ATTORI E PERSONAGGI SULLA SCENA DEL TRADURRE
di Giovanni Greco
La scena della traduzione è come la scena del crimine: porta con sé una teatralità ricorrente e ancestrale, nella quale si distinguono attori, personaggi, costumi, luci e fondali che interagiscono ambiguamente davanti a uno spettatore/lettore e che di volta in volta configurano quella messa in scena come unica e irripetibile, come necessaria e impossibile, come viva eppure morta e, soprattutto, con l’urgenza di una decodifica, cioè del disvelamento del colpevole e delle colpe. In questa scaena criminis si verifica sempre un omicidio o più di un omicidio, ovvero c’è sempre un assassino (traditore) o più di un assassino: l’assassinio può essere più o meno consapevole, l’omicida può essere recidivo o ignaro, talora il detective e l’omicida possono coincidere come nella migliore tradizione edipica. Ma l’atto interpretativo ovvero l’intenzione ermeneutica che viene messa in opera prima della traduzione, quindi durante e poi dopo, è concretamente un atto della semiosi teatrale con mittenti e destinatari, presenti e assenti, che devono essere interrogati, arrestati, rilasciati ovvero condannati a morte, alla tortura, al rogo o all’esilio a seconda delle condizioni storiche e geografiche, cioè del tempo e dello spazio in cui si manifesta lo scelus vertendi. La complessità è dunque il portato di ogni atto traduttivo e la risoluzione dell’enigma e degli enigmi passa necessariamente per una serie di approssimazioni, di tentativi, di fallimenti o di parziali conquiste che fanno del processo della traduzione uno dei processi fondanti della comunicazione umana e nello specifico il modus operandi di quella figura, lungamente vilipesa e deliberatamente messa da parte, che è il traduttore, oggi sempre più riabilitato e addirittura assurto al rango di autore, di voce originale, di veicolo principale della tradizione culturale intesa in senso dinamico e non di traditore di un’origine, data una volta per sempre, e intesa in senso statico.
C’è poi un altro aspetto che connette la scena ovvero le scene della traduzione con la teatralità, e di nuovo con la scena di un crimine, ed è quello del travestimento: si può affermare, senza timore di esser smentiti, che, alle differenti latitudini spazio-temporali nelle quali la teatralità ha trovato una forma espressiva dentro una serie di convenzioni e di codici, uno dei segni della riconoscibilità della finzione scenica passi per il camuffamento, il mascheramento, il travestimento, che proiettano immediatamente la quotidianità e la normalità della vita sul piano della metamorfosi, del mutamento d’identità, dell’assunzione dell’altro da sé all’interno di sé per un pubblico. Ogni volta che si attende a una traduzione, la voce che parla nel nuovo orizzonte linguistico e culturale è sempre, inevitabilmente, en travestie, parla come se fosse un’altra voce, di un altro mondo, ma echeggia parvenze e movenze di voci e espressioni di questo mondo, si configura in realtà come una Zwischenwelt o Zwischenstimme, un intermondo o un’intervoce, un tertium che non è più quello e che non è ancora questo. Non solo: quella voce che si camuffa delle vesti(gia) di un’altra è insieme idioletto e socioletto e dunque allude nostalgicamente a quello che non c’è più e prospetta utopisticamente quello che potrebbe essere, soggettivamente e intersoggettivamente. È perciò la voce di un fantasma, di uno spettro, di un’impossibile metempsicosi che non si dà mai concretamente, ma a cui non si può non tendere idealmente. È la voce di un morto travestita da quella di un vivo, di un trucidato che ritorna a dire la sua battuta di sempre, la sua frase incancellabile che non si vuole più sentire e che non si può fare a meno di risentire: come quella del fantasma di Amleto di Shakespeare o come le parole del Padre nei Sei personaggi di Pirandello che lo inchiodano per sempre al suo crimine sfiorato, al suo incesto mancato. C’è sempre una maschera(ta) dietro e davanti a un traduttore, c’è sempre una maschera(ta) dietro e davanti a un delitto.
E quando si dice travestimento si dice gioco: non si dà teatro fuori da una dimensione ludica che viva come autentico e addirittura emozionante il paradosso del come se. Ma che vuol dire come se? Il gioco della traduzione come quello del teatro si propone a tutti gli effetti come gioco in quanto è soggetto a regole e a codici e solo in quanto esistono e sono date, queste regole del gioco, possono essere trasgredite, mitigate, riaggiustate in corso d’opera (we make up the rules as we go along, diceva Wittgenstein 1983, 56: ci facciamo le regole man mano che procediamo) e determinare il divertimento, la verità del divertimento di ogni gesto ludico, sia esso teatrale o traduttivo. Con divertimento intendo, ovviamente, non solo la risata catartica, ma la possibilità di di-vergere dalla quotidianità per accedere a uno spazio e a un tempo altri che sono quelli della re-cita, della re-citazione, dell’azione-parola che ne cita un’altra per inverarsi. La traduzione è re-cita ovvero re-citazione come lo è il teatro in un’ottica eminentemente ludica, cioè di spassionata gratuità e di urgenza comunicativa che cerchi l’uscita dal sé e il viaggio verso l’Altro come abbandono faticoso e inesausto della solitudine e del narcisismo. L’attitudine al gioco si presenta dunque come la possibilità del confronto con regole e codici anche quando il gioco è solitario, anche quando all’apparenza non c’è fisicamente nessuno a condividere in praesentia le avversità e le soluzioni dell’avventura ludica: se la scena della traduzione sembra un monologo, in realtà non è mai meno di un dialogo e molto spesso questo dialogo moltiplica i suoi interlocutori sottoponendosi non solo all’intenzione dell’autore, ma alle attenzioni interiorizzate del fruitore, del suo tempo e delle sue abitudini, delle sue fisime e dei suoi tic, spesso coincidenti con quelle del traduttore e irriducibili a quelle dell’autore, ovvero target-oriented e non source-oriented, come amano dire le teorie della ricezione oltre che della traduzione.
Un caso particolare e paradigmatico in questa cornice è rappresentato proprio dalla traduzione del teatro, vera e propria mise en abîme del processo sopra descritto, cioè germinazione infinita e complicazione molteplice della re-cita, data la natura orale/aurale della comunicazione teatrale, che non conclude la sua vicenda sulla pagina scritta, ma che dalla pagina scritta prende le mosse per un viaggio ulteriore e definitivo nel campo della performance: from page to stage. Proprio per questo, lo studio della traduzione teatrale o della cosiddetta transformance, così trascurato nel fiorire di studi sulla traduzione degli ultimi decenni e oggettivamente frustrante per molti versi, può letteralmente sollevare il sipario su una serie di questioni che ricadono nella sfera della traduzione della poesia, della narrativa e persino di testi tecnici e gergali, persino della traduzione simultanea o consecutiva che necessitano della competence dell’oralità. Il fatto che tradurre (per) il teatro si confronti direttamente con testi drammatici che vivono la nostalgia della scrittura scenica e che portano inscritti le modalità precedentemente menzionate, rende quest’attività, più di altre forse, il vero cavallo di Troia per accedere a una considerazione teorica nuova del fatto traduttivo che non sia più dicotomica ovvero estemporanea e meramente esperienziale, ma che finalmente assuma la traduzione come un atto creativo e vitale, come un’operazione di primo grado e di portata universale che implica responsabilità e sfrontatezza allo stesso tempo e che non deve considerarsi ancillare ad altre.
Alcune considerazioni sulla specificità della traduzione teatrale: from page to stage
Nell’ambito dei fenomeni di traduzione intesi in senso ampio, la traduzione di un testo teatrale costituisce dunque un sottoinsieme specifico, con caratteristiche peculiari (Bassnett 1993, 148-163; Bassnett and Lefevere 1998, 90-108; Zatlin 2005, 1-102). Lo statuto di un testo teatrale assume la performance, la scrittura scenica, come inveramento della scrittura drammatica. La restituzione di un testo teatrale a un’altra lingua, in senso sincronico come diacronico, presuppone sempre una storicizzazione e una contestualizzazione di convenzioni e codici dell’oralità (Segre 1984, 103-118). La semiotica del teatro, che ha visto un grande sviluppo negli ultimi trent’anni, arriva a configurare la messa in scena come il punto prevalente se non centrale della trasposizione di un testo drammatico, nel quale l’elemento verbale, letterario, funge da pre-testo o da geno-testo (Ubersfeld 1996, 20-21), cioè da testo che precede il vero testo teatrale, la scrittura scenica, senza per questo presentarsi come l’occasione per una decostruzione arbitraria quale che sia. I fattori sovra-segmentali, paralinguistici e/o illocutori (ritmici, prosodici, prossemici, cinesici) e i codici della scena (la luce, la scenografia, i costumi, la musica) trasformano radicalmente il significato letterario e letterale del segno verbale nudo e crudo fino talora a renderlo irriconoscibile (Elam 2002, 162 ss.). Oltre a ciò, se è vero che ogni traduzione, intesa come momento ermeneutico, lascia dei blanks, degli spazi di senso che gli interpreti sono chiamati a riempire, la parola e la frase di un testo che deve essere detto, agito, “performato”, devono sempre porsi il problema della risonanza, dell’eco, della nostalgia che la parola teatrale “soffre” nel fissarsi sulla pagina scritta. E non solo la parola, ma tutto il sistema di equilibri che si stabilisce tra visibile e non visibile, tra detto e non detto, tra presente e assente che fanno la specificità dell’evento hic et nunc. In questa specificità, in questo hic et nunc c’è, last but not least, il corpo e la voce del performer, cioè il fatto che la traduzione del segno teatrale si realizza all’istante, vive la sua acme e ne muore eroicamente nello stesso momento (ovvero lo vive fino a morirne), non permette il ritorno all’indietro o il giro su sé: il performer fa carne e sangue, sudore e respiro, traduzione in azione di quell’atto traduttivo che in ogni altra forma espressiva viene presupposto, agito altrove, persino dimenticato nella fruizione che si fa a posteriori dell’opera tradotta. Il performer è, per così dire, la mise en abîme del traduttore, il suo riflesso e la sua proiezione drammatica, scenica, metafora e metonimia dell’atto interpretativo che si produce davanti agli occhi e nelle orecchie del fruitore in praesentia.
Se il testo drammatico dunque è un testo incompleto, monco, attesa di un “messia” che lo precede e gli sopravvive, l’analisi di una traduzione teatrale non può che confrontarsi da principio con questa latenza o latitanza: la verità di un’interpretazione globale che sfugge comunque all’interprete di un testo quale che sia, sfugge all’interprete di un testo teatrale fino a renderlo opaco, illeggibile addirittura, prima di averlo visto o ascoltato in azione. Così, l’analisi di tipo storico-descrittivo di una traduzione teatrale contiene in sé un aspetto remotamente normativo che prospetta la traduzione della parola teatrale come traduzione di qualcosa non solo e non tanto di dicibile ad alta voce, di recitabile – come troppo spesso si legge e si afferma a mo’ di esorcismo, apoditticamente – quanto come qualcosa di non finito (che non vuol dire vago), ma artatamente codificato come incompiuto, da compiersi in infiniti atti interpretativi, attinenti al piano della realizzazione dal vivo. Susan Bassnett (Bassnett and Lefevere 1998, 94-95) sostiene, a ragione, che concetti come speakability (dicibilità) e performability (recitabilità), resistendo a una vera e propria definizione semiotica e, nonostante questo, molto abusati come fattori distintivi di una drammaturgia naturalista, psicologista e illusionistica, risultino abbastanza inservibili come parametri ispiratori di una traduzione teatrale in senso lato e di un giudizio oggettivabile su di essa.
E allora cos’è che fa della scrittura teatrale uno specifico (e forse paradigmatico) campo della traduzione? Peculiare della scrittura teatrale è la deissi; ovvero in un qualsiasi testo teatrale sono inscritti particolari indicatori di spazialità, di temporalità e di movimento che si realizzano nell’uso di particelle del discorso, di certi pronomi dimostrativi, di certi avverbi, di certi verbi che forniscono suggerimenti spesso ineludibili per l’esecuzione della partitura drammaturgica (antica e moderna) e che devono essere decodificati al pari di qualsiasi altro elemento della semiosi. La questione della deissi è connessa a quella della didascalia, anche se non si identifica interamente con questa: ogni testo teatrale, in un’ottica schematica ma non arbitraria, reca in forma implicita (da Eschilo a Shakespeare e Molière) o esplicita (dalla riforma goldoniana ai nostri giorni) dei suggerimenti di scrittura scenica quasi sempre obbligati per il/i realizzatore/i della scrittura drammatica. Una parte rilevante delle indicazioni utili per mettere in scena un testo teatrale non è direttamente presente nel dialogo drammatico, nelle parole che un personaggio rivolge all’altro, al coro o al pubblico, ma si ricava da altri segni, dai silenzi del linguaggio verbale, oppure viene messa tra parentesi dall’autore che indica la strada da seguire nella costruzione dello spazio e del tempo scenico, dei personaggi e delle loro azioni, delle loro entrate e delle uscite, della loro reciproca distanza o vicinanza, fino ai costumi, al disegno delle luci e dei suoni, all’intensità e al colore della voce, all’età e alla stazza degli attori, al numero e alla forma degli oggetti di scena, fino alla determinazione della presenza/funzione del pubblico, del foyer, delle strade intorno all’edificio teatrale, della pubblicità da farsi in previsione dell’evento (nel metateatro, ad esempio) etc. La restituzione di questa complessità straordinaria di tipo semiotico richiede un’abilità artigianale in senso totale che traduca gli spunti deittici e didascalici della drammaturgia in segni scenici, secondo convenzioni e codici storici e geografici precipui, variabili diamesiche, diastratiche, diafasiche, diatopiche, sfasature semantiche tra socioletti e idioletti, consuetudini tecniche e gergali, modalità percettive, tic e automatismi dell’ascolto e della visione, nell’assunzione degli orizzonti di attesa di un pubblico sempre storicamente determinato in un rapporto dialettico con la memoria personale e collettiva di una società. E quando dico “traduca” mi riferisco a un’operazione qual è quella del regista, dello scenografo, del costumista, del disegnatore luci e ovviamente dell’attore/performer. Non mi riferisco a quell’operazione di passaggio da un patrimonio linguistico all’altro che in un caso come la scrittura teatrale non è, se mai è, un fatto puramente linguistico, ma si configura come una vera e propria ricollocazione radicale dell’oralità/auralità del testo di partenza nell’oralità/auralità del testo di arrivo al variare delle variabili su elencate.
Il traduttore del testo teatrale, che non si limiti a intendere Sofocle come Cechov nel senso di letteratura teatrale nella quale la rappresentazione si predispone al massimo come l’illustrazione mentale della scena di un romanzo o di un racconto, dovrebbe vestire l’habitus del metteur en scène, cioè porsi nei confronti del testo di arrivo in una prospettiva comunicativa concreta (Segre 1984, 3-26, appare a tutt’oggi come declinazione credibile della complessità dello schema della comunicazione di Jakobson 1963 in chiave teatrale; ma si veda anche Elam 2002, 39-101, in una direzione sistematica, compiutamente semiologica, attenta all’analisi della rappresentazione spettacolare). Con questo non dico che si debba lasciar tradurre il teatro esclusivamente ai teatranti (o la poesia ai soli poeti, come accade ancora oggi, per antica prassi e in maniera cospicua, in alcuni paesi di lingua slava): dico, in senso pragmatico e non prescrittivo, che il traduttore teatrale dovrebbe assumere, in quanto teatrale, l’atteggiamento del come se, cioè quello di una restituzione che si faccia carico di essere a ogni passo scrittura vivente, e dunque di vedere e di ascoltare le parole, le azioni, gli spazi e i tempi dell’azione scenica come se fosse il regista, lo scenografo, l’attore, il Dramaturg etc., ma senza esserlo, come se lo fosse, ma per finta, per gioco, “recitando” (cuique suum). Con l’idea produttiva di vedere e sentire in piedi, in azione, lettera viva, ciò che è disteso, addormentato, lettera morta o dormiente sulla pagina: con l’idea di essere il primo medium non solo della coerenza/correttezza linguistico-grammaticale, ma anche di quella scenico-drammatica.
Tuttavia, per arrivare a questo, bisogna procedere per passi successivi e con cautela, in un campo poco praticato e scivoloso, dove è facile essere fraintesi, risultando insieme banalmente normativi o velleitariamente impressionistici.
Per parlare, infatti, di traduzione di testi teatrali bisogna in primo luogo dare un quadro sintetico di quanto e di cosa la semiotica teatrale ha messo in campo e ha studiato nel secolo scorso. Questo settore della semiotica si sviluppa a partire dalle riflessioni teoriche e analitiche del Circolo di Praga e dello strutturalismo nei primi anni Trenta, con la finalità di studiare le strutture e i meccanismi linguistici di produzione di senso e comunicazione del teatro. La sistemazione teorica praghese si riassume in tre principi: principio di artificializzazione (tutto ciò che è sulla scena è segno); principio di funzionamento connotativo (i segni mostrati sulla scena tendono ad assumere dimensioni “ulteriori”, in quanto segni di segni); principio della mobilità (sulla scena i segni possono cambiare di significato a seconda dell’uso semiotico e del tempo). Nel 1964 Roland Barthes, in Littérature et signification, indica nella «polifonia informazionale» e nello «spessore dei segni» il tratto distintivo del teatro e la sua vera sfida alla sistematicità analitica della semiotica, quella semiotica che Barthes stesso ha inteso, nella sua impostazione fortemente linguistica, come elaborazione in chiave segnica generale delle famose dicotomie saussuriane (langue/parole, significato/significante, sincronia/diacronia, sintagma/paradigma etc.). In questa fase, la semiotica del teatro punta il proprio interesse sull’elemento testuale del teatro, in particolare sul testo verbale scritto che costituisce il testo drammatico e l’elemento principale su cui focalizzare l’attenzione (Mounin 1970, 92, mette in dubbio la classificazione del legame attore-spettatore come rapporto comunicativo: la comunicazione dipenderebbe, secondo lui, dalla possibilità che mittente e destinatario usino lo stesso codice, ma anche che possano interscambiarsi, cosa che nel teatro non avverrebbe in quanto gli attori-emittenti e gli spettatori-destinatari «restano sempre gli stessi»).
Con i lavori di Tadeusz Kowzan, a partire dal fondamentale The Sign in the Theatre del 1968, nasce e si sviluppa, tra la fine degli anni sessanta e la fine degli anni settanta, la semiotica del teatro come disciplina intesa a elaborare una codificazione specifica dei sistemi di segni che costituiscono il teatro e ad approntare dei sistemi esatti di analisi. In opposizione alla concezione linguistico-strutturalista ortodossa, che considera il teatro come il cinema o la moda alla stregua di un linguaggio da ricondurre al modello principe del linguaggio verbale, si apre, in coincidenza con la grande stagione dei Brook, dei Grotowsky, dei Ronconi, degli Stein, dei Kantor, dei Bene, una cospicua riflessione, che, nelle diverse articolazioni, s’incentra sull’analisi della rappresentazione spettacolare come testo, che sottolinea la necessità di una modificazione radicale dell’approccio logocentrico, assumendo lo spettacolo concreto nella sua densità segnica come vero oggetto dell’analisi semiotica: si passa dall’idea del testo teatrale come testo-nella-storia al testo teatrale come testo-in-situazione (da Mounin 1970 a Pavis 1976, a Ubersfeld 1996 – la cui prima edizione è del 1977 – a Ruffini 1978, fino ad arrivare a Elam 2002 – ma la prima edizione è del 1980 – e a De Marinis 1982). Il punto più estremo di abbandono dell’analisi drammaturgica come analisi testuale lo si era forse toccato con Michael Kirby, primo critico a raccogliere e commentare nel mitico Happenings (1965), i canovacci di “spettacoli/eventi” avvenuti una volta sola. La pragmatica, che prende le mosse a partire da Peirce, inoltre, sposta gli interessi della semiotica verso l’analisi del contesto spettacolare – e in particolare della relazione attore-spettatore – e delle modalità di funzionamento della ricezione teatrale, nei suoi aspetti più concreti (in Italia, su questa linea, fondamentali sono i primi studi di Bettetini 1977 e di Serpieri 1985). La mutazione del focus (e si potrebbe dire la reazione) che si produce in seguito, a partire dai primi anni ottanta, nella storia del teatro e dello spettacolo, come conseguenza di una più generale trasformazione sociale, politica ed economica, frammenta e individualizza le ricerche, disperde o “manierizza” il patrimonio di intere comunità teatrali dei precedenti decenni, ridimensiona e perfino ridicolizza il ruolo della cosiddetta critica “militante”, ritorna, dopo l’esplosione e l’esaurimento dell’esperienza delle avanguardie, al plot, alla drammaturgia con la D maiuscola, ai luoghi deputati per l’evento scenico, a una idea di sperimentazione progressivamente sempre più avulsa dal contesto sociale (o solo espressione di un differente contesto sociale), sempre più solitaria, sempre più estetizzante. Le ricerche, anche in campo semiotico, oltre che nel campo della diretta produzione teatrale, prendono strade sempre più circoscritte nel rapporto con i nuovi media e con la realtà digitale e telematica. Il caso più eclatante di questo ripiegamento epocale è quello di Jerzy Grotowsky, che, dopo il leggendario Apocalypsis cum figuris (1979), chiude con il teatro come rappresentazione, si ritira a Pontedera in Toscana e comincia una ricerca ultraventennale, esoterica, sui canti haitiani, con un gruppo ristretto di attori tra cui Thomas Richards (erede di Cieslak), che non ha nessuno sbocco spettacolare e che si dichiara arte come veicolo, cioè senza la necessità di una presentazione pubblica (Richards 1997, 120-141).
Dal punto di vista semiotico questo corrisponde alla rinuncia nei fatti ad afferrare lo spettacolo come corpus per un’anatomia chirurgica, nell’intento forse velleitario di definire un découpage oggettivabile ed esatto del fatto scenico che analizzi lo spazio teatrale e la scenografia, l’oggetto teatrale, il lavoro dell’attore, il tempo del teatro, il lavoro del regista, la funzione dello spettatore secondo criteri di “esattezza”. In una prospettiva sempre più target-oriented gli studi di questi ultimi anni muovono verso una semiotica storica che concepisce il proprio oggetto come “reperto culturale” da indagare attraverso un’attenta analisi contestuale dello spettacolo che affronta sempre di più aspetti specifici con strumenti affinati, ma che ha rinunciato all’idea che la problematizzazione dell’evento teatrale, in termini brechtiani ad esempio, possa avere portata rivoluzionaria generale. Per paradosso, il ripiegamento del teatro su se stesso, inonda di teatralità il tessuto socio-culturale: nasce (o rinasce) quella che ancora oggi si chiama società dello spettacolo (la definizione è notoriamente di Guy Debord). Gli sviluppi più recenti (degli ultimi venti anni) vedono la semiotica sempre più impegnata sul campo della ricerca empirica, per esempio nel campo della drammaturgia, della regia e della recitazione digitali e multimediali, di tutto quel filone che si è sviluppato a partire dalla relazione del mondo della scena con le tecnologie digitali: con software come quello della motion-capture, macchina sofisticatissima che cattura e riproduce in 3D e in forma ologrammatica le vicissitudini sceniche del performer, moltiplicando i piani e i tempi dell’azione e della ricezione (Pizzo 2003).
La traduzione del teatro (e della poesia)
Dove si colloca allora la traduzione del teatro a fronte della complessità testè prospettata?
Lefevere includes 374 books and articles in his Suggestions for Further Reading; in only six of these titles is drama specifically mentioned. Prefacing her discussion of the subject in the first edition of her Translation Studies, Susan Bassnett identifies theatre as «one of the most neglected areas»; given her own strong interest in the subject, she gives to theatre some 12 pages of her 53-page chapter on literary translation. In the third edition of her groundbreaking book, she appends a select bibliography of works published in English from 1980 onward. Her list includes 210 books and 47 articles; only six of these books and three of the articles refer to theatre. It is therefore understandable that in Literary Translation. A Practical Guide, Clifford E. Landers (2001) dedicates only two and a half pages to translating for the theatre. Brigitte Schultze theorizes that much less has been written on the translation of drama because with narrative fiction and poetry one has to deal only with written text. «Drama translation, in contrast, implies simultaneous transfer into two forms of communication: monomedial literature (reading) and polymedial theatre (performance)».
Ossia:
Lefevere [1992a] elenca 374 libri e articoli nelle sue Suggestions for Further Reading; in solo sei di questi titoli viene specificamente menzionato il teatro. Nella prefazione alla trattazione dell’argomento nella prima edizione del suo Translation Studies [Bassnett and McGuire 1980, 120], Susan Bassnett identifica il teatro come «una delle aree più trascurate» e, dato il suo grande interesse per l’argomento, concede al teatro circa dodici delle 53 pagine che il capitolo dedica alla traduzione letteraria. Nella terza edizione di quel libro rivoluzionario aggiunge una bibliografia selezionata di opere pubblicate in inglese dal 1980 in avanti (Bassnett, 2002, 149–64). La lista comprende 210 libri e 47 articoli; solo sei di questi libri e tre di questi articoli sono dedicati al teatro. È dunque comprensibile che in Literary Translation. A Practical Guide, Clifford E. Landers (2001) dedichi solo due pagine e mezzo alla traduzione per il teatro. Brigitte Schultze [1988, 177] teorizza che molto meno è stato scritto sulla traduzione del teatro perché con la narrativa e con la poesia ci si confronta solo con un testo scritto. «La traduzione del teatro, di contro, implica il trasferimento simultaneo in due forme di comunicazione: la letteratura monomediale (reading) e il teatro polimediale (performance)» (Zaltin 2005, VII-VIII)
Non si discosta molto, questa affermazione, per tono e diagnosi, da quanto premesso nel recentissimo Baines, Marinetti e Perteghella 2011 rispetto alla secondarietà, all’occasionalità e all’a-sistematicità continuativa degli studi traduttologici sul teatro. L’impostazione della maggior parte di questi studi è centrata sul singolo aspetto dell’opera tradotta, si configura come racconto empirico a posteriori di un’esperienza diretta di traduzione teatrale, non aspira quasi mai a considerazioni di carattere generale, in molti casi ha la forma di un’intervista, di consigli pratici, di questionari a cui qualcuno ha risposto con l’idea di stabilire delle regolarità che non assurgono mai a criteri di ricorrenza significativi. Risuonano ancora le parole di Mounin 1963, 154:
Il teatro con la sua ricchezza di situazioni che esprimono la vita più immediata e totale di un popolo (e che presenta quelle situazioni senza lungo commento, sostanzialmente etnografico, che è in qualsiasi romanzo) rimane a lungo la forma letteraria meno adatta all’esportazione.
La stessa Zatlin, in un articolo di dieci anni prima (Zatlin 1995), aveva formulato una sorta di decalogo del buon traduttore teatrale, basato sulla sua pluridecennale esperienza diretta di ispanista americana, oltre che sul tentativo di astrarre dei principi (talora specifici, talora generici):
theatrical language must have vitality; dialogue has to be speakable; generally there should be a differentiation of voices; the text must be translated as a whole; it is usually, but not always, important to remain faithful to the original setting; proper names may pose problems; songs require special treatments; beware of cultural gaps; there are sometimes ways to duplicate a source text’s multilingual games.
[il linguaggio teatrale deve avere vitalità; il dialogo deve essere dicibile; in genere ci dovrebbe essere una differenziazione di voci; il testo deve essere tradotto nel suo complesso; è di solito, ma non sempre, importante rimanere fedeli all’impostazione originaria; i nomi propri possono porre problemi; le canzoni richiedono un trattamento speciale; attenzione agli “scarti” culturali; a volte ci sono modi per duplicare i giochi multilinguistici di un testo di partenza.]
Alcune delle questioni poste sono centrali e specifiche: per esempio quella della differenziazione delle voci dei personaggi, dei registri linguistici e stilistici in relazione alla recitazione, alla fisicità, ai costumi; così come specifico è il particolare trattamento da riservare alla traduzione delle canzoni, soprattutto quando hanno funzione drammatica e non solo di sospensione dell’azione scenica. Altre valgono per il teatro come per la narrativa o la poesia: l’attenzione al divario culturale o la necessità della vitalità della restituzione, che è sempre auspicabile in un rewording, hanno senso solo se calate nelle peculiarità della semiosi teatrale. I giochi di parole, così come i nomi propri, investono un piano che potrebbe essere specifico (soprattutto in commedia), dal momento che il teatro li pronuncia e dunque li consuma nell’attimo senza ritorno della dizione scenica, ma il Witz, il pun, il gioco di parole come canale d’intesa tra autore e pubblico riguarda, dal punto di vista della densità del segno, altre forme espressive oltre il teatro. In ultimo la dicibilità come l’interezza della traduzione sono richiami generici, con uno spettro amplissimo di applicazione e con una vaghezza di cui non si coglie il senso peculiare: ogni traduzione va realizzata per intero, anche se è vero che molti teorizzano per il teatro omissioni e integrazioni. Quanto alla dicibilità, che per molti versi è sinonimo di recitabilità, non coincide, come pure la vulgata teatrale sostiene, con la paratassi, la linearità, l’abbassamento del registro lessicale e lo scioglimento dei nessi sintagmatici complessi né con l’evocazione di inflessioni e cadenze o accenti regionali, quando non dichiaratamente dialettali (portatori di una naturalezza solo ideologica, pseudo-naturalistica, televisiva): l’anastrofe, la metafora opaca, l’ipotassi, l’anafora che nega la sinonimia, il coagulo retorico antitesi della mimesi di un parlato cosiddetto spontaneo, posseggono valore non solo letterario, ma espressivo, dicono e comunicano un’anomalia e una (in)subordinazione del pensiero che si fa parola mentre si fa voce, una sottolineatura della funzione emotiva/conativa su quella referenziale, che è necessità e inveramento autentico della semiosi orale. La dislocazione apparentemente non consequenziale, non logica, delle parole (in versi come in prosa, nelle lingue flessionali come in quelle non flessionali) consente alla funzione poetica del linguaggio di prendere corpo, di installarsi perentoriamente proprio là dove questa dislocazione fa violenza alla sequenza attesa nell’uso linguistico-sintattico standardizzato. Naturalmente non si può affermare in astratto quanto appena detto, non si può fornire un ulteriore paradigma prescrittivo mascherandolo da auspicio: ma è opportuno non sottovalutare o ridurre la portata dell’artificio linguistico o semiotico che non manca mai di presentarsi nella traduzione teatrale in forma differente da altre forme di traduzione (sulla questione dell’ordo verborum, e della sua difficile restituzione fin dai tempi dei dilemmi di Girolamo traduttore della Bibbia, è tornato di recente Bettini 2012, 189-261).
A complicare la situazione descritta, già complessa, si aggiunge il fatto che i testi teatrali antichi (e quelli moderni almeno fino al XVIII secolo in maniera quasi esclusiva, ma tutto l’Ottocento e il Novecento continuano a scrivere teatro in versi) sono scritti in versi e questa configurazione formale ha una funzione comunicativa precipua, interiorizzata da autori e pubblico e articolata all’interno dei testi stessi e tra i testi e le epoche, tra autore e autore in un dialogo infinito, che di volta in volta diviene citazione, parodia, mise en abîme. Di tutte le tipologie traduttive, la traduzione della poesia rappresenta il punto di non ritorno, quella sulla quale si appuntano gli strali dei teorici dell’intraducibilità che realizzano nel discorso poetico l’aforisma attribuito da lunga tradizione a Robert Frost (ma che non si riesce a far risalire a nessuna delle sue opere): poetry is what gets lost in translation (la poesia è ciò che va perso nella traduzione). Questo aforisma, che ha goduto di grande fortuna teorica nella sua sintesi suggestiva, viene definito immensely silly remark (un’osservazione immensamente stupida) da Bassnett and Lefevere 1998, 57, che rivendicano comunque alla traduzione (compresa quella poetica) una funzione più grande di quella di una trasposizione interlinguistica, sostenendo che l’idea sottesa a queste parole sia portatrice di un punto di vista metafisico, essenzialista e persino xenofobo (si veda su traduzione poesia vs traduzione prosa Meschonnic in Nergaard 1995, 265-281). In verità la traduzione della poesia contrae un debito nella restituzione ad altra lingua come ogni traduzione, ma questo debito appare più sfuggente, più difficile da recuperare nei termini di una fedeltà concreta in quanto concerne il piano di quella che Pound (1968, 25) chiamava la «melopea», il piano del significante, della sostanza dell’espressione, se come, diceva Valéry, «in poesia la fedeltà limitata al significato è una sorta di tradimento» (sulla traduzione poetica la bibliografia è amplissima: si veda exempli gratia Gentili in Nicosia 1991, 31-40, e Gigante in Nicosia 1991, 139-166; Condello in Neri e Tosi, 31-65, per quel che riguarda la traduzione della poesia classica; più in generale, mi limito a segnalare Jakobson 1959, 232-239; Lotman in Nergaard 1995, 256-263; Mounin 1965, 141-150; Copioli 1983; Buffoni 1989; Bassnett 1993, 135-138; Dolfi 2004). Una lunga tradizione novecentesca che intreccia estetica, psicanalisi (Lacan) e retorica, esibisce l’autonomia del significante come fattore peculiare della ricerca poetica nella sua teatralità: i valori fonosimbolici inscritti nella forma poetica sono, a tutti gli effetti, la poesia stessa, il suo significato unico e ultimo, sono anzi la modalità con la quale la poesia mette in crisi la radicale arbitrarietà del segno linguistico di saussuriana memoria, rendendolo, nel sistema metaforico e metonimico della dizione poetica, motivato, iconico, paradossalmente giustificato. La memoria ritmica e sonora agisce da agente creativo all’interno dell’opera di uno stesso autore, di un autore rispetto a un altro e nel rapporto dinamico con la memoria del fruitore: e questo vale per una civiltà orale-aurale come quella antica così come per una civiltà della scrittura teatrale, seppure con modalità diverse (cfr. Prete 2011). L’esecuzione della partitura si pone dunque come l’inveramento ermeneutico imprescindibile, e dunque, come dice un grande traduttore teatrale contemporaneo, «if poetry is what gets lost in translation, it can also, in the right hands, be what is gained» (Bolt 2010, 29: se la poesia è ciò che va perso nella traduzione, può anche essere, nelle mani giuste, ciò che si guadagna).
Uno dei casi più eclatanti di applicazione concreta di questa autonomia del significante alla traduzione poetica per esempio di testi classici è rappresentato dagli esperimenti di metrica barbara tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento in Italia (che presentano antecedenti sia in Francia che in Inghilterra e in Germania, ma non così rilevanti per quantità e qualità). La traduzione delle forme poetiche ha operato storicamente in quattro direzioni: 1) la forma mimetica (conservazione della forma versificatoria dell’originale: esametri tedeschi o francesi o inglesi); 2) la forma analogica (conservazione della funzione della forma versificatoria dell’originale: il blank-verse inglese che riproduce, nella sua “naturalità”, il metro giambico antico nelle sue diverse articolazioni (Arist. Poet. 1449a23-28); lo stesso ruolo di verso “spontaneo” viene assegnato all’endecasillabo italiano che pure è di uso molteplice: lirico, epico, drammatico; 3) la forma derivata dal contenuto, detta “organica” (è la semantica del testo a determinare la forma: questo è il modello di molte traduzioni cosiddette ritmiche o in prosa ritmica); 4) la forma estranea o deviante (la forma della poesia nasce dalla reinvenzione del traduttore, che la giustifica all’interno del suo sistema di riferimenti). La metrica barbara, nelle diverse articolazioni a cui ha dato adito, opera in direzione mimetica, anche se può riprodurre i metri classici solo dal punto di vista dell’ictus e non della quantità sillabica, definitivamente venuta meno nelle lingue romanze moderne: questo è uno dei suoi limiti, così come da più parti viene rimproverato a questi esperimenti il loro automatismo, la combinatoria di sequenze ritmiche in vitro, il loro artificio meccanico.
A me pare si possa affermare che proprio l’esecuzione teatrale possieda la virtù, tra le altre, di produrre, insieme ad altri fattori concomitanti, una durata sillabica con valore significativo, con funzione emotiva e conoscitiva, con possibilità di definire una scansione della catena fonica secondo una ritmica sensata e comunicativa: l’esempio del teatro in musica, con la sua straordinaria codificazione intonativa, è alla portata, ma lo evoco solamente. Se, nell’alternativa fra traduzione straniante (foreignizing) e traduzione naturalizzante (domesticating) di un testo teatrale, può verificarsi solo una prevalenza e mai l’esclusività, la traduzione del teatro che si apra alle istanze semiotiche della messa in scena, in versi e in prosa, lascia o programma di lasciare, quanto più possibile e senza forzature, dei margini aperti (tra questi, la possibilità di una sperimentazione sulla durata sillabica, sulle figure di suono, sui silenzi e sulle pause del testo di partenza). Questi margini di integrazione semiotica si materializzano solo se la traduzione non cerca di naturalizzare indiscriminatamente tutto, non rende tutto scorrevole, trasparente, didascalico, se consente cioè al regista, all’attore, allo spettatore, al destinatario nelle sue multiple articolazioni, di apportare il proprio contributo determinante (che può essere anche un contributo di smarrimento temporaneo), di inaugurare a ogni battuta, a ogni scena, a ogni nodo drammatico quel sano conflitto, molla dell’azione drammatica, tra autore e regista, tra attore e autore, tra spettatore e regista o tra attore e spettatore da una parte e regista dall’altra o viceversa etc., consentendo a ciascuno di farsi il proprio film. Così da contraddire o da mutare di segno all’immagine di un traduttore senza palcoscenico, proposta da Wechsler:
The translator’s problem is that he is a performer without a stage, an artist whose performance looks just like the original, just like a play or a song or a composition, nothing but ink on a page (Wechsler 1998, 7).
Vale a dire:
Il problema del traduttore è quello di essere un performer senza palcoscenico, un artista la cui performance pare proprio quella dell’originale, un dramma, una canzone o una composizione che resta sulla pagina (Wechsler 1998, 7)
Il traduttore teatrale ha un palcoscenico se asseconda la dialettica semiotica, agendo nell’ottica di quello che ho chiamato il come se. Non solo e non tanto se fornisce la spiegazione, se si fa Esichio, cioè glossario ad usum theatri (ruolo comunque necessario), ma se formula la giusta domanda che è l’inizio della risposta, se propone la sfida della complessità, cioè se produce una traduzione con un tasso prevalente di interrogazione, anche quando, o proprio quando, ricontestualizza e decentra. Al contrario la modalità traduttiva di tipo filologico, oggi egemone, ha spesso il carattere polemico e reattivo di molte ri-traduzioni e si configura come un sistematico esercizio di rinuncia, di neutralità (in concreto: una mistificazione!). Il senso storico vieta, per certi versi, alla filologia qualsiasi finalità estetica e fa della traduzione una specie di «discorso diretto mascherato da discorso indiretto», cioè mera registrazione di una parafrasi implicitamente metalinguistica. «La filologia […] sembrerebbe essere, oggi, l’unica via e insieme l’unico impedimento alla traduzione» (Condello 2009, 55-56 e 65). Se è vero che la traduzione di un testo teatrale non può non chiarire, può e deve suggerire però percorsi interpretativi che non siano l’illustrazione di una chiosa (cioè il riflesso scenico di una glossa) ovvero la valorizzazione di un’ipotesi in chiave dialettica, magari arrivando a stampare due o più alternative che solo la messa in scena può discriminare. Questa affermazione corrisponde, ovviamente, a un’idea precisa di teatro non relegato a pura funzione di testimonianza, corrisponde a una visione vitale dei classici teatrali e della comunicazione estetica con valenza sociale, all’ipotesi che sia ancora, a certe condizioni, possibile il tragico come concetto e come genere nella cultura contemporanea digitale e telematica e dunque il teatro (da vedere sul tragico almeno Szondi 1961 e Steiner 1991): è un’idea distante dagli eccessi contrapposti dell’universalizzazione classicista e dell’attualizzazione anti-classicista. Corrisponde a una scelta di langue oltre che di parole: al privilegio accordato a certi codici linguistici e scenici rispetto ad altri, a certe idiosincrasie che anche il filologo ha ma dissimula, a una considerazione dell’atto teatrale in praesentia come una delle ultime forme di rito comunitario tridimensionale che altri direbbe teatro di poesia.
Bibliografia selezionata
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Bolt 2010: Ranjit Bolt, The Art of Translation, Oberon, London
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Condello 2009: Federico Condello, Tradurre la lirica, in Neri e Tosi 2009, 31-65
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