testo. In quest’ultimo caso, Orsenna ritrae un’immagine piuttosto nota di Nabokov, quella di un autore molto intransigente con i traduttori, tanto che – tornando alla finzione letteraria – a un certo punto Gilles non può fare a meno di esclamare: Mon Dieu, délivrez nous des auteurs vivants! (Orsenna 1997, 72: Buon Dio, liberaci dagli autori viventi!)
C’è da sperare che si tratti – nella realtà, prima ancora che nella finzione letteraria – di un caso estremo e che non siano tanti i traduttori così esasperati dagli autori che traducono da augurarsi la loro scomparsa, ma certo la storia di Gilles ci fa percepire quanto possa essere complesso e delicato il rapporto fra autori e traduttori. Un rapporto che chiama in causa alcune questioni traduttologiche di fondo, come i confini fra scrittura e traduzione, il concetto di autorialità, lo status del testo di partenza e di quello d’arrivo. Quando ne parlano, sia gli autori che i traduttori raccontano di rapporti all’insegna della collaborazione e della stima, ma questo non esclude che ci possano essere anche dei dubbi e dei timori da entrambe le parti, o che addirittura l’altro possa essere vissuto come una minaccia.
L’autore e traduttore tedesco Hans-Ulrich Möhring descrive molto bene questa ambiguità di fondo nel suo romanzo (anche questo non tradotto in italiano) Vom Schweigen meines Übersetzers (Möhring 2008). In questo caso la prospettiva è quella dell’autore, un autore che riceve la notizia dell’imminente traduzione inglese del suo romanzo d’esordio e che, assieme all’innegabile gioia che la notizia gli procura, avverte sin da subito il peso di quella che lui, almeno inizialmente, vive coma una sfida e che si riassume nel laconico interrogativo con cui il romanzo si apre: Er oder ich? (Möhring 2008, 7: Lui o io?).
Quello del rapporto fra autori e traduttori è un tema caro agli appassionati di traduzione, e sono in molti a parlarne: si veda, per esempio, sulle pagine di questa rivista, la bella intervista di Ada Vigliani al traduttore Claudio Groff, principale voce italiana di Günter Grass, in cui Groff descrive, tra l’altro, il particolare rapporto tra Grass e i traduttori dei suoi romanzi (cfr. Vigliani 2013; v. anche Groff 2011). La stessa Vigliani, intervistata dalla redazione di «Sur», entra nel merito della questione del rapporto con gli autori e sottolinea, dalla sua prospettiva di traduttrice di autori classici e contemporanei, come la presenza o meno dell’autore e la conseguente possibilità di confronto, implichi per certi versi anche «due diversi modi di tradurre», nella misura in cui incide sul piano dell’interpretazione del testo (cfr. Vigliani 2006). Si pensi anche a un libro come Dire quasi la stessa cosa (Eco 2003), che è in buona parte basato sul confronto tra l’autore e i traduttori dei suoi testi.
Se sul piano delle testimonianze di dialogo e scambio fra autori e traduttori si possono fare moltissimi esempi, altrettanto non si può dire degli studi traduttologici, che fino a tempi piuttosto recenti hanno dedicato scarsa attenzione a questo tema. Qualcosa è cambiato da quando vi è un maggior interesse per la persona del traduttore e per la genesi di una traduzione, e dunque per tutte quelle tipologie testuali che accompagnano, o anche precedono, il processo traduttorio, tra cui la corrispondenza fra autori e traduttori e fra traduttori e editori, le bozze di traduzione ecc. Negli ultimi anni questo interesse è indubbiamente aumentato; prova ne è l’affermarsi dei cosiddetti Genetic Translation Studies, nell’ambito dei quali si ricostruisce the evolution, or genesis, of the translated text, by studying translators’ manuscripts, drafts and other working document (Cordingley, Montini 2015, 1: l’evoluzione, ovvero la genesi del testo tradotto attraverso lo studio di manoscritti, bozze e altri fogli di lavoro). Prova ne sono anche i molti convegni che negli ultimi anni sono stati dedicati a questo argomento, tra cui, per esempio, The translator made corporeal: Translation history and the archive, organizzato nel maggio 2017 dalla British Library e dall’University College London, e Unexpected intersections: Translation studies and genetic criticism, svoltosi all’Università di Lisbona nel novembre 2017.
L’interesse per i testi che nascono a corredo del testo tradotto comporta anche una riflessione sul significato degli archivi, che sono i principali luoghi di conservazione e consultazione di questo materiale e che stanno quindi diventando sempre più importanti anche per gli studiosi di traduzione. Jeremy Munday, che ha molto contribuito a questa riflessione (cfr. Munday 2013 e 2014) sottolinea come, scavando negli archivi in cerca della corrispondenza fra autori e traduttori e di altro materiale sorto nel corso della traduzione di un testo, si possa ricostruire quella che lui chiama la microhistory of translation and translators (Munday 2014: microstoria del traduzione e dei traduttori). Attraverso il termine “micostoria”, che rinvia alla ricerca storiografica italiana, in particolare a Carlo Ginzburg, cui Munday fa esplicito riferimento (cfr. Munday 2013, 67), lo studioso sottolinea la dimensione sociale di questo tipo di ricerca che – nello spirito della microanalisi storica – pone l’accento sulle biografie minori e sulle pratiche sociali che tendenzialmente restano ai margini. Come i traduttori e la traduzione, per l’appunto.
Naturalmente si potrebbe obiettare – come fa lo stesso Munday (2013, 77) – che i traduttori che si conquistano uno spazio negli archivi siano di norma quelli più famosi e che la fama dipenda a sua volta dalla grandezza dell’autore. Obiezione accolta; Munday cita vari archivi letterari americani che contengono la corrispondenza di autori quali Jorge Luís Borges, Octavio Paz, Albert Camus, Jean-Paul Sartre con i propri traduttori (Munday 2013, 71). Le collaborazioni oggetto di studio hanno per protagonisti Thomas Mann (cfr. Thirlwall 1966), Umberto Eco (cfr. Weaver 1990), Milan Kundera (cfr. Kuwiszack 1990), solo per citarne alcuni. Grandi nomi, insomma, e, particolare non insignificante, uomini. Anche l’esempio di Claudio Magris si inserisce in questo filone.
Ma ciò non toglie valore a questo tipo di materiale né alla ricerca scientifica che ruota attorno a esso. Ricostruire le relazioni che la traduzione di un libro mette in moto è anche un modo per dare rilievo al ruolo della traduzione e al contributo dei traduttori alla storia letteraria e socioculturale. Che da questo punto di vista ci sia ancora molto da fare, lo dimostrano in fondo quegli stessi achivi che raccolgono le lettere dei traduttori: come osserva sempre Munday (2003, 71), nei rispettivi cataloghi di consultazione appare molto di rado la categoria “traduttori/traduzione”.
Il caso di Claudio Magris
Il materiale che accompagna la nascita delle traduzioni dei libri di Magris riflette un dialogo molto intenso e anche molto particolare tra l’autore e i suoi traduttori (ma più spesso traduttrici). Di particolare c’è soprattutto il fatto che il dialogo vero e proprio, che si traduce fondamentalmente in una fitta corrispondenza tra le due parti, è preceduto, sin dai tempi di Danubio, che ha segnato il debutto di Magris narratore (cfr. Magris 1986), da una lunga lettera che l’autore rivolge ai (potenziali) traduttori, fornendo loro una serie di chiarimenti e spiegazioni relative al proprio testo. Lo fa ripercorrendolo riga per riga e soffermandosi su espressioni e strutture che presume possano richiedere un lavoro di ricerca da parte del traduttore o comunque presentare delle difficoltà dal punto di vista traduttivo: parole culturospecifiche, citazioni dirette e indirette, parole dialettali o varianti linguistiche di altro tipo, particolarità sintattiche e così via. Questo tipo di testi, che l’autore chiama ora Indicazioni, ora Avvertenze, ora semplicemente Lettera ai traduttori, nascono all’indomani della pubblicazione del testo originale e vengono poi spedite ai traduttori nelle varie lingue, man mano che cominciano le rispettive traduzioni.
L’aspetto interessante di queste note dell’autore è che con il passare del tempo sono diventate sempre più lunghe, includendo, oltre ai chiarimenti di cui si diceva sopra, anche riflessioni sulle caratteristiche linguistiche e stilistiche del testo, prese di posizione di carattere traduttologico, come pure digressioni volte a ricostruire la genesi del testo e a descrivere situazioni e scenari in cui è nato o da cui sono scaturite determinate parole. Le note per i traduttori sono diventate, insomma, quasi dei saggi a sé, e la Lettera ai traduttori di Alla cieca, che qui accludiamo ne è un esempio. La lettera è nata all’indomani della pubblicazione del romanzo, nella primavera del 2005, ed è stata inviata a tutti i suoi traduttori; le traduzioni di Alla cieca sono a oggi ventidue.
Il dialogo vero e proprio si realizza attraverso scambi epistolari e, in certi casi, anche attraverso incontri personali: centinaia e centinaia di pagine, nell’ambito delle quali vengono approfonditi singoli aspetti e problematiche sollevate dai traduttori. L’autore risponde alle domande che gli arrivano e, nel caso delle lingue tedesca, inglese, francese e spagnola, legge le bozze e le commenta attraverso una o più lettere di osservazioni, cui seguono le repliche dei traduttori.
Questo materiale, di cui pure accludiamo qualche esempio, testimonia della profondità e della singolarità di questo dialogo. In un saggio sul tema della collaborazione autori-traduttori, Vanderschelden propone una classifica per descriverne il grado di intensità, distinguendo due poli estremi, quello in cui non vi è nessuno scambio e l’autore non interviene e quello in cui il coinvolgimento di entrambe le parti è totale: non intervention vs. total involvement, nella terminologia della studiosa (Vanderschelden 1998, 22-23). È indubbio che il caso di Magris rappresenti un esempio di coinvolgimento totale, così totale da poter anche far pensare che vi sia da parte dell’autore un tentativo di controllo sul testo, dietro al quale si potrebbero forse ravvisare tracce di quello che Isabelle Vanderschelden definisce a personal expression of power over translated texts and a statement about the superiority over the translator (Vanderschelden 1998, 25: un’espressione personale di potere sui testi tradotti e una dichiarazione di superiorità dell’autore nei confronti del traduttore). Torna in mente quell’Er oder ich?, citato in apertura, che esprime la paura di un autore di essere in qualche modo espropriato del proprio testo. Allo stesso tempo, saremmo tentati di pensare che anche qualche traduttore di Magris possa avvertire il peso della sua presenza e possa dunque sentirsi come il povero Gilles in balia delle onde dell’Atlantico e del testo di Nabokov…
Estremi che ci sentiamo di escludere. Uno studio approfondito sulla collaborazione fra Magris e i suoi traduttori e sul modo in cui questo confronto condizioni le loro scelte dimostra come, nonostante l’occhio vigile dell’autore, la decisione finale spetti sempre e comunque ai traduttori (cfr. Ivancic 2013). Questi ultimi, a loro volta, pur non nascondendo di attendere le risposte dell’autore con il cuore in gola, ribadiscono l’importanza di questo scambio che, come afferma Ragni Maria Gschwend, la principale traduttrice tedesca dell’autore, permette loro di cogliere a fondo l’essenza del testo:
Auf der einen Seite bin ich froh, dass man ihn wirklich alles fragen kann und dass er die Übersetzung im Manuskript sehr genau liest […]. Auf der anderen Seite erschrecke ich aber auch immer wieder, wenn nach der Lektüre einiger Kapitel ein dicker Brief ankommt, in dem, nach sehr viel Lob, bis zu 15 Seiten folgen, auf denen der Autor Rückfragen stellt oder Gegenvorschläge macht, so dass ich gezwungen bin, mich erneut mit dem Text auseinanderzusetzen. Doch auf diese Weise nähert man sich im Rhythmus von Schritt und Gegenschritt immer mehr dem Eigentlichen an. (Gschwend 2008, 94)
Ossia:
Da un lato sono felice di potergli chiedere davvero tutto e di sapere che lui legge il manoscritto con tanta attenzione […]. D’altro canto però mi spavento ogni volta che, dopo la lettura di alcuni capitoli tradotti, arriva una lunga lettera in cui, ai molti complimenti iniziali, seguono talora anche 15 pagine di domande e controproposte dell’autore, che mi costringono a tornare nuovamente al testo. Ma in questo modo ci si avvicina, facendo un passo avanti e uno indietro, sempre di più all’essenza (traduzione mia).
Certo è che un dialogo così serrato e profondo incide inevitabilmente sul processo di traduzione, in particolare sul piano dell’interpretazione, proprio come sottolinea Vigliani nell’intervista citata sopra (cfr. Vigliani 2016): il confronto con l’autore aiuta a capire meglio e a disambiguare frasi o passi che forse altrimenti resterebbero oscuri, ed è chiaro che questo delimita lo spazio interpretativo, specie quando si traducono testi complessi e a tratti ermetici. Allo stesso tempo, il confronto incide anche sull’autore e sul suo rapporto col testo, di cui, attraverso lo sguardo dei traduttori, si scoprono aspetti nuovi o, perché no, anche alcune incongruenze o debolezze. Vanderschelden ricorda anche casi di creative collaboration (Vanderschelden 1998, 28: collaborazione creativa), vale a dire di parziale riscrittura del testo originale da parte degli autori – Borges e Saramago, nello specifico –, come conseguenza del confronto con i propri traduttori. Nel caso di Magris non abbiamo esempi di riscrittura, ma sicuramente di riscoperta dei propri testi, come lui stesso racconta in un saggio sul suo rapporto con la traduzione e i traduttori (cfr. Magris 1997). In questo stesso saggio, Magris, che in passato si è cimentato nella traduzione, soprattutto di testi teatrali, sottolinea l’importanza di quest’esperienza per la sua scrittura:
Il mio vero tradurre è cominciato quando ho tradotto per il teatro. […] In quell’occasione è cominciato per me qualcosa di nuovo; tradurre è diventato propriamente un modo di scrivere. Era come se fossi veramente entrato in una dimensione che aveva da fare con la mia sintassi, con il mio modo di essere. Decisiva, determinante è stata soprattutto la traduzione del Woyzeck di Büchner, nata per una messinscena televisiva di Giorgio Pressburger […]. Senza l’esperienza di questa traduzione, non solo non avrei più tardi scritto testi teatrali, ma non avrei scritto neppure altre cose, come Alla cieca, non avrei avuto l’esperienza della scrittura come una lama che affila spietatamente l’esistenza. (Magris 2007, 49-50)
La dedizione con cui Magris segue da anni il lavoro dei traduttori dei suoi libri – una dedizione che è passione e ossessione al tempo stesso – si nutre indubbiamente anche di questo suo legame così forte e intimo con la traduzione e della sua profonda gratitudine verso i traduttori.
Certo è anche che una collaborazione così stretta, che in alcuni casi si protrae per anni, favorisce l’instaurarsi di rapporti umani che vanno ben al di là della stima professionale. In un prezioso libriccino che raccoglie la corrispondenza tra un giovane scrittore inglese, Eric Blair, che in seguito sarebbe diventato famoso con il nome di George Orwell, e René-Noël Raimbault, il traduttore francese del suo Down and Out in Paris and in London (cfr. Raimbault 2006), quest’ultimo, verso la fine dello scambio, propone all’autore di abbandonare il cerimonioso monsieur per passare a cher ami, caro amico, che sente più adeguato al rapporto che si è instaurato attraverso quelle lettere (Raimbault 2006, 61). Mon cher Raimbault, gli risponde l’autore, vous avez bien raison, il ne vaut pas le peine de se servire de «monsieur » entre le amis. (Raimbault 2006, 65: Mio caro Raimbault, hai ragione, non vale la pena usare «monsieur» tra amici).
Qualcosa di analogo accade nella corrispondenza di Magris con i traduttori, dove gli iniziali «egregio/a» o «gentile», cedono presto il posto al «caro/a», e i «cordiali saluti» finali si trasformano presto in «abbracci». Non è solo una questione di forme linguistiche; nelle lettere che l’autore e i traduttori si scambiano, a poco a poco si insinuano anche affetti, gioie e dolori personali, insomma la vita.
Oltre alla Lettera ai traduttori di Alla cieca, qui di seguito accludiamo alcune lettere tratte dalla corrispondenza dell’autore con Anne Milano Appel e Ragni Maria Gschwend, che hanno tradotto il romanzo, rispettivamente, in inglese e in tedesco. Accludiamo anche uno scambio con la traduttrice finlandese Hannimari Heino, che ha per oggetto la traduzione di Microcosmi (cfr. Magris 1997). Uno dei temi centrali di queste lettere è la traduzione dei nomi di luogo, una questione che si ripropone in molti libri di Magris e che nel caso di Microcosmi è particolarmente sentita.
I testi acclusi fanno tutti parte dell’archivio personale di Claudio Magris, che ringrazio per averceli messi a disposizione. Sono tutti inediti, tranne la lettera di risposta a Hannimari Heino, datata 30.10.2001, che è già stata pubblicata in Ivancic 2013.
Le persone che l’autore nomina nella Lettera ai traduttori, chiamandole per nome, sono, in ordine di menzione, Marisa Madieri, Jole Zanetti e Giuseppe Bevilacqua.
Il libro di Giacomo Scotti cui Magris fa riferimento, sempre nella Lettera ai traduttori, è Goli Otok. Ritorno all’Isola Calva, Trieste, LINT, 1991.
Nella Lettera si menzionano inoltre due allegati inviati, rispettivamente, al traduttore danese e a quello islandese. Questi allegati qui non sono inclusi.
Le parti in cui l’autore si rivolge esplicitamente ai traduttori di una specifica lingua, inserendo citazioni o brani in quella lingua, al fine di facilitare il lavoro di traduzione, non sono stati tradotti proprio perché si tratta di un dialogo che ha ragion d’essere in quella data lingua.
Le traduttrici Anne Appel, Ragni Maria Gschwend e Hannimari Heino hanno tutt’e tre autorizzato la pubblicazione delle loro lettere. Nel farlo, hanno ricordato con grande piacere e anche con una certa nostalgia quel dialogo con Magris e la sua generosa e – stando alla loro testimonianza – rara dedizione al lavoro dei traduttori. Anche di questo le ringrazio.
Riferimenti bibliografici
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Eco 2003: Umberto Eco, Dire quasi la stessa cosa. Esperienze di traduzione, Milano, Bompiani
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Gschwend 2008: Ragni Maria Gschwend, Schneeberg – Snežnik – Nevoso. Auf beschwerlichen Pfaden durch die ‘Microcosmi’ von Claudio Magris, in Diesseits von Babel. Vom Metier des Übersetzens, a cura di Dietmar Hertel, Felix, Köln, SH Verlag, pp. 93-99
Kuhiwczak 1990: Piotr Kuhiwczak, Translation as Appropriation: The case of Milan Kundera’s “The Joke”, in Translation, History and Culture, ed. by Susan Bassnett and Andre Lefevere, London-New York, Pinter Publishers, pp. 118-130
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Magris 1986: Claudio Magris, Danubio, Milano, Garzanti
– 1997: Claudio Magris, Microcosmi, Milano, Garzanti
– 2005: Claudio Magris, Alla cieca, Milano, Garzanti
– 2007: Claudio Magris, L’autore e i suoi traduttori, in La traduzione d’autore, a cura di Marcella Bertuccelli, Pisa, Plus, pp. 37-53
Möhring 2008: Hans-Ulrich Möhring, Vom Schweigen meines Übersetzers (Del silenzio del mio traduttore), München, Fahrenheit
Munday 2013: Jeremy Munday, The role of archival and manuscript research in the investigation of translator decision-making, in «Target» 25(1), pp. 125-139
– 2014: Jeremy Munday, Using primary sources to produce a microhistory of translation and translators: theoretical and methodological concerns, in «Translator: Studies in Intercultural Communication» 20 (1), pp. 64-80
Orsenna 1997: Erik Orsenna, Deux étés (Due estati), Paris, Fayard
Raimbault 2006: George Orwell. Correspondance avec son traducteur René-Noël Raimbault. Correspondance inédite 1934-1935, éd. Marie-Annick Raimbault, Introduction par Marie-Annick Raimbault. Édition bilingue établie par Céline Place et Madeleine Renouard, Paris, Éditions Jean-Michel Place
Thirlwall 1966: John C. Thirlwall, In another language. A record of the thirty-year relationship between Thomas Mann and his English translator Helen Tracy Lowe-Porter, New York, Knopf
Vanderschelden 1998: Isabelle Vanderschelden, Authority in literary translation: Collaborating with the author, in «Translation Review», N. 56, pp. 22-32
Vigliani 2013: Ada Vigliani, Le mani nella terrina di Grass. Intervista a Claudio Groff, in «tradurre. pratiche, teorie, strumenti», n. 8 (primavera 2015) (https://rivistatradurre.it, 8/2015)
– 2016: Ada Vigliani, “L’insostituibile figura del revisore”. Conversazione con Ada Vigliani, in «Sur» (https://www.edizionisur.it/sotto-il-vulcano/16-09-2016/linsostituibile-figura-del-revisore-conversazione-ada-vigliani/)
Weaver 1990: William Weaver, Pendulum Diary, in «Southwest Review» 75 (2), pp. 150-178