La recensione / 4 – La traduzione vale quanto l’originale

di Giulia Baselica

La babele in cui viviamoSilvana Borutti e Ute Heidmann, La Babele in cui viviamo. Traduzioni, riscritture, culture, Bollati Boringhieri, Torino, 2012, pp. 264, € 25

Il merito essenziale di questo saggio, corredato di un vasto apparato bibliografico – opera  densa e ricchissima di approfondimenti e di aperture verso gli sconfinati orizzonti del pensiero filosofico e antropologico – è quello di rivelare un aspetto peculiare dell’importanza della traduzione. Frutto prezioso, acre o zuccherino, della «colpa di Babele», la traduzione segna il passaggio dall’uno al molteplice e, con l’acquisizione, intesa come presa di coscienza, del limite e del confine, rende possibile la percezione del distacco da una dimensione in cui tutto è identico e indifferenziato. Se la traduzione è l’accoglimento della pluralità e della differenza, Babele, allora, non è più una colpa, bensì la legittimazione a un cambiamento: «il passaggio tra le lingue plurali è la presa d’atto della necessaria differenziazione e insieme apertura al trattamento possibile delle differenze».

L’opera di Silvana Borutti e Ute Heidmann mette dunque in luce una delle vocazioni più interessanti dell’atto traduttivo: la scoperta, e quindi la valorizzazione, della differenza e della distanza. Vero e proprio filo conduttore che si snoda lungo i nove capitoli che compongono il saggio, la distanza rivela, antropologicamente, l’identità dell’altro, e ponendo in evidenza l’estraneità essa diviene condizione essenziale per la conoscenza e la comprensione dell’altro; ma è anche rivelazione filosofica, essendo nel pensiero di Gadamer un elemento fondamentale nel processo di comprensione dell’altrui. Fra le culture, che si riflettono nelle lingue e si esprimono nei testi, vi sono dunque distanze e differenze che danno ragione della missione epistemologica assegnata all’atto della traduzione: tradurre è conoscere, comprendere, crescere. Per cogliere l’essenza di tale missione è necessario, suggeriscono le Autrici, avvicinarsi ai testi adottando una metodologia nuova: la comparazione differenziale, che rende possibile il dialogo tra le differenze. E fondamentale, nonché duplice presupposto di tale nuovo percorso di conoscenza dei testi è, da un lato, il considerare il testo come risultato concreto di un’interazione socio-discorsiva, rilevando, appunto, la funzione discorsiva e comunicativa della lingua e, di conseguenza, identificando nella letteratura una forma di comunicazione; dall’altro il rinunciare al principio di gerarchia, in base al quale è consuetudine collocare il testo originale e il testo tradotto su piani distinti e fra loro collegati da un rapporto di subordinazione. Invece «conviene costruire un asse di comparazione che metta i fenomeni letterari o i testi da comparare sullo stesso piano, cioè in rapporto non gerarchico». Tra le opere composte in una determinata lingua e le relative versioni in altre lingue, si stabilisce così una feconda relazione strutturata sulle rispettive dinamiche discorsive, che si esprimono attraverso la scelta del lessico, la costruzione delle frasi e del ritmo. In tale complessa prospettiva di analisi, ogni componente (morfologico, sintattico, lessicale, stilistico, testuale e intertestuale) generatore di senso rappresenta un significativo motivo di indagine.

Importanti nel tradurre, e quindi nell’analisi che pone a confronto l’opera originale e la sua versione tradotta – sottolineano le studiose – sono le dimensioni del genere e dell’intertestualità. La traduzione di un’opera implica la riconfigurazione della «genericità», cioè di quel processo che coinvolge sia la produzione sia la ricezione del testo – e designa la «genericità autoriale», la «genericità lettoriale» e la «genericità editoriale»– in quanto il «genere» così inteso costituisce una pratica culturale che si distingue da una lingua all’altra e da un contesto culturale ed epocale all’altro. L’intertestualità, nell’accezione di “interdiscorsività” permette di riconoscere e di valorizzare il composito dialogo che unisce il testo considerato alla tradizione letteraria o alla produzione coeva, contemplando il ricorso a specifici intertesti. Le Autrici propongono il confronto tra i racconti di Perrault, il quale richiama intertesti latini, italiani e francesi, noti nella pratica discorsiva della società della corte francese alla fine del XVII secolo, e le loro versioni in altre lingue, osservando che i traduttori «devono a loro volta inscrivere i loro enunciati nella configurazione degli intertesti e dell’interdiscorso in circolazione e “in vigore” nella propria comunità discorsiva. Le loro culture sono ugualmente fatte di discorsi, di luoghi comuni e di parole straordinarie, ai quali il traduttore rinvia, intenzionalmente o no. Poiché anche lui deve integrarsi, come l’autore, nel coro complesso delle voci già presenti».

Il metodo comparativo differenziale si contrappone alle teorie semanticiste, fondate su una prospettiva idealista che implica la separatezza fra contenuto e forma; tra significato e significante. La questione del significato si pone al centro di un interessante confronto tra le posizioni del filosofo statunitense Willard Quine e il pensiero del linguista russo Roman Jakobson. Il primo sostiene l’inesistenza del significato come entità isolata, attribuendo all’atto della traduzione la connotazione di indeterminatezza, in quanto per ogni enunciazione sono possibili più versioni e il processo traduttivo si esplica nel passaggio non da lingua a lingua, bensì da enunciato a enunciato o, ancora, da testo a testo; Roman Jakobson vede invece nella traduzione la realizzazione di un’equivalenza sinonimica mediante un’interpretazione, un’«equivalenza nella differenza». Le due opposte visioni del significato rappresentano, nelle interessantissime pagine di La Babele in cui viviamo, gli attori di una fruttuosa interazione dialogica, alla quale prendono parte altre voci, come, oltre al già citato Gadamer, Benjamin, Schleiermacher, Humboldt, naturalmente Derrida. E dietro le quinte parrebbe di poter riconoscere l’ombra di Michail Bachtin, il filosofo del dialogo, sostenitore del principio dell’extralocalità, condizione necessaria per un adeguato avvicinamento al testo da tradurre, poiché solo la percezione della distanza consente un autentico avvicinamento.