Il vecchio lettore
La storia complessiva dei rapporti tra la cultura italiana e quella del resto del mondo dopo la prima guerra mondiale è ancora da fare, ma è molto più articolata e viva di come la rappresenta una vulgata sempre più spesso corrente nei media e (temo) nella scuola. Non solo, ovviamente, in Italia si è sempre tradotto da altre lingue, e non solo i classici ma anche i contemporanei. Non solo i risvegli alle culture altrui sono ricorsi più volte fin dal Settecento, in non casuale concomitanza con il risveglio all’identità nazionale. Ma il Novecento letterario italiano si apre, direi, addirittura con un programma di attenzione all’esterno dei confini: quello della «Voce» prezzoliniana.
Tutti gli anni dieci e venti, prima e dopo la prima guerra mondiale, furono un pullulare di traduzioni. La parte del leone la facevano ovviamente gli autori francesi. E questa è una prima dimenticanza della vulgata: il netto predominio che la cultura e la lingua francesi ebbero, in Italia come in tutta Europa, fino alla seconda guerra mondiale. Alla Francia era connesso il concetto stesso di modernità e non c’era persona di media cultura in Italia che non fosse in grado di leggere in francese. Fu tramite il francese che arrivarono da noi anche gran parte dei primi romanzi russi tradotti. Ma quella era la modernità d’élite. Il destino della modernità di massa si giocò, insieme coi destini novecenteschi del mondo, nelle due guerre mondiali e nella guerra fredda, facendo tramontare l’egemonia culturale francese.
Christopher Rundle (2010) ha dimostrato, cifre alla mano, che già dagli anni venti in Italia si pubblicavano più libri tradotti che in Francia e in Germania; che il numero complessivo delle traduzioni cominciò a calare, nonostante le grida d’allarme per gli attentati alla cultura nazionale lanciati dalle oche di regime già da tempo, soltanto dopo il 1935, cioè dopo l’aggressione italiana all’Etiopia e l’avvicinamento alla Germania; e che fino ad allora la lingua da cui si traduceva di più era di gran lunga il francese. E che, paradossalmente, mentre si cominciava a gridare alla «perfida Albione», proprio allora le traduzioni dall’inglese raggiunsero e superarono quelle dal francese. Di fatto, dal punto di vista culturale l’ostilità si elevava prima di tutto contro la vicina Francia, che tanto più potente e pericolosa appariva in questo campo. E, soprattutto, l’industria editoriale italiana cominciava a essere dominata dalla Mondadori, che assorbiva quasi tutta la produzione in traduzione e che evitava di pubblicare traduzioni di libri francesi perché i lettori abituali, che erano in numero molto più ristretto di oggi, leggevano direttamente in originale questa lingua. In tal modo il dinamico editore diede maggiore spazio ai best seller in inglese, di provenienza però principalmente britannica (forse è il caso di avvertire, anche se dovrebbe essere ovvio, che di postcoloniale non c’era ombra, essendo tempi di colonialismo trionfante).
Fra il 1930 e il 1935, cinque anni decisivi, la situazione era ancora fluida. I «mille demoni della modernità», come li evocava Corrado Alvaro nelle sue corrispondenze da Berlino nel 1929, erano impegnati in una lotta che aveva a epicentro la capitale tedesca. Il grande merito di aver messo a fuoco questo importante passaggio della nostra storia dell’editoria e culturale è di un bel libro di Mario Rubino (2002), che prende il titolo appunto da quella espressione alvariana. E non ho ritegno a riprenderne qui i passaggi essenziali al nostro tema.
Da Berlino, dove si viveva – scriveva il giovanissimo corrispondente del «Lavoro» Antonello Gerbi l’anno dopo – «veramente una vita veloce, zeitgemäß, resa più comoda dai meccanismi, diciamo pure (ma solo per far piacere ai berlinesi) “americana”» e che non aveva più complessi d’inferiorità verso la «rivale invecchiata» Parigi, veniva la Neue Sachlichkeit, la nuova oggettività. Sotto questa etichetta si comprendevano, quale che fosse il loro valore, sia i romanzi “di guerra” sia quelli descrittivi della tumultuosa realtà sociale berlinese: sia Erich Maria Remarque e Arnold Zweig e Ludwig Renn, sia Hans Fallada e Jakob Wassermann, sia Vicki Baum e gli scrittori e le altre scrittrici “di genere”. Di questo fermento di narrativa tedesca in italiano dà conto con dovizia di informazioni il recente libro di Natascia Barrale (2012).
Fiorivano le collane di traduzioni di autori stranieri presso la Slavia di Alfredo Polledro, presso Dall’Oglio e Corbaccio (col catalogo della Modernissima del pioniere Gian Dàuli), presso Bemporad, presso Sperling e Kupfer (con Lavinia Mazzucchetti), presso Frassinelli, presso Bompiani e, travolgente, presso Mondadori.
Era venuta alla ribalta un’agguerrita schiera di traduttori e di specialisti che aveva dato modo a Polledro, Dàuli e Mazzucchetti di mettere in piedi delle collane di narrativa straniera pienamente in grado di reggere il confronto con quelle esistenti sugli altri mercati europei (Rubino 2002, 62)
Ma fu soprattutto intorno a quella ondata di romanzi di area tedesca che si sviluppò sulla stampa, sia di regime che professionale, il dibattito pro e contro le traduzioni che contrassegnò l’inizio di quel decennio. Tra il 1919 e il 1928 il numero delle traduzioni di narrativa tedesca contemporanea era stato davvero esiguo e la scelta delle opere da pubblicare del tutto accidentale. Ma nel 1929 vennero pubblicati dieci titoli e nel 1930 sedici (tra i quali la prima versione dello Zauberberg di Thomas Mann, opera di Bice Giachetti-Sorteni, per Gian Dàuli).
Nel sostenere l’interesse verso la modernità di lingua tedesca, che un altro versante aveva nel retaggio dell’inquieta Vienna della finis Austriae, importante fu il ruolo di «una nuova leva di mediatori culturali qualificata»:
oltre alla doverosamente menzionata Lavinia Mazzucchetti e al pionieristico Alberto Spaini (furono sue le prime traduzioni in volume da Döblin e da Kafka), […] vanno qui ricordati, fra gli altri, Ervino Pocar, Enrico Rocca, Giacomo Prampolini, Enrico Burich, Barbara Allason, Bruno Revel. Molti di loro, parallelamente alle mansioni editoriali, disimpegnarono anche un’intensa attività giornalistica, arricchendo con la competenza dei propri interventi il dibattito culturale che si andava svolgendo sui temi della nuova letteratura tedesca (Rubino 2002, pp. 77 e n.).
Per Frassinelli il giovane Pavese pubblicava nel 1932 il suo Moby Dick. Ma un classico come quello non era ancora l’America della modernità di massa. Lo era semmai, in quello stesso anno, il Manhattan Transfer di John Dos Passos tradotto come Nuova York per il Corbaccio di Dall’Oglio da Alessandra Scalero (un denso confronto tra i due romanzi ha instaurato Pala 2004). Anche questo autore d’oltreatlantico preso a modello da Alfred Döblin sarebbe stato oggetto di traduzioni di Pavese, alla ricerca di soldi e di se stesso scrittore, per Mondadori: Il 42° parallelo (The Forty-second Parallel) nel 1934 e Un mucchio di quattrini (The Big Money) nel 1938. Sempre nel 1932 d’altronde era uscita, con dieci anni d’anticipo su Americana di Vittorini, la raccolta di articoli su Scrittori anglo-americani d’oggi messa insieme per Corticelli da quell’altro autentico pioniere che era Carlo Linati. Ma, tutti presi dal dibattito sulle traduzioni dal tedesco cui sopra ho accennato, pochi se n’erano accorti. Tra costoro, proprio Pavese, che su «La Cultura» criticava Linati perché «dell’America ha considerato seriamente soltanto quella parte che si è venuta a sfalsare in Europa, guastandosi così la visuale verso tutti, gli schietti e gli sfalsati» (citato da Zaccaria 1999, XIX).
1938: leggi razziali e alleanza con la Germania. Con la gestione del Minculpop da parte di Dino Alfieri il regime dà una stretta censoria decisiva. Eppure da Bompiani riescono a uscire Uomini e topi, traduzione di Of Mice and Men, e, l’anno dopo, Pian della Tortilla, traduzione di Tortilla Flat, entrambi di John Steinbeck, opera rispettivamente dello stesso Pavese e di Elio Vittorini. Vittorini indirizza verso l’America l’attenzione di Valentino Bompiani, di cui è appena diventato consulente e che fino ad allora aveva guardato prevalentemente proprio alla Mitteleuropa. L’anno dopo esce nientemeno che Furore, pur nella versione edulcorata di Carlo Coardi che nel numero 2 (primavera 2012) di questa rivista è stata esaminata da Anna Tagliavini. Seguirà la contrastata pubblicazione della antologia Americana, con cui Vittorini dava conto della sua personale “scoperta dell’America” letteraria, luogo di innocente, primigenia infanzia del moderno, epitome del mondo grande e terribile e specchio delle aspirazioni, letterarie e politiche, del suo scopritore, consapevole addirittura, con franca mancanza di umiltà, di prestare agli autori da lui tradotti il proprio stile. Ma non stupisce che la collana di antologie delle principali letterature straniere inaugurata presso Bompiani con Americana, «Pantheon», presentasse come secondo titolo (e ultimo: siamo nel 1942, al tramonto delle illusioni belliche italiote) una Germanica. Raccolta di narratori tedeschi dalle origini ai nostri giorni, curata da Leone Traverso (Vittorini 1985, 124 n.).
Si sa com’è andata a finire. A Berlino aveva avuto il sopravvento il più tremendo dei demoni della modernità: il nazismo. Il nazismo fu faticosamente combattuto e vinto. Non aveva forse Alvaro indicato «una sorta di carta geografica del moderno» nel «trinomio Germania-Russia-America» ovvero Berlino-Mosca-New York? (Rubino 2002, 18). Ora i «mille demoni» si erano ridotti a due: Mosca e New York, le «due modernità» che si affrontarono nella cultura italiana del dopoguerra, in particolare proprio in quella di sinistra (Pischedda 1995). In poco più di un decennio il polo berlinese era stato letteralmente annientato, e con esso, apparentemente, l’intero mondo mitteleuropeo, ruotante intorno alla lingua tedesca. Da allora, di qua e di là dell’Atlantico prima, in tutto il mondo poi, ha trionfato una sola modernità: quella americana. Vittorini aveva visto giusto, anche se la sua era una lente deformante. E la luce di questa schiacciante egemonia del “moderno americano” si è riverberata intorno, a tutti gli autori di lingua inglese contemporanei (vedi postcoloniale), e soprattutto indietro, ricacciando nell’ombra gli altri 999 demoni e aureolando di unicità di esploratori del mondo coloro che l’avevano “scoperta”.
C’era una volta il fascismo, regime gretto e oppressivo, nazionalista e strapaesano, che impediva agli italiani di leggere la letteratura straniera, condannandoli all’isolamento culturale e a un arretrato provincialismo. Arrivarono, negli anni trenta (per definizione pavesiana «il decennio delle traduzioni»), Pavese e Vittorini e, sfidando il regime, squarciarono quel buio illuminandolo d’America e aprendo così la cultura italiana alla modernità.
C’era una volta il regime PCI-DC, che con la sua cappa di conformismo “di sinistra”, incarnata dalla casa editrice Einaudi, manteneva la cultura italiana ignara del grande fermento mitteleuropeo. Negli anni sessanta arrivarono le edizioni Adelphi e finalmente gli italiani poterono leggere Nietzsche e Joseph Roth, Schnitzler e Hofmannstahl e tutta una serie di autori che fuoriuscivano dal canone cattocomunista, realista, neorealista e ideologizzato.
È questa la vulgata di cui si diceva all’inizio. Come ogni vulgata, contiene qualche briciola di verità e delle premesse sbagliate: né il fascismo fu così monolitico né è mai esistito, dopo il 1947 e prima degli anni settanta, un qualsiasi “inciucio” tra il partito comunista, stabilmente all’opposizione, e la democrazia cristiana, stabilmente al governo. Né l’Einaudi posbellica è riducibile a un unico modello (vedi qui il saggio di Michele Sisto).
Intanto la grande letteratura mitteleuropea poteva infatti continuare a contare sui suoi cultori, sia prima – come s’è visto – sia dopo la guerra. E la sua “riscoperta” adelphiana (riammessa la Germania postnazista con tutti gli onori, ma in subordine, nell’ambito della modernità americana) fu in realtà solo una indovinata e affascinante operazione editoriale. I capolavori contemporanei in lingua tedesca si era continuato a tradurli, con perizia e umiltà, da un piccolo stuolo di grandi professionisti e intellettuali, lontani dalla ribalta e – al contrario di Pavese e Vittorini – con scarse ambizioni, pur coltivate, di scrittori “in proprio”, del tutto ignorati dal grande pubblico che divorava Kafka, Mann e Musil nella lingua che quelli gli prestavano. Di costoro, ma – direi – di tutti i traduttori italiani del Novecento, abbiamo voluto erigere a rappresentante, nel titolo volutamente provocatorio di questo articolo, Ervino Pocar, che solo da poco tempo, e in una cerchia tutto sommato ancora ristretta di addetti ai lavori, ha raggiunto una certa notorietà: 80.000 pagine complessive tradotte, per diversi editori, da autori di lingua tedesca di tutti i tempi moderni, di tutti i livelli di qualità, di tutti generi (anche saggistica), in un “secondo mestiere” tenacemente esercitato per decenni, all’insegna di una consapevole umiltà, durante il cosiddetto “tempo libero” dal suo primo mestiere, che fu quello, per qualche tempo prima della guerra e quindi dal 1946 al 1961, di funzionario della casa editrice Mondadori (Antonello 2012; vedi anche Dacrema 1989 e Macor 1996). Di Pocar e del «pionieristico» Alberto Spaini abbiamo voluto riprendere in altra parte di questo numero alcune riflessioni d’antan sul tradurre.
Bibliografia
Antonello 2012: Anna Antonello, Una vita fra le righe, in Protagonisti nell’ombra, a cura di Gian Carlo Ferretti, Unicopli – Fondazione Alberto e Arnoldo Mondadori, Milano, pp. 151-180
Barrale 2012: Natascia Barrale, Le traduzioni di narrativa tedesca durante il fascismo, Carocci, Roma
Dacrema 1989: Ritratto di un germanista: Ervino Pocar, Tip. Sociale, Gorizia
Macor 1996: Celso Macor, Ervino Pocar, Edizioni Studio-Tesi, Pordenone-Padova 1996
Pala 2004: Mauro Pala, Allegorie metropolitane. Metropoli come poetiche moderniste in Berlin Alexanderplatz di Alfred Döblin e Manhattan Transfer di John Dos Passos, Cuec, Cagliari
Pischedda 1995: Bruno Pischedda, Due modernità. Le pagine culturali dell’Unità, 1945-1956, FrancoAngeli, Milano
Rubino 2002: L. Mario Rubino, I mille demoni della modernità, Flaccovio, Palermo
Rundle 2010: Christopher Rundle, Publishing Translations in Fascist Italy, Lang, Oxford
Vittorini 1985: Elio Vittorini, I libri, la città, il mondo. Lettere 1933-1943, a cura di Carlo Minoia, Einaudi, Torino
Zaccaria 1999: Giuseppe Zaccaria, America tra viaggio e racconto, introduzione a Elio Vittorini, Americana, vol. I, Bompiani, Milano