L’altro Monicelli

GENIO E SREGOLATEZZA DI UN GRANDE TRADUTTORE

di Gianfranco Petrillo
(con la collaborazione di Franco Chiavegatti e Maria Chiara Romani)

Un formidabile clan

altro_monicelli-BPochi sanno che Mario Monicelli, uno dei più grandi registi dell’età splendida del cinema italiano, era nipote di Arnoldo Mondadori, a sua volta il più grande imprenditore della carta stampata che l’Italia abbia mai avuto. Mondadori infatti aveva sposato Andreina Monicelli, sorella del padre di Mario, Tomaso. E intorno ad Andreina, che ne costituì per decenni il pilastro, si formò un clan formidabile.

Tomaso Monicelli e Arnoldo Mondadori erano amici di gioventù a Ostiglia, grande borgo agricolo sulle rive del Po in provincia di Mantova, agli inizi del Novecento. Il giovane e ardente Tomaso divenne noto come drammaturgo e giornalista dell’«Avanti!», il quotidiano del partito socialista italiano, che abbandonò nel 1908 per aderire nel 1911 al nazionalismo. Proprio quell’anno Arnoldo creò, con l’aiuto di Tomaso, la casa editrice «La Sociale», che di Monicelli pubblicò la raccolta di novelle a sfondo paesano Aia Madama e la favola Nullino e Stellina, con illustrazioni di Antonio Rubino. In ottobre sposò una sorella dell’amico, Andreina (Chiavegatti 2010, 35-6). Tomaso aveva un’altra sorella, Gemma, che sposò Guido Cantini, a sua volta commediografo di discreto successo e direttore di riviste mondadoriane, e ne ebbe due figli, Roberto e Gianfranco, il primo dei quali fu in seguito dirigente della casa editrice.

Nel 1915 Tomaso sposò un’altra ostigliese, Maria Carrieri, dalla quale aveva avuto già nel 1912 un figlio, Franco, ai quali sarebbero seguiti Mario appunto (1915), Massimo detto Mino (1919), Furio (1922) e Giovanna (1925). Franco fu giornalista, scrittore e sceneggiatore cinematografico e televisivo; Mino, noto giornalista politico, fu – fra l’altro – collaboratore fisso negli anni cinquanta del mitico settimanale «Il Mondo» di Mario Pannunzio; Furio, vita tormentata, fu autore di un romanzo autobiografico (Il gesuita perfetto, 1952) e insegnò italiano all’Accademia di Brera a Milano. Dell’attività di Giovanna, come troppe volte e troppo a lungo è capitato alla maggioranza delle donne fino alla sua generazione e oltre, non sappiamo nulla.

Tomaso fu corrispondente dal fronte durante la prima guerra mondiale, direttore di quotidiani filofascisti, molto vicino a d’Annunzio e, assurto Mussolini al potere, nel 1923 fu nominato direttore e amministratore delegato del quotidiano bolognese «Il Resto del Carlino», di cui l’anno successivo rilevò la proprietà. Ma, essendosi schierato apertamente contro Mussolini in seguito al delitto Matteotti, nel gennaio del 1925 dovette abbandonare l’impresa e affidarsi prima alla protezione di d’Annunzio e poi a quella del gerarca Giuseppe Bottai per continuare a lavorare nel mondo teatrale e giornalistico. Poté però sempre, grazie alla sorella, contare sull’aiuto dell’avveduto cognato, per barcamenarsi fra mille difficoltà, aggravate da un tenore di vita decisamente superiore ai suoi mezzi, che lo portò a sperperare in breve tempo il sostanzioso ricavato della vendita forzata del quotidiano (Chiavegatti 2010, 60-1). Nel 1928, da una relazione extraconiugale con una giovane attrice, Giulietta de Riso, ebbe anche un’altra figlia, Silvana, che visse con la madre e ne mantenne il cognome, ma fu sempre strettamente legata, con i suoi, al clan. A loro volta Arnoldo e Andreina ebbero quattro figli: Alberto (1914 e quindi pressoché coetaneo di Mario Monicelli, al quale fu sempre legato da un amicizia strettissima), Giorgio (1917), Laura detta Mimma (1924) e Cristina (1934) (Decleva 1993; Chiavegatti 2010; Ferretti 1996; Mondadori 1996; Mondadori 2004).

La documentazione esistente e le testimonianze dicono dell’intensità e della forza dei legami affettivi tra pressoché tutti questi personaggi, anche fra contrasti burrascosi.

Dalla gavetta

altro_monicelli-CMa, prima di questa già numerosa prole avuta dalla moglie, Tomaso Monicelli aveva avuto un primo figlio da un’altra donna. Giorgio Monicelli non è uno sconosciuto, ma la fama di cui gode oggi, al contrario di quella di Mario, è di nicchia: è addirittura idolatrato dagli appassionati italiani di fantascienza, in quanto creatore del termine stesso e fondatore e primo direttore della prima e più famosa collana del genere, la mondadoriana «Urania». Luigi Cozzi, uno dei massimi esperti in materia, gli ha dedicato addirittura non uno ma due volumi, i primi della sua Storia di Urania e della fantascienza in Italia (Cozzi 2006 e Cozzi 2007), in cui ha riversato le ricerche da lui compiute sul personaggio, soprattutto tramite interviste ai suoi familiari e collaboratori, svolte nel 1981, alle quali attingeremo abbondantemente.

Giorgio Monicelli è stato però soprattutto un traduttore, per certi versi una personificazione del mestiere del traduttore nel Novecento di tipo opposto e speculare a quell’Ervino Pocar al quale «tradurre» ha dedicato tanta attenzione nel suo numero 4: fantasioso, filologicamente poco attendibile, senza regole e senza limiti, attento più alla leggibilità e a catturare il lettore che a restituire i mondi stilistici, intellettuali e sentimentali dei testi e degli autori tradotti. Genio e sregolatezza, ribelle a dipendenze e impegni e orari e scadenze, autodistrutto dal superlavoro e dall’alcol, evidente è la sua somiglianza con quell’altro e ben più celebre interprete della professione, l’“anarchico” Luciano Bianciardi.

Giorgio Ernesto Ettore Monicelli nacque il 21 maggio 1910 a Tradate da Elisa Severi, attrice allora molto nota, che l’anno prima aveva messo in scena a Milano con la compagnia sua e di Oreste Calabresi un dramma di Tomaso Monicelli. Questi riconobbe il bambino, ma Elisa si rifiutò di sposarlo (Codelli 1997), probabilmente nel timore di dover rinunciare alla carriera per la vita coniugale, come le convenzioni dell’epoca avrebbero finito con l’imporle. D’altronde l’attrice aveva già avuto un altro figlio, Aldo, che portava il cognome del padre, l’attore Serafino Renzi (Fede Monicelli). Nel 1913 la Severi iniziò anche una discreta carriera cinematografica, che la portò a risiedere pressoché stabilmente a Roma. Ma intanto il piccolo Giorgio fu affidato in un primo tempo alla zia Andreina a Ostiglia e messo a balia (Chiavegatti 2010, 67 n. 52). L’affetto che nacque allora tra zia e nipote rimase costante per tutta la vita. Perfino Severi poteva confidare – avrebbe scritto Giorgio sedicenne alla zia – «nella solita bontà e generosità» di Andreina per dare un aiuto, che puntuale arrivò, a una sua meno fortunata «antica compagna d’arte» (lettera da Roma del 18 novembre 1926 in Aame, fasc. Monicelli Giorgio).

Probabilmente, quando Tomaso trasferì a sua volta a Roma la famiglia nell’aprile 1915, Giorgio, poco gradito alla matrigna benché già molto legato al fratello minore Mario, andò a vivere con la madre, ma – crescendo «tra più famiglie e più punti di riferimento» – passò sempre le estati con la zia Andreina, prima a Ostiglia o a Verona poi a Meina, sul Lago Maggiore, con i fratelli e i cugini, o con la nonna paterna Caterina Simonelli e l’altra zia, Gemma Monicelli, che lo adoravano (intervista a Mino Monicelli, 1981, in Cozzi 2006, 154). In vecchiaia Mario ricordava ancora i giochi infantili con Giorgio e con il cugino Alberto (Codelli 1997).

A Roma Giorgio compì studi abbastanza regolari fino al liceo, che frequentò probabilmente – secondo le memorie familiari – presso il Collegio Massimo di Roma, istituto dei gesuiti. Nella lettera alla zia Andreina citata sopra, si vantava di eccellere, a detta di un suo professore, in italiano, filosofia e storia dell’arte.

Aveva già una forte passione per la lettura. In una cartolina scrittagli da Parigi, senza data ma presumibilmente del 1925 (Archivio Fede Monicelli), la zia Gemma si rammaricava di non aver potuto trovare lì i libri di Dickens che lui l’aveva pregata di comperargli. Non bisogna meravigliarsi: «A quei tempi la lingua letteraria era ancora il francese, sia pure agli ultimi bagliori», avrebbe ricordato il fratello Mario (Codelli 1997); era quella la lingua che Giorgio aveva imparato a scuola e in quella lingua, come tanti altri in Italia, leggeva i libri stranieri di cui non si trovassero traduzioni in italiano. Traduzioni dei romanzi di Dickens certo ne esistevano, ma probabilmente il ragazzo voleva già mettere alla prova il suo francese e al contempo leggere quelle storie di trovatelli e orfanelli in cui in parte voleva riconoscersi: «Quando, a volte, me ne vado solo solo per qualche viuzza mi viene a mente quel meraviglioso libro che è Davide Copperfield, che si fece la sua strada in solitudine e coi propri sogni», avrebbe scritto alla madre da Verona (s.d., ma 2 ottobre 1928, in Archivio Fede Monicelli).

Aveva diciassette anni quando indirizzò a se stesso, il 17 marzo 1927, un breve scritto intitolato Sincerità:

Ti credi un’anima grande? O una futura anima grande? Ma no, per carità, animo mio, ricrediti […]. Tu sarai uno di quegli esseri che girano, la sera, sconosciuti, a trentacinque anni, per le vie della città portando […] un ideale nel cuore, non ben identificato e irraggiungibile, di quegli esseri che seccano molto qualche fine signora parlandole a lungo dei propri stati d’animo, che scrivono ogni quindici giorni un articolo […], un uomo che i colleghi di redazione chiamano fesso, le donne seccatore, i parenti lontani un ingegno non riuscito; sei di quegli esseri sempre tormentati dalla nostalgia di cose sconosciute o dimenticate e da una infinita pigrizia morale, che passano molte ore del giorno al caffè fumando molte sigarette […] che a cinquant’anni ànno ingorghi al fegato e a sessanta se ne vanno amareggiati di tutto e di tutti. Amico, è così. Nel segreto di un’ora notturna t’ho svelato ciò che la nostra presunzione non svelerebbe mai. Non dimenticarlo (Archivio Fede Monicelli).

Nulla più, apparentemente, che un tipico sfogo introspettivo adolescenziale all’insegna dello spleen, che tuttavia trova conferma non solo in tutta la sua corrispondenza con la madre e in successivi scritti privati dell’età adulta, ma purtroppo nella realtà stessa. E proprio allora si preparava una svolta decisiva della sua esistenza. Dalle lettere sollecite e affettuose inviategli dalle sue familiari – zie e nonna – e conservate da Fede Monicelli risulta che nel 1927 la madre di Giorgio cadde ammalata di cancro. Alla fine dell’anno fu sottoposta a un’«orrenda operazione», con esito malcerto. Il ragazzo, che già stentava nelle materie scientifiche, affrontò male il suo ultimo anno di liceo. Non si presentò all’esame di maturità e decise di non proseguire gli studi, proponendosi di lavorare per aiutare la madre. Pensò di andare in terra di colonia, in Libia. Invece di richiami al dovere da parte dei suoi, intervenne, sollecita, la zia Andreina, che gli propose di andare a lavorare alla Mondadori, in tipografia. Arnoldo era già diventato un grande editore, aveva creato a Verona una grande e moderna tipografia e aveva spostato la sede della casa editrice e la propria residenza a Milano (Decleva 1993, 55-64).

Il 1° ottobre del 1928 Giorgio si trasferì quindi a Verona, dove andò a lavorare come apprendista compositore, tra operai in gran parte ostigliesi che avevano conosciuto suo padre, alle dirette dipendenze del grande tipografo tedesco Hans Mardersteig, a casa del quale fu anche ospitato in attesa di trovare una pensione dove alloggiare anche con la madre, come le scrisse il 4 ottobre. Mardersteig, notissimo per l’alta qualità del suo lavoro e per i caratteri bodoniani originali da lui posseduti e utilizzati, era stato appena assunto da Mondadori per volontà di Francesco Pastonchi, che desiderava imprimere un livello di eccellenza alla stampa dei volumi della Raccolta nuova dei classici italiani da lui diretta per la casa editrice (Decleva 1993, 83). Giorgio imparava rapidamente e si fece apprezzare, ma scalpitava: «Mi sento una gran voglia di lavorare, di emergere, di andare in alto, sempre più in alto, con te, con te sola al fianco», scriveva ancora alla adorata madre in lunghe lettere appassionate. La stampa non lo soddisfaceva. Voleva cimentarsi con il lavoro editoriale. Fu accontentato: pochi mesi dopo ottenne di entrare nella redazione dei libri scolastici della Mondadori, a Milano.

Lo zio ne era contento, come attestano le risposte del padre Tomaso Monicelli al cognato e amico Arnoldo del 5 marzo («Mi fa piacere quanto mi dici di Giorgio, e spero molto: egli è, del resto, di carattere mite e buono ») e del 31 agosto 1929 («Sono contentissimo che Giorgio si faccia veramente onore per la sua volontà, intelligenza e attività»; entrambe in Aame, fasc. Monicelli Tomaso 1924-1956, II).

Lutti e turbamenti

altro_monicelli-DMa la vita d’ufficio non era per lui: spesso in ritardo, quasi sempre distratto, turbato da altri pensieri. «Mio fratello era considerato un artista, un rompiballe», diceva tanti anni dopo Mario Monicelli (Codelli 1997). Era alle dipendenze di Vincenzo Errante, allora responsabile della produzione scolastica, dopo essere stato condirettore della casa editrice: una figura notevole, anche se discussa (e discutibile), di traduttore ed erudito, nonché ricca di idee editoriali. Errante dovette richiamarlo paternamente per le sue frequenti assenze, soprattutto mattutine, sottolineando «la delicatezza estrema della Sua posizione in un ufficio della Casa Mondadori» (lettera dell’11 novembre del 1930 in Archivio Fede Monicelli). Il 23 febbraio di quell’anno la zia Andreina aveva dovuto mandargli un telegramma a Roma, all’indirizzo della madre: «Tua prolungata assenza inesplicabile attendiamo tue precise notizie» (Aame, fasc. Monicelli Giorgio). Tra le due date era intervenuta la morte della madre, avvenuta a Roma il 26 giugno (Simoni 1930), che certamente contribuì non poco all’instabilità emotiva del giovane.

Errante finì per disfarsene, ma esprimendogli in una lettera dell’8 agosto 1931 comprensione paterna dei suoi turbamenti e riconoscimento delle sue qualità d’ingegno e di cuore (Archivio Fede Monicelli). Ma i turbamenti più gravi di Monicelli avevano un nome e cognome: Alba Tarantini, una maestrina pugliese di tre anni più grande di lui, immigrata con la famiglia a Bollate e impiegata alla Mondadori. L’anno dopo si sposarono e quattro mesi dopo nacque la figlia Elisa. Ma il parto ebbe strascichi maligni, terminati solo nel 1934 con la morte della giovane Alba per setticemia. Anche la piccola Elisa, per tutti Lele, passò allora sotto le ali protettrici di zia Andreina, entrando a far parte in pianta stabile della famiglia allargata Mondadori.

Traduttore

altro_monicelli-ELasciato l’impiego fisso, Giorgio si era dedicato alle traduzioni. La prima fu Un mistero in provincia (1932), da Madame Clapain, una recente novità di Édouard Estaunié, seguita da Forte come la morte, da Guy de Maupassant, che Mondadori pubblicò nel 1933. A ventitré anni Giorgio Monicelli dava già prova di una delle sue principali qualità: la velocità. Lo stesso anno era la volta di Bohème 900, traduzione del recente Le château des brouillards, di Roland Dorgelès, di cui lui stesso aveva consigliato la pubblicazione. Ma questo libro incontrò l’ostilità della censura fascista e, nonostante il ricorso in alto loco del ben visto editore, sequestrato e per il momento escluso dalla distribuzione (Albonetti 1994, 202). Nei mesi seguenti Monicelli avrebbe tradotto anche due lunghi racconti gialli di Georges Simenon (L’inglese e Il delitto della signora Pontreau), usciti con altri nel 1934 in un volume della collana «Il super-romanzo» dei Periodici Alfa di Armando Curcio: il primo lavoro svolto al di fuori del clan. Si lamentava infatti con la zia Andreina che alla Mondadori «le traduzioni se le stanno monopolizzando tutti i componenti l’ufficio stampa e i loro amici, che succhiano dalla Casa magnifici compensi di due o tremila lire per lavoretti da due soldi, fatti il più delle volte malissimo. È cosa da ammalarsi di fegato!» (Archivio Elisa Monicelli).

Pochi giorni dopo la morte della moglie, nel febbraio del 1934, Giorgio indirizzò allo zio Arnoldo, su carta intestata della casa editrice, un biglietto da cui trapelavano le difficoltà finanziarie in cui si trovava. Il 14 maggio, su carta listata a lutto, si rivolse ancora allo zio. È il caso di riportarne il testo (conservato in Aame, fasc. Monicelli Giorgio) abbastanza estesamente:

Caro zio, ancora una volta mi rivolgo a te (dato che con mio padre non si può mai parlare un po’ seriamente) per un consiglio e per chiederti la possibilità d’un guadagno maggiore che mi permetta una vita decorosa e più serena di quel che sia stata fino a oggi. Ti prego d’ascoltarmi, dato che non ho più nessuno con cui aprirmi, ormai. Dopo quanto di doloroso m’è avvenuto mi sento costretto a cambiar casa e a lavorare molto. Non sto a dirti la mia angoscia per questo nuovo cambiamento nella mia vita, angoscia che devo assolutamente saper superare per poter continuare a vivere, soprattutto perché ho una bambina. […] Io non chiedo che di lavorare. Non ho a chi rivolgermi, se non a te; procurami tu il modo, ti prego, di guadagnare qualche cosa di più assicurandomi un certo numero di traduzioni all’anno o qualche altro lavoro sicuro. Mi sono rivolto a Rusca [il direttore editoriale], ma tu lo conosci, certe cose non le capisce, tratta male e non dà neppure affidamento d’un lavoro sicuro.
Son 6 anni ormai che lavoro alla Mondadori; perché, zio, non ho mai potuto avere una traduzione per la «Medusa»? Oltre a essere maggiormente pagata sarebbe una traduzione che mi darebbe una certa soddisfazione. Perché, poi, devo essere l’unico che, se fa una traduzione, si vede offrire come massimo, dopo molte preghiere, 600 lire sole? Avrò un brutto temperamento (più esteriore forse che  interno), ma non sono l’ultimo venuto né come intelligenza né come capacità (o sbaglio?). Io vorrei tanto che tu mi mettessi alla prova dandomi qualche responsabilità e la grande soddisfazione di essere chiamato da te qualche volta. […] Non voglio assolutamente adagiarmi nell’idea ch’ella [la figlia Elisa] resti sempre a carico vostro. Sento il dovere e il desiderio di mantenerla col mio lavoro. [Vorrebbe guadagnare 400 lire al mese di più. ] Io m’impegnerei di fare una traduzione perfetta ogni mese. […] Ecco esposta, zio, la mia situazione. Dio sa se, ultimo di una non molto simpatica serie di parenti bisognosi e assillanti, avrei voluto darti questa noia, ma tu comprendi il mio desiderio di mettermi tranquillo una volta per sempre, dato che ormai ho rinunciato a sperare in una felicità duratura per sempre. […] Scusami, e credimi con molto più affetto di quel ch’io sappia rivelare, tuo Giorgio.

Mondadori accontentò il nipote, che rientrò in redazione, assunto dalla Disney Mondadori, una società nata per sfruttare il già affermato marchio americano sul mercato italiano (Decleva 1993, 236). Lo stipendio era «da favola», ha testimoniato Italia Buzzi, allora segretaria di Arnoldo: 1.676 lire al mese, ancora prima che una canzone di largo successo esprimesse il sogno della maggioranza degli italiani di guadagnare Mille lire al mese. Era «un lavoro elettrizzante e del tutto nuovo», in cui per la prima volta metteva alla prova il suo inglese (in Cozzi 2006, 165). Nell’intervista rilasciata a Codelli (1997) il fratello Mario osservò che Giorgio leggeva sì l’inglese, ma «come se fosse sanscrito», perché non lo parlava affatto: il francese l’aveva imparato a scuola, dell’inglese si appropriò lavorando. In realtà, non parlava nemmeno il francese, ha testimoniato la Buzzi (in Cozzi 2006, 187): quello che sapeva perfettamente era l’italiano.

Non si può proprio dire che i coniugi Mondadori non si prendessero cura del nipote. Di fatto la piccola Elisa veniva allevata dalla prozia Andreina, mentre Arnoldo affidava a Giorgio nel gennaio del 1936 la successione a Gino Marchiori nella direzione del settimanale illustrato «di narrazioni poliziesche e sensazionali» «Il Cerchio verde» (Decleva 1993, 238), sul primo numero del quale, del maggio 1935, era già comparsa la sua traduzione del racconto di Arthur Hoerl Convegno fatale. «”Il Cerchio verde” – ha osservato Giulia Iannuzzi (2013, 27) – costituisce a buon diritto un precedente di “Urania”». Tra il composito materiale pubblicato – fumetti, sceneggiati da film, romanzi gialli a puntate, racconti (tra i quali anche alcuni suoi), cronache e rubriche varie – rivelatrice delle sue curiosità è la pubblicazione nel n. 22 del 10 ottobre 1935 di Il padrone di Moxon (Moxon’s Master, 1899) di Ambrose Bierce, e, nel numero 78 del 5 novembre 1936, del racconto Mistero 127 di Edgar Wallace, uno dei primi testi di fantascienza, come rivelava il titolo originale Planetoid 127 (uscito nel 1924).

«Era un appassionato di astrofisica, leggeva trattati divulgativi e ricordo – ha detto Mario Monicelli in quell’intervista – che nei primi anni Trenta voleva spiegarmi la relatività di Einstein, una cosa che non capiva neanche lui!»

Ma Giorgio scalpitava, era scontento e depresso. La figlia Elisa ha conservato un significativo foglio di diario isolato. Il 3 agosto [1936], sul dritto del foglio, aveva espresso la volontà di smettere una «sciagurata, vile, sporca vita […] (E quanto, troppo vino! Ma ora basta!)». Nel retro, datato 9 agosto, il giovane rifletteva in generale sulla propria vita, esprimendo il proprio amore per «Talì», in cui possiamo riconoscere Italia Buzzi, e affermando:

forse lascerò il Cerchio Verde, non ho più rapporti coi Mondadori e con mio padre, non so quando vedrò, quando potrò prendere con me l’Elisa, sono in bolletta (ancora e sempre), vagheggio pace, serenità, astinenza per scrivere un libro che mi riporti all’onore di quel mondo che disprezzo perché non ho ancora potuto conquistare, vagheggio un matrimonio (che non farò mai) con Talì, non ho più amici, sono triste, orgoglioso della mia tristezza, ebbro della mia solitudine, non credo né in Dio né nel diavolo, m’accorgo che tutti sono ipocriti, falsi, utilitari [sic], servili, volgari, e non vedo ancora la mia strada.
Mi piace troppo il vino [le sottolineature sono nell’originale].

Di nuovo alla Mondadori

altro_monicelli-FNacque allora l’Anonima Periodici Italiani, con cui Mondadori «sperava di spezzare l’egemonia dei concorrenti Rizzoli nel settore dei periodici» (Buzzi in Cozzi 2006, 172; cfr. Decleva 1993, 238-240) e in cui confluirono la serie di testate di ispirazione disneyana già esistenti dal 1935-36 e altre, fatte nascere proprio allora, tra le quali il settimanale femminile «Grazia», nel 1938, e quello d’attualità «Tempo», nel 1939, fortemente innovativo, ideato e diretto dal figlio dell’editore, Alberto, che era anche direttore generale dell’Anonima. A «Tempo» Alberto fece collaborare alcuni dei giovani intellettuali milanesi suoi coetanei e amici che in quegli anni, in seguito alla guerra civile spagnola, cominciavano a uscire dai vagheggiamenti per il fascismo “di sinistra” e si ritrovarono poi nel dopoguerra a contribuire al rinnovamento della cultura italiana: Mario Monicelli, Alberto Lattuada, Remo Cantoni, Vittorio Sereni, Luciano Anceschi, Mario Zagari, Enzo Paci, Luigi Rognoni e altri (Decleva 1993, 238-240). Elio Vittorini faceva già parte dei consulenti della casa editrice.

Benché certamente respirasse quella stessa aria, Giorgio non era però della partita, se non per qualche collaborazione che raccolse per altro i complimenti dello stesso Arnoldo. Le sue frequentazioni erano diverse, con minori ambizioni intellettuali ma con significativa aderenza alle inquietudini che agitavano la maggioranza degli italiani in quegli anni.

Giorgio passava le sue nottate con un tipo ancora poco considerato nell’ambiente, Giorgio Scerbanenco, giornalista e autore di racconti gialli ambientati a Milano in un’epoca in cui si doveva ambientare tutto in Inghilterra o chissà dove. Frustrati, gran bevitori di vino tutti e due, la sera erano sempre ubriachi, in quegli anni anteguerra (Mario Monicelli a Codelli 1997).

Giorgio Scerbanenco, un suo quasi coetaneo, orfano e autodidatta, dopo un’adolescenza di difficoltà e stenti era giunto fortunosamente a entrare nella redazione della Rizzoli e a pubblicare i suoi primi romanzi: romanzi “rosa” e romanzi “gialli” (Scerbanenco 1990). I primi lo resero molto popolare fra le lettrici dei periodici femminili nell’immediato dopoguerra, i secondi gli diedero una solida fama postuma negli anni settanta fra gli appassionati del genere. Molte cose accomunavano i due amici, entrambi poco inclini alle regole di una vita “normale”, oltre che reduci da un’infanzia e un’adolescenza difficili.

Nonostante le sue crisi depressive, Giorgio Monicelli era un bel giovane, elegante, colto e affascinante parlatore, sospinto da mille curiosità, fantasioso e versatile, e già in possesso di una notevole esperienza redazionale. Il 30 agosto 1937 sposò proprio Italia Buzzi, con la quale andò a vivere in corso Sempione 76, riprendendo con sé la figlia Elisa. Ma l’insofferenza per la vita d’ufficio e gli orari regolari ebbe ancora una volta il sopravvento, facendolo incorrere in contrasti con lo zio, a smorzare i quali provvedeva Andreina. Probabilmente a quei contrasti fu dovuta, proprio allora, la chiusura del «Cerchio verde», la rivista diretta da Monicelli. Lasciò quindi di nuovo il posto fisso alla Mondadori, contando sull’ordine e la saldezza che al ménage familiare avrebbe provveduto a dare l’efficiente ed energica Itala (così infatti era comunemente chiamata), che però, secondo i principi maschilisti vigenti dai quali non era immune neanche lui, non doveva lavorare. Ricordava Itala Buzzi nel 1981:

Non sopportava l’idea di avere un posto fisso, così come non sopportava l’idea di dover essere alle dipendenze dei Mondadori. […] li detestava. Ma ha sempre lavorato per loro perché, in fondo, Giorgio era un debole. [Se andava da un altro editore,] finiva per litigarci, e così non gli restava che tornare alla Mondadori, dove, per via della parentela, erano più benigni e tolleranti verso di lui, verso le sue stranezze, verso la sua mancanza di puntualità cronica (in Cozzi 2006, 165).

Nel 1938 nacque Diana Luisa, per lui la seconda figlia, la prima della nuova famiglia che Monicelli pensava di mantenere con traduzioni da Simenon, promessegli da Arnoldo in persona. Ma la censura fascista bloccò l’uscita di quei romanzi, giudicati di dubbia moralità. La situazione economica si fece disperata. Tornò di umore nero, parlando costantemente di suicidio. Insistendo con lo zio perché provvedesse a rimediare finì con l’avere con lui uno scontro di gravità tale che l’editore per molto tempo non volle più vederlo. Ma Giorgio poteva sempre contare anche sulla saldezza del clan garantita dalla zia Andreina. E i suoi rapporti con la casa editrice ripresero (Buzzi in Cozzi 2006, 171 e 168).

Collaborava già a «Il Milione», diretto per l’Api dal brillante Cesare Zavattini, in cui trovò un simpatico complice in irriverenza verso le regole d’ufficio; ora fu chiamato a collaborare, da esterno, a un nuovo settimanale, «Il Giornale delle meraviglie», molto in sintonia con le sue fantasie scientifiche, che coltivava al punto da proporre già allora più volte, invano, di creare per l’Italia una rivista analoga all’americana «Astounding Fiction». Già il 17 settembre 1936, rispondendo a un lettore, aveva scritto sul n. 71 del «Cerchio verde»: «L’idea dei racconti fantastici non è malvagia: se n’è parlato più volte in Redazione, e chi sa che lei non abbia la sorpresa […] di leggere qualcosa del genere a lei – e anche a me – tanto caro» (citato da Cozzi 2006, 183).

Lo zio gli scrisse il 27 luglio 1938: «Conto su te e sulla tua intelligenza. Al lavoro, con fede, con ottimismo, e soprattutto con serietà» (Archivio Fede Monicelli). Sul «Giornale delle meraviglie» pubblicò, con lo pseudonimo V. Melli, uno dei tanti che adottò nella sua prolifica carriera di traduttore e autore, una serie di 24 articoli sui Mondi invisibili, che descrivono le forme di vita osservabili al microscopio, ottenendo dallo zio elogi ambiti e meritati (Buzzi in Cozzi 2006, 174).

Intanto, oltre che per «Topolino», svolgeva una frenetica attività di traduzione, sia dal francese che dall’inglese, per i «Gialli» e per la «Palma», cioè dello stesso genere che produceva in proprio l’amico Scerbanenco. Tradurre, allora, significava produrre in fretta testi di rapida e piacevole lettura, con una scarsità di riguardi per l’esattezza filologica e per i problemi traduttologici che oggi farebbe, anzi fa, inorridire qualsiasi accigliato cultore di translation studies. La cosa principale era dominare l’italiano e cogliere un registro che per il lettore e, soprattutto, la lettrice italiani, fosse accattivante anche se non perfettamente aderente a quello del testo originale. In questo Giorgio Monicelli era imbattibile.

Per comprendere in che cosa consistesse il grande mestiere del pur ancor giovane Monicelli valga l’esempio della Notte dei sette minuti. Mondadori aveva ottenuto i diritti per l’Italia di Georges Simenon, il creatore di Maigret, da qualche anno avviato sulla strada di un enorme successo. Lorenzo Gigli, direttore del settimanale «L’Illustrazione del popolo», collegato al quotidiano «La Gazzetta del popolo» di Torino (come lo era al «Corriere della sera» «La Domenica del Corriere»), aveva a sua volta acquistato da lui i diritti di traduzione e pubblicazione del racconto lungo Les sept minutes, un’inchiesta di un’altra creatura di Simenon, l’ispettore G7. Con i diritti era arrivato anche il traduttore, appunto Monicelli. Ma il racconto – scoprì con sgomento Gigli leggendo l’originale – presentava un problema gravissimo: un suicidio. Proibito parlare di suicidi nella felice, luminosa e morigerata Italia fascista. La censura del regime controllava tutti i libri e si era fatta intransigente: niente sesso, niente aborti, niente suicidi (Rundle 2010; Cembali 2006). Gigli era stato il primo a pubblicare una striscia disneyana in Italia, già nel 1930; nell’occasione aveva inventato il nome italiano di Mickey Mouse (Decleva 1993, 235) e quindi era ben noto a Monicelli. Gli prospettò subito il problema (lettere del 25 agosto e del 17 settembre 1938, in Archivio Fede Monicelli). Il 10 novembre, a pubblicazione ultimata delle puntate del breve romanzo, Gigli scrisse nuovamente a Monicelli una nota manoscritta, annunciandogli gongolante che la posta dei lettori rivelava un grande apprezzamento per «la fine originale» del romanzo di Simenon. Come aveva risolto il caso Monicelli?

Simenon aveva immaginato che un vecchio padre in rovina, per poter far godere alla figlia della sua assicurazione sulla vita, fosse riuscito a far apparire il proprio suicidio un assassinio. Il modo era molto, molto ingegnoso: nella miserabile abitazione correva in alto un tubo della stufa che scendeva al piano sottostante e in cui l’aspirante suicida aveva praticato un foro. Nel foro aveva infilato una pietra, legandola alla rivoltella. Una volta sparatosi, la rivoltella, liberandosi dalla sua mano, sarebbe stata risucchiata dal peso della pietra scomparendo nel tubo e inducendo così gli investigatori a credere che se la fosse portata via un assassino. Nell’ultima puntata, sul n. 44 del 30 ottobre 1938, tra infamie sugli ebrei ed esaltazioni delle vittorie franchiste in Spagna e giapponesi in Cina, il lettore poté leggere la soluzione italianissima e ancor più ingegnosa del mistero che nelle precedenti quattro puntate aveva assillato la polizia parigina: la vittima – racconta G7 a un amico – si porta la pistola alla tempia…

Ed improvvisamente, lo so, lo sento, egli cambia idea: questo antico generale dell’esercito russo non vuol più morire così vilmente, non morrà. Riprenderà la sua vita tra le sue forti mani d’uomo, lavorerà ancora. Ritroverà la sua dignità e il suo coraggio. Scaglia lontano, con disgusto, la rivoltella e… la rivoltella, che la pietra trascina entro il tubo, prima di infilarsi nello sportellino, urta contro l’orlo, esplode, l’uccide.

Con quel «lo so, lo sento» Monicelli, per trasformare un suicidio in incidente, aveva genialmente trasferito l’onniscienza e l’onnipotenza del narratore al suo protagonista, l’ispettore G7. Non sappiamo che cosa ne abbia pensato Simenon, ma non stentiamo a immaginare che tutto gli andasse bene, purché i diritti corressero.

Partigiano e questore di Varese

L’impegno giornalistico di Giorgio Monicelli durò poco. Nel 1940 uscì, tra gli altri suoi lavori, La grande pioggia di Louis Bromfield, secondo, quanto a successo (oltre 100.000 copie: per l’epoca un super best seller), soltanto a Via col vento di Margaret Mitchell (Decleva 1993, 230). Ma arrivò la guerra e Monicelli venne richiamato e arruolato in artiglieria: prima a Torino, poi a Vigevano, poi a Rieti. Nel 1942 nacque un’altra figlia, Fede, seguita, l’anno dopo, da Eva. Per il carico familiare, Giorgio fu congedato: «stava diventando uno straccio […] lui era negato per l’ordine e la precisione, e quindi si può immaginare quello che ha passato facendo la naja» (Cozzi in Buzzi 2006, 177). Ma a quell’epoca, persa disastrosamente la guerra fascista, sottoposte le città italiane a pesanti bombardamenti e divenuta tutta l’Italia uno dei principali teatri della seconda guerra mondiale, molte cose erano cambiate nella vita di Giorgio Monicelli come in quella di tutti. Per sottrarsi al rischio dei bombardamenti, la Mondadori aveva sfollato i suoi uffici ad Arona, a pochi chilometri dalla villa di Meina dove soggiornava Arnoldo. Poco tempo dopo l’editore pensò bene di trasferirsi clandestinamente in Svizzera, dove fu seguito sia da Andreina che dai figli e donde poté continuare a tenere i contatti con gli agenti e gli autori stranieri (Decleva 1993, 275-280: un’eco della intensa campagna acquisti di scrittori americani svolta da Mondadori dalla Svizzera si trova nelle lettere che tra il 1944 e il 1945 Renato Poggioli scriveva dagli Stati Uniti all’amico Luigi Berti a Firenze, conservate dal figlio di quest’ultimo). Nell’aprile del 1944 l’azienda fu commissariata dalla Repubblica sociale italiana, lo stato fantoccio mussoliniano, e sottoposta alla «socializzazione».

Il 24 maggio 1944 anche Monicelli e i suoi familiari sfollarono ad Angera, sulla sponda opposta del lago Maggiore e in provincia di Varese. Lì e ad Arona prese contatti con elementi collegati al partito comunista clandestino e con le Brigate Garibaldi per dare concretezza d’azione all’avversione maturata contro il fascismo e alla necessità di battersi contro l’occupazione tedesca. Testimoni della sua attività cospirativa sono i ricordi delle due figlie maggiori, Elisa e Diana, e l’attestato rilasciatogli dopo la Liberazione da un gruppo clandestino del Pci e conservato dalla figlia Fede. In questa attività rientrarono vari viaggi in Svizzera, non solo a vantaggio della Resistenza ma anche per non perdere i contatti con lo zio e il cugino e con l’attività editoriale. Gli episodi particolari della sua partecipazione alla lotta di liberazione sono noti solo grazie all’incerta memoria delle figlie. Giorgio Monicelli fu arrestato due volte. Di una sua, fortunatamente breve, permanenza nel carcere milanese di San Vittore siamo documentati da una lettera con cui il 28 dicembre 1944 Arnoldo Mondadori esibiva, a chi a Roma, già liberata, cercava di minare la sua autorità in quanto fuggiasco e in quanto antico profittatore del regime fascista, i titoli antifascisti di familiari e collaboratori nell’Italia occupata (Decleva 1993, 297).

Fu probabilmente quell’arresto a provocare il formale preavviso di licenziamento inviato a Giorgio l’11 novembre 1944 dal commissario repubblichino della Mondadori, dove d’altronde da tempo lui non metteva più piede (Archivio Fede Monicelli). Ma che, forse a fine agosto o ai primi di settembre, fosse stato arrestato un’altra volta e fosse riuscito a fuggire («in scarpe da tennis!») dal camion tedesco su cui era stato ammucchiato con altri rastrellati, ci risulta solo dalla testimonianza di Elisa Monicelli, la quale ricorda anche che subito dopo il padre tentò di mettersi definitivamente in salvo in Svizzera, ma ne fu impedito perché pochi giorni prima le autorità della Rsi avevano chiuso la frontiera (il che avvenne effettivamente il 2 agosto 1944: Giannantoni 1983, 157).

Giunse la Liberazione e, come in tutte le città, il Comitato di liberazione nazionale di Varese assunse tutti i poteri civili, distribuiti tra i rappresentanti dei vari partiti. Al partito comunista toccava il questore. L’incarico fu affidato a Monicelli, che avrebbe preferito la direzione del giornale «La Prealpina», attività a lui più consona. «No – gli avevano detto i compagni – tu porti i baffi, come Stalin, è meglio che fai il questore», ricordava lui scherzando (Cristina Mondadori 2004, 218). È davvero difficile immaginare che una persona come lui potesse trovarsi a suo agio nei panni di capo della polizia di una provincia. Monicelli si affrettò a cercare aiuto in un professionista vero del mestiere. Già il 26 aprile fece affidare dal Cln «le funzioni provvisorie di vice questore al commissario di P.S. [Giorgio] Fiorita, che avendo abbandonato il servizio il 15 settembre 1943, lo riprese alle ore 17 del 25 aprile precedendo in questura le formazioni partigiane» (Relazione sulla situazione in Questura, firmato Giorgio Monicelli, 5 maggio 1945, in Asv, Cln, cart. 5). Fiorita era «l’unico funzionario di P.S. dell’Italia settentrionale che volontariamente non prestò servizio, neanche per un giorno, nella polizia repubblicana» (Al prefetto, 9 maggio 1945, in Asv, Questura). Insieme, Fiorita e Monicelli procedettero lo stesso 26 aprile a ripulire gli uffici dagli elementi più compromessi col fascismo. Dell’autorevolezza goduta per i suoi meriti partigiani e per la sua carica istituzionale Monticelli si avvalse il 16 maggio per attaccare «violentemente» il Cln aziendale della Mondadori che si opponeva al rientro del titolare (Mondadori 1996, 112-113), a conferma che non vi era contrasto sufficiente a incrinare la saldezza del clan.

Ma non poteva durare. Verso la fine di giugno il governatore militare alleato di Varese, il maggiore americano Clyde A. Warren, scriveva, probabilmente al Cln varesino:

Poiché mi è stato reso noto che il Questore [..] Sig. Guido [sic] Monicelli non ha eseguito le istruzioni impartitegli dall’Allied Military Government; e poiché gli uffici della Questura non funzionano efficientemente sotto la direzione del detto Sig. Guido Monicelli; e poiché attualmente è necessario che un uomo esperto sia nominato Questore; perciò […] ordino quanto segue: 1. Il Questore Guido Monicelli […] viene dimesso dalla sua carica di Questore reggente e dal servizio. 2. Il Vice Questore dr. Giorgio Fiorita viene con il presente atto nominato Questore Reggente per la Provincia di Varese con effetto immediato (copia dattiloscritta, s.d. [ma entro il 28 giugno 1945], senza destinatario, in Asv, Questura).

A nulla valsero né le rimostranze del Cln, che si appellò perfino al presidente del consiglio Ferruccio Parri, d’altronde impotente davanti a questa come a ben più gravi e pressanti questioni, né le minacce e le contumelie che comparvero sui muri di Varese contro Fiorita, che fece anche il passo di presentare le dimissioni, respinte da Warren, già il 2 luglio. Cinque giorni dopo della questione non si parlava nemmeno più (verbali delle riunioni del 30 giugno, 3 e 6 luglio 1945, in Asv, Cln, cart. 1). Anzi, il 15 ottobre successivo, Giorgio Agosti, questore della Liberazione a Torino, inviato a ispezionare tutte le questure dell’Alta Italia dallo stesso Parri, nella sua relazione poteva indicare al capo della polizia il commissario Fiorita quale questore di Varese «insediato dal Cln» (Aga, B. 4, f. 16), come se Monicelli non ci fosse mai stato.

Ma fu certamente col suo aiuto che, proprio nel giugno del 1945, Arnoldo e Andreina Mondadori avevano potuto rientrare, in Italia, di nuovo clandestinamente a causa della chiusura della frontiera da parte svizzera in quei giorni turbolenti (Decleva 1993, 319, 326 e 562 n.).

Non c’è da stupirsi che – sempre secondo i ricordi delle figlie – alla fine di quell’anno, alla cessazione dell’occupazione alleata, l’esuberante Giorgio Monicelli si mettesse alla finestra a sparare in aria con due pistole gridando: «Siamo liberi! Siamo liberi!», interpretando così il pensiero reale di tanti.

Un’attività intensissima

Uno dei libri che aveva potuto portare a casa dalla Svizzera in quel periodo era The Moon is down (1942) di John Steinbeck, un romanzo che esaltava la resistenza antinazista in Europa e che faceva parte della dotazione di letture delle truppe americane. Monicelli ne preparò una traduzione in clandestinità e la fece uscire all’indomani della liberazione per il piccolo editore Gentile di Milano col titolo La luna tramonta. Ma fu battuto sul tempo da La luna è tramontata di Luciana Peverelli per l’Editoriale Romana nel 1944 e, con l’accattivante annuncio «preparato durante l’occupazione tedesca» e la data 25 aprile 1945, da È tramontata la luna di Lia Bodrero per l’Edizione del Ribelle di Brescia. In compenso, assunto il titolo La luna è tramontata, la versione di Monicelli sarebbe passata nel 1948 nella prestigiosa «Medusa» mondadoriana e ripubblicata più volte.

Dopo la guerra l’impegno di mantenere una famiglia numerosa (moglie e quattro figlie) spinse Giorgio Monicelli a un’attività professionale frenetica. Entrò nella redazione di «Milano sera», un quotidiano sostenuto dal partito comunista, e intanto «lavora continuamente» per la Mondadori (Arnoldo Mondadori a Tomaso Monicelli, 26 novembre 1945, in Aame, fasc. Monicelli Tomaso 1924-1956, II). Elio Vittorini, definitivamente affermatosi in quegli anni come un luminare in fatto di cose americane, lo considerava un «traduttore provetto» e in quanto tale, oltre che come «iscritto al nostro Partito dal 1942 ed attualmente questore di Varese per incarico del P.C», lo raccomandò a Giulio Einaudi il 6 luglio 1945 (Vittorini 1977, 9: evidentemente la notizia della destituzione non gli era ancora giunta). Dalla collaborazione con la casa editrice torinese non uscì nel 1946 soltanto la cura del libro per il quale lo proponeva Vittorini, The Rise of the American Nation, di Francis Franklin (secondo Vittorini, nella stessa lettera, «di una importanza fondamentale sulla storia degli Stati Uniti dal punto di vista marxista»), ma anche quella di To Have and Have not di Ernest Hemingway (Avere e non avere, 1946). Fece inoltre la revisione della traduzione di The Sun also Rises curata da Giuseppe Trevisani, che uscì nel 1946 col titolo Fiesta (come E il sole sorge ancora ne era già uscita una, di Rosetta Dandolo, per la Jandi Sapi di Roma nel 1944). Non portò invece a termine quella di The Ox-Bow Incident, di Walter Van Tilburg Clark, per la quale la casa editrice lo sollecitava pressantemente il 21 maggio 1947, oltre un anno dopo la scadenza prevista dal contratto, il 15 marzo 1946 (Ast, Agee). Il bel romanzo western comparve in italiano solo nel 1964, grazie a Paolo G. Gajani, per Vallecchi con lo stesso titolo dell’altrettanto bel film che ne aveva tratto William Wellman: Alba fatale. E con ciò la collaborazione con Einaudi fu troncata fino al 1959, quando, lui ormai affermato come direttore di «Urania», per l’antologia einaudiana di fantascienza Le meraviglie del possibile, curata da Sergio Solmi e Carlo Fruttero, tradusse due racconti, di H.G. Wells e di Clifford Donald Simak.

La milizia di Monicelli nel Pci non fu per altro molto fervorosa. Già nel 1946 restituì la tessera del partito, in seguito – a quanto ricorda vagamente la figlia Elisa – a una brutta storia di appropriazione indebita da lui denunciata senza seguito, e, dopo una breve parentesi nel Partito socialista dei lavoratori fondato da Saragat, si proclamò da allora in poi «socialista indipendente» (lettera ad Arnoldo Mondadori, 10 giugno 1944, ma recte 1949, in Aame, fasc. Monicelli Giorgio).

Per gli americani quell’abbandono invece non bastava. Mondadori aveva in animo di creare una sede a New York e offrì al nipote di andare a dirigerla. Monicelli era al settimo cielo. Per lui, come per tanti suoi coetanei, l’America «era una terra felice, dove gli adulti si divertivano come ragazzi, dove tutto era sportivo, pratico, moderno»: così in parte la descrisse in un articolo elogiativo del suo amico «scrittore rivoluzionario» Robert Lowry (Monicelli 1948). È indicativa la conoscenza di Whitman che, ancor prima che uscisse la versione italiana di Leaves of Grass di Enzo Giachino (Foglie d’erba, Einaudi 1950), traspare da una ilare lettera a «Mia Lele, mia capitana!» del 18 settembre 1947, ricca per altro di paradossi e nonsense («Anche Monsieur de la Palisse aveva l’aria di dire le stesse cose, ma le mie sono molto più interessanti»). Ma era cominciata la guerra fredda e, per i suoi trascorsi comunisti, il consolato gli negò il visto. Per Monicelli fu un colpo durissimo.

Aveva bisogno di

sacche ricolme di argentei talleri o siccome vuole l’andazzo di non soccorrevolissimi tempi, detti anco dollars, dinero, do-re-mi, bucks, bobs, sunbeams, yellow-boys, grands, X-rays e molti altri varissimi onde in quel grande reame nomasi il suo apprezzatissimo valsente.
Le forze dell’oblio non prevalebunt: no pasaran! They will not rush in! On ne passera pas! Nicht hinauslehnen! Gramzyele vadn i! L’usage du cabinet est interdit… ma questa è un’altra cosa.

Così aveva scritto il 27 agosto, in un’altra lettera di sapore gaddiano (di certo inconsapevole), alla figlia Elisa, che si concludeva con la citazione dei versi finali del «terz’atto» di una «famosa commedia» di «un intellettuale fiorentino che faceva il commediografo» (Archivio Elisa Monicelli).

Cercava lavoro anche fuori della Mondadori. Anzi, forse cercava di affrancarsi dal clan. Cominciò a collaborare con l’editore Aldo Martello, che aveva avviato una collana di «Grandi romanzi» in cui ben si collocavano le scelte dovute al fiuto di Monicelli.

Lo stesso Arnoldo Mondadori, però, lo aveva chiamato a far parte della giuria dell’effimero Premio Mondadori nel 1946 (Ferretti 1996, CXLVI), mentre Alberto Mondadori, che stava assumendo un ruolo di punta nella casa editrice e cercando di spingere il padre sulla strada di un impegno culturale e politico marcato, riuniva a casa propria una cerchia di intellettuali “impegnati”, dei quali faceva parte anche il cugino (lettera dell’11 novembre 1947 in Aame, fasc. Monicelli Giorgio; cfr. anche la pagina di diario del 24 maggio di Fernanda Pivano citata da Di Gioia 2011, 131).

In un programma di rinnovamento che Gian Carlo Ferretti ha definito «militante», nel 1947 Alberto Mondadori includeva il cugino nel «Comitato di consulenza» di una rivista mensile «Nuova Enciclopedia», di cui lo stesso Alberto sarebbe dovuto essere il direttore ma che non decollò mai: il nome di Giorgio Monicelli vi compare accanto a quelli insigni dei filosofi Antonio Banfi e Remo Cantoni, dell’archeologo Ranuccio Bianchi Bandinelli, del critico Emilio Cecchi, della germanista Lavinia Mazzucchetti, degli scrittori Henry Miller e George Orwell, di Jean-Paul Sartre e altri (Ferretti 1996, LI).

Fu in quel periodo che assunse la direzione della collana «L’Olimpo. Collezione dei grandi capolavori anglosassoni» dell’editore Federico Elmo, avvantaggiandosi delle conoscenze accumulate in fatto di produzione letteraria angloamericana durante il periodo bellico. Per «L’Olimpo» tradusse anche vari libri mentre continuava a collaborare con la Mondadori, alcuni sotto pseudonimo (si possono verificare i titoli nell’elenco che pubblichiamo a parte).

Monicelli era, in quel dopoguerra ribollente, uno dei più accreditati conoscitori della narrativa americana, che però spesso mediava attraverso il francese. Uno dei testi che ebbe tra le mani, ma che non tradusse, fu Tropic of Cancer di Henry Miller. Considerato osceno non solo in Italia ma anche negli Stati Uniti (dove uscì solo nel 1961, con uno strascico di processi) il romanzo era stato pubblicato a Parigi nel 1934. Alberto Mondadori se ne era assicurato i diritti e il 12 novembre 1946 lo aveva affidato al cugino, avvertendolo però che l’autore offriva aiuto:

nell’interpretazione di qualche espressione tipicamente americana, da sgomentarlo. La versione francese contiene errori evidentissimi. Delle frasi, forse delle proposizioni intere non possono venir tradotte letteralmente, ma richiedono una creazione nuova, sorta dalla libertà e dall’esuberanza del linguaggio originale, ciò che rende il lavoro del traduttore doppiamente difficile (Aame, Arnoldo Mondadori, fasc. Monicelli Giorgio).

Ovviamente Mondadori padre però non arrischiò la pubblicazione. La traduzione italiana del romanzo, di Luciano Bianciardi, sarebbe uscita semiclandestinamente da Feltrinelli solo nel 1962.

Roberto Lowry, lo «scrittore rivoluzionario» che aveva ispirato a Monicelli il suo peana all’America e di cui tradusse Casualty (Naja per Elmo), ispirato dalla partecipazione alla campagna d’Italia, fu in Italia con la moglie nel 1949 e a Milano strinse amicizia col suo traduttore. È certamente lui, e non il suo quasi omonimo Malcolm, che molti anni dopo, prima in un articolo (Del Buono 1980) e poi in un’intervista (Weisser 1983), Oreste Del Buono ricordava «gonfio, iroso, bisbetico», che, compagno di «bevute […] al Biffi in Galleria» (Weisser 1983) di Monicelli, partecipava con lui «attivamente alle feste e alle sbronze del dopoguerra in Galleria e dintorni» (Del Buono 1980): ma quando fu Malcolm a venire in Italia, nel 1954, il dopoguerra era finito da un pezzo, il Biffi non era più quello e lui, a quanto pare, non uscì da casa Monicelli se non – come vedremo – perché costretto. E del resto anche Robert era effettivamente un fortissimo bevitore, avviato all’alcolismo, di cui soffrì gravemente per il resto della vita. Scrittore e traduttore, con le rispettive mogli, andarono insieme a Parigi, da cui mandarono alle figlie Monicelli una cartolina il 16 marzo 1949 (Archivio Elisa Monicelli).

Monicelli era dunque un traduttore e un intellettuale ormai affermato. Tra il 1946 e il 1948 tradusse, sia per Mondadori che per Elmo, oltre a quelli citati, autori come Orwell, Koestler, Maugham, Gertrude Stein, ancora Steinbeck, John Fante, Sartre, Dos Passos. Talvolta era chiamato a scrivere la prefazione non solo a traduzioni proprie ma anche a quelle altrui, soprattutto quando si trattava di «testi in sintonia con il “socialismo indipendente” nel quale aveva finito con l’identificarsi personalmente» (Decleva 1993, 389).

Giuseppe Ravegnani, uno scrittore-giornalista allora piuttosto noto, in occasione della pubblicazione di La fattoria degli animali, tradotto da Bruno Tasso da Animal Farm di Orwell e pubblicato da Mondadori con una prefazione «in punta di penna» di Monicelli, in un trafiletto comparso nel gennaio 1948 sul quotidiano «Il Tempo di Milano» fece omaggio alla

sua nobile fatica di traduttore e di critico attento e di volgarizzatore felice delle letterature straniere […] Uomo di fede e di cultura, vivissimo nel cogliere il senso sdegnoso e umano delle ultime rivolte, attento alle parole degli scrittori in quanto uomini […] politico in senso ampio […] Ben si comprende allora il molto amore che Monicelli porta a scrittori quali Orwell o Koestler o Hillary; e perché egli ieri abbia tradotto Buio a mezzogiorno e il saggio di Koestler sopra Hillary e oggi presenti in pagine definitive La fattoria degli animali. […] Monicelli pretenderebbe migliore e assai più lungo discorso.

Quelle poche righe fecero guadagnare a Monicelli niente meno che un telegramma di complimenti dello zio Arnoldo, come si desume dal biglietto di ringraziamento del nipote all’«illustre presidente» del 10 gennaio 1948 (in Aame, fasc. Monicelli Giorgio). E non molto tempo dopo lo zio si sarebbe compiaciuto anche del «buon affiatamento tra Alberto e te» (lettera del 13 giugno 1949, ivi).

La Mutti

I rapporti tra Giorgio e Talì si erano fatti con gli anni sempre più tesi. Lui la chiamava «il carabiniere» perché lei, sapendo che «il lavoro del traduttore è uno dei più difficili e impegnativi», cercava di imporre un po’ di ordine e di regola sia alla sua vita che al suo lavoro; e lui non lo sopportava. Per molto tempo Monicelli non usò la macchina per scrivere e in tipografia crescevano le proteste, benché avesse una calligrafia chiarissima, impeccabile. Quando Itala provò a offrirsi di battere lei i suoi manoscritti a macchina, lui insorse accusandola di voler così controllare meglio se lavorava o no. D’altronde, era «sentimentalmente inquieto come da tradizione familiare (Mondadori 2004, 32) e non faceva misteri dei suoi tradimenti: «Guardi, era una vita infernale…» (Buzzi in Cozzi 2006, 170-1).

Nell’inverno 1951 Giorgio Monicelli, dopo un’ennesima scenata notturna con Itala, piantò la famiglia e se ne andò di casa (testimonianza di Elisa Monicelli), con conseguente causa di separazione. Andò a vivere in piazza Mercanti, una piazzetta medievale nel pieno centro di Milano, a un passo dal Duomo, dove aveva casa Maria Teresa Maglione, a tutti nota come «Mutti» (Daria Angeleri in Cozzi 2007, 595).

La decisione si trascinava da mesi. Mutti, più anziana di lui di sei anni, era stata dal 1940 fino ad allora la compagna di Giorgio Scerbanenco, a sua volta dal 1935 il miglior amico di Giorgio Monicelli. Ovviamente proprio questa circostanza aveva reso particolarmente tormentata la decisione della nuova coppia, come ci rivela una delicata e lunga lettera scritta il 25 giugno 1950 a Monicelli dalla Mutti, che sembra per molti versi uscita da un romanzo “rosa” dello stesso Scerbanenco, fortunosamente conservata da una allora giovanissima amica di quest’ultima. Quel giorno il fuoco che covava da anni era divampato, ma la donna aveva l’intenzione di soffocarlo. Evidentemente non ci riuscì; e tanto meno ci riuscì Giorgio. Ovviamente l’amicizia si ruppe e Scerbanenco troncò ogni rapporto con qualunque conoscenza comune che non facesse altrettanto con Monicelli (Daria Angeleri in Cozzi 2007, 599).

Mutti Maglione, ricordava Daria Angeleri, era «una donna un po’ strana, molto insolita»: anche lei «beveva molto», ma era scrittrice «feconda e acuta» (in Cozzi 2007, 597). Si cercherebbe però invano un libro sotto il suo nome. Mutti preferiva pubblicare con lo pseudonimo maschile di Patrizio Dalloro (ma talvolta declinato al femminile Patrizia), con il quale nel 1949 aveva pubblicato da Rizzoli, l’editore di Scerbanenco, il romanzo Due donne ti amano e in seguito avrebbe firmato le numerose traduzioni dal francese procuratele da Monicelli per Mondadori (Monicelli adoperò talvolta lo stesso pseudonimo per proprie traduzioni dall’inglese). Con questo e altri pseudonimi pubblicò poi ancora altri romanzi e racconti sia in volume che su varie riviste, tra le quali principalmente «Urania». Col proprio nome curò invece la rubrica Conosci te stesso per «Urania», dedicato all’I ching (Iannuzzi 2013, 35 e 49). Coltivava infatti uno straordinario interesse per le culture orientali così come per i culti misterici e per l’occultismo, di cui si trovano abbondanti tracce nelle rubriche in appendice all’«Urania» monicelliana.

Per Gianni Renna, un illustratore che collaborò con la collana, «era una donna dolcissima, ma anche lei molto colta, affascinante, piena di idee… […] erano molto, ma proprio molto affiatati. Si volevano bene» (Cozzi 2, 497). E in effetti da allora l’“inquietudine sentimentale” di famiglia sembra essersi acquietata. Tutt’altro, ovviamente, il giudizio di Itala Buzzi (in Cozzi 2006, 179).

«In quell’ambiente semibuio, con quella piccola terrazza, al primo piano» di piazza dei Mercanti 9 (Gianni Renna in Cozzi 2007, 505) ci consentono di gettare uno sguardo i ricordi di Giorgio Soavi, fissati in due occasioni diverse:

Monicelli mi invitò a casa loro per parlare di Lowry. Uscii il giorno dopo […] Restai dunque nel salotto di casa loro, seduto in una poltrona sgangherata almeno quanto il divano nel quale Monicelli e sua moglie stavano seduti. […] la dolcezza e l’incanto di quella conversazione erano più alti di tutto. In un angolo del salotto c’era una damigiana piena di vino e i bottiglioni che ogni tanto riempivamo, di un vino violaceo, veniva succhiato da una canna di gomma che spenzolava dalla cassaforte – chiedo scusa: dalla damigiana – che stava, come il convitato di pietra, a lato di tutti noi, nell’angolo e in silenzio. Abbiamo mangiato e bevuto dignitosamente tutta la notte fino alle prime luci dell’alba, con qualche fetta di pane e fettine di salame (Soavi 1984)

Là ci aspettava un grosso cane, forse un pastore bergamasco, e l’ambiente dimesso, difficilmente imitabile, che può offrire chi lavora a qualche cosa che difficilmente gli procurerà agio o ricchezza. C’erano due piccoli divani accasciati, oppure c’era un divano e una poltrona e nell’angolo, proprio accanto ai braccioli del divano e della poltrona, dove ci sarebbe stato tanto bene un bel tavolino con un lume sopra, una damigiana di vino. Con una canna di gomma Giorgio Monicelli aspirò il vino che scese quasi subito e riempì un bottiglione da due litri mentre la moglie, dalla cucina, veniva in qua con pane e salame. [..] Monicelli si scusò per la modesta qualità del vino, una barbera violacea che a me parve nettare (Soavi 1980).

Nel frattempo anche Lele, cioè la figlia Elisa, arrivava ai ferri corti con la matrigna. Oggi ricorda quel giorno d’estate, probabilmente dello stesso 1951 o del 1952, in cui sul lungolago di Meina, dove trascorreva le vacanze ospite dei Mondadori, vide venirle incontro lo zio Arnoldo in tutta la sua pompa di magnate, «con il bastone da passeggio col pomo d’argento». Mondadori la fermò e le comunicò che la sera prima la zia Andreina e lui avevano stabilito che, ora che non c’era più suo padre in quella casa, sarebbe stato meglio che lei si trasferisse da loro. Fu così che Lele visse fino al matrimonio in piazza Duse a casa Mondadori.

Una lettera spumeggiante di invenzioni a questa «Figlietta!», del 10 luglio 1954, dice molto su come era Giorgio Monicelli. Su sei facciate due sono occupate da fotomontaggi scherzosi. Sulle altre sono incollate foto ritagliate intorno alle quali scorre il testo: un bimbo riccioluto ignudo è «una rarissima foto dell’on. Saragat adolescente»; un sacerdote con paramenti e a mani giunte è «tuo padre il giorno della Prima sua Comunione (maggio 1860)». Vi compaiono due poesie («molli versi d’elegia») la melanconia delle quali («Siamo stelle morte, cenere di stelle» è l’attacco di una) vuole essere attenuata dalla presentazione scherzosa.

Ho finito di leggere in questi giorni – scrive – una bellissima traduzione dall’inglese: era mia e te la consiglio per quest’estate. Tuttavia, non uscirà prima dell’anno prossimo […] Penso nostalgicamente a titoli cosmici, come
Il Pianeta Ingorgato, Il Cielo se ne frega, Il Satellite Stitico (seguito da La Stella che non Andava), Il Pianeta Zio, La Stella Nonna, Nova, Super-Nova e di Seconda Mano, Soli e Male Accompagnati, Il Cielo non sa scrivere, La Stella steno-dattilografa, Astron Zoraide.
[…] ti abbraccio e ti dico:
Piccola stella, figlia gentile,
tu ed io formiamo una costellazione
ché intorno abbiamo il cielo! (Archivio Elisa Monicelli)

Sull’ultima facciata, bianca, ci sono alcune righe dattiloscritte, firmate «tua Mutti»: «Cara Lele, tuo padre maschera le sue tristezze sotto gli scherzi, come sempre, e il suo amore per te nello stesso modo» (Archivio Elisa Monicelli).

Era un infelice. Anche la ex moglie lo affermava: «io non l’ho mai visto veramente soddisfatto, mai. Anche quando lo sembrava, prima o poi veniva fuori che, nel fondo, era sempre un infelice» (in Cozzi 2006, 189).

Urania

La nuova situazione aggravò ancor più i problemi finanziari di Monicelli, costringendolo a pesanti tour de force lavorativi. Fu però proprio allora che, con il sostegno del cugino Alberto, la vecchia idea di creare presso Mondadori una rivista che pubblicasse storie ambientate in un fantastico futuro, tecnologicamente avanzatissimo, si fece finalmente strada nella casa editrice del clan. Nel 1952 nacque così «Urania», una rivista di «fantascienza». Proprio Monicelli fu l’inventore del neologismo «al 99%; l’1% va a Robert Madle, responsabile di un oscuro periodico amatoriale uscito con un solo numero nel 1938, “Fantascience Digest”», affermava Carlo Fruttero (2005, 278); comunque Itala Buzzi ricordava che il marito usava il termine già nel 1947, quando «portava a casa [dalla Mondadori] tutte le riviste americane di fantascienza» (in Cozzi 2006, 185 e 195). Il termine si legge per la prima volta nell’editoriale del n. 1 di «Urania», datato 10 febbraio 1952 (Iannuzzi 2013, 32). Il nome della rivista/collana, di cui gli fu affidata la direzione, Monicelli lo prese da un libro con quel titolo probabilmente letto da ragazzo, la traduzione del «Dott. Diego Sant’Ambrogio» di Uranie (1859) del divulgatore scientifico francese Camille Flammarion (Cozzi 2007, 704), uscita da Sonzogno nel 1890 e ripubblicata nel 1927 in seguito alla riedizione dell’originale, avvenuta due anni prima.

La rivista durò solo quattordici numeri, ma «I Romanzi di Urania» che le erano collegati ebbero un successo travolgente. Come quasi tutte le iniziative editoriali di Arnoldo Mondadori, aveva soprattutto il pregio della tempestività. L’Italia si affacciava al “miracolo economico”, la «grande trasformazione» da un’economia prevalentemente agro-pastorale all’industria e al terziario, e agli italiani cominciava ad aprirsi un futuro radioso di progresso che i sogni spaziali alimentavano. Non è affatto un caso che contemporaneamente nacquero altre due testate analoghe. Tra l’aprile del 1952 e il marzo 1953 uscirono sette fascicoli di «Scienza fantastica», della casa editrice Kantor di Roma, e tra l’agosto e l’ottobre dello stesso 1952 sei numeri di «Mondi nuovi», pubblicati da un’altra editrice romana, Diana (Iannuzzi 2013, 31-32).

A questa impresa editorialmente riuscitissima è legato quel tanto di fama postuma che finora Giorgio Monicelli è riuscito a guadagnarsi. «Preparò il numero zero con cura estrema, straordinaria» – ricordava anni dopo Orlando Bernardi, suo primo collaboratore – elaborando una «lunga gestazione». Ancora prima di iniziare le pubblicazioni «c’erano già almeno cinquanta o sessanta testi acquistati […] anche per tagliare le gambe alla concorrenza» (in Cozzi 2007, 39), che infatti – come s’è visto – fu stroncata in poco tempo. Il modello era «Galaxy», una rivista americana nata nel 1950, «sinonimo di una fantascienza “adulta” e letterariamente consapevole, di un’alta qualità letteraria» (Iannuzzi 2013, 33).

Tra i motivi del successo della collana, che tutti chiamarono semplicemente «Urania» e tale diventò qualche anno dopo, vi era senz’altro la scelta delle copertine, appositamente disegnate di volta in volta. Uno degli illustratori, Carlo Jacono, ricordava che Monicelli gli «spiegava molto bene i libri […] un raccontatore nato. Ti incantava letteralmente con le parole»; e che aveva concezioni ardite per i tempi. Nell’Italia dei primi anni cinquanta fortemente condizionata dal clericalismo, «era Giorgio Monicelli – ricordava sempre Jacono – che le voleva, nella sua “Urania”, le donnine spogliate», anche quando non c’entravano niente con il contenuto del libro; «per l’epoca erano alquanto spinte», erano «i primi tentativi di erotismo alla Mondadori», mentre sulle copertine dei «Gialli», diretti da Alberto Tedeschi e per i quali anche lavorava Jacono, non ce n’erano (in Cozzi 2007, 443-4).

Ma un altro motivo era proprio, nell’insieme di ogni fascicolo, la «mescolanza di temi scientifici, pesudoscientifici e bizzarrie», che, ha finemente osservato Giulia Iannuzzi,

sembra riconducibile alla personalità intellettuale di Monicelli: una formazione non scientifica, una curiosità onnivora, che pone sullo stesso livello temi scientifici e misterici, […] temi che in comune hanno la capacità di sollecitare l’immaginazione, di schiudere orizzonti inusitati e fantastici, di sollecitare la riflessione sulle facoltà umane passate, presenti e future (Iannuzzi 2013, 39).

Era dunque tornato al rapporto fisso con Mondadori, ma da un lato non gli bastava per far fronte alle necessità e dall’altro ne era insofferente. Andreina Negretti, sua collaboratrice, lo chiamava «il direttore fantasma, perché Monicelli non c’era mai [in ufficio]», aggiungendo che «la sua occupazione principale era quella di fare il cacciatore di anticipi» (Cozzi 2007, 557).

Guardi – ha raccontato Itala Buzzi a Luigi Cozzi (2006, 169) a proposito del rapporto con gli editori – Giorgio prendeva l’acconto e spariva: non faceva più nulla, finché non si ritrovava del tutto senza denaro. Allora, quando proprio gli mancavano anche i soldi per comprarsi le sigarette, si metteva a tradurre come un disperato. Stava alzato per tutta la notte a tradurre, in quei casi. Alla mattina correva a consegnare le pagine fatte all’editore per cercare di farsi dare un altro anticipo e poi, se lo riceveva, spariva di nuovo finché non finiva il denaro. […] I Mondadori abbozzavano: gli altri editori… be’, con gli altri editori lui ha sempre finito, inevitabilmente, per litigare.

Non solo: «era un piantagrane, un agitatore…». Pretendeva niente di meno «una sia pur minima percentuale di diritti d’autore», perché «gran parte dei libri, infatti, lui li riscriveva letteralmente in italiano, li cambiava, li riplasmava, li rimodellava» (Buzzi in Cozzi 2006, 176).

I collaboratori di «Urania» li riceveva a casa, «perché Monicelli alla Mondadori ci si recava soltanto ogni tanto» (Jacono in Cozzi 2007, 446). Inoltre si moltiplicavano i contrasti con gli editori: da alcuni editori arrivavano «denunce per mancata consegna, citazioni in tribunale per lavori non fatti ma di cui lui aveva preso gli anticipi» (Buzzi in Cozzi 2006, 170); Alberto Mondadori lo redarguiva per la fattura di un fascicolo (lettera del 20 febbraio 1953 in Mondadori 1996, 432); lo zio Arnoldo gli negava la possibilità di pubblicare nella sua collana autori italiani. Quando commissionò un romanzo a Franco Enna – che fu anche il primo italiano a pubblicare un romanzo nei «Gialli» – dicendogli anche come farlo, per pubblicarlo dovette scontrarsi direttamente con «il Gran Manitou» (questo il nomignolo che aveva affibbiato allo zio nella corrispondenza con Lele: lettera del 27 agosto 1947 citata); la spuntò, ma L’astro lebbroso ebbe un successo inferiore agli americani e inglesi e quindi Mondadori «fece una chiassata» a Giorgio e da allora pose il veto a nomi italiani sulle copertine di «Urania» (Cozzi 2, 608). Autori italiani ce ne furono ancora – compresa Mutti Maglione – ma sotto pseudonimi stranieri. Per l’appendice di racconti brevi il discorso era diverso e, nel 1955, nel numero 67 lo stesso Monicelli vi pubblicò col proprio nome il racconto Il ranch di Cranwell, considerato dagli esperti molto bello.

Tuttavia Monicelli parlava della fantascienza «come un po’ dall’alto, con una certa dose di distacco e di ironia, quasi che la fantascienza fosse per lui più che altro una sorta di svago o di raffinato gioco intellettuale» (Carlo Renna in Cozzi 2007, 504).

Nel frattempo però aumentavano sia le tensioni coi Mondadori che il bisogno di danaro. Nel 1953 riprese la collaborazione con l’editore Aldo Martello di Milano, imperniata dapprima sulle sue competenze “scientifiche”, ma che produsse anche la pubblicazione di due interessanti antologie: Carosello di narratori americani e Carosello di narratori inglesi. Per Martello, tra l’altro, pubblicò nel 1956 Gli anni della Fenice, traduzione di un romanzo di di Ray Bradbury che dieci anni dopo, col suo titolo originale Fahrenheit 451, sarebbe divenuto famoso grazie al film di François Truffaut e ripubblicato da Mondadori negli «Oscar». Ma Monicelli ne aveva già dato un’anticipazione su «Urania» n. 13 e n. 14 (novembre e dicembre 1953) con Gli anni del rogo, sua traduzione del racconto The Fireman, che ne era il primo embrione (Iannuzzi 2013, 34 nota).

Ma non gli bastava. Nel dicembre 1956, coadiuvato dalla Mutti e dall’amico pittore e scrittore Luigi Rapuzzi, in arte Johannis, e sotto lo pseudonimo di Tom Arno, assunse la direzione di una rivista concorrente, fondata da Johannis con sede ufficiale a Udine, «Galassia». Fantasiosa la composizione del pomposo Comitato di redazione
: Patrizio Dalloro (Milano), L.R. Johannis (Glen Cove – L.I. N.Y.), Maria Maglione (Milano), Giorgio Monicelli (Milano), 
Chester S. Nathan (New York), Cesare Nadalini (Udine),
 Libre de Partail (Parigi e Milano), Elizabeth Stern (Londra), Mary Sweater (Greenwich e Milano), Tsing-Kkann-Sunn (Milano); ai nomi veri si mescolano gli pseudonimi delle stesse quattro persone.

Monicelli e Maglione abbandonarono «Galassia» però già nell’aprile del 1957 per fondare in giugno ancora un’altra rivista di fantascienza, «Cosmo», dell’editore Ponzoni di Milano (Iannuzzi 2013, 51, 56 e 59). Ma già nel marzo del 1958, dopo aver pubblicato lì alcuni romanzi tradotti da lui stesso sotto svariati pseudonimi, lasciò anche quell’impresa, c’è chi dice per trasferirsi a Roma nella speranza di potere, con l’aiuto del fratello Mario, entrare nel mondo del cinema come soggettista e sceneggiatore (Luigi Garonzi in Cozzi 2007, 457). In ogni caso poco dopo era a Milano, a riprendere la consueta attività massacrante.

Sotto il vulcano

Basta scorrere il lungo elenco dei lavori di Giorgio Monicelli per rendersi conto del gran numero di grandi firme che hanno trovato in lui la loro voce italiana. Ma di certo l’opera di gran lunga più bella e importante che egli abbia tradotto è il romanzo Under the Volcano, dell’inglese Malcolm Lowry, uscito già nel 1947. La traduzione di Monicelli, Sotto il vulcano, fu pubblicata però solo nel 1961, da Feltrinelli, dopo che in Italia il romanzo aveva subito varie peripezie, iniziate già nel 1948 con contatti tra la casa editrice Einaudi e l’autore (il primo traduttore doveva essere Luigi Berti: Bowker 1983, 439).

«Lui – raccontò Monicelli a Giorgio Soavi (1980) qualche anno dopo – ne aveva passate di tutti i colori: a turno, quasi tutti i grandi editori italiani avevano acquistato i diritti del suo romanzo e poi non glielo stampavano». Tra queste peripezie, quella principale fu il soggiorno milanese di Lowry a casa di Giorgio e Mutti, nel novembre del 1954, per dare una mano al traduttore nel suo difficile compito (Day 1974, 9).

Su quella settimana ci sono vari racconti di seconda mano; e leggende. Lowry era già gravemente alcolizzato (morì infatti per questo tre anni dopo, ad appena 52 anni: e d’altronde Sotto il vulcano è, in prima battuta, una storia di alcolismo). Alla sua uscita Oreste Del Buono accostò la «vivissima traduzione di Giorgio Monicelli (che dello scrittore inglese è amico fraterno)» niente di meno che «alla non mai abbastanza lodata traduzione di Giulio De Angelis» dell’Ulysses, pubblicata quello stesso anno (Oreste Del Buono 1961).

Secondo Douglas Day, un biografo di Malcolm, in gran parte dipendente dalla vedova dello scrittore, Margerie (la quale non doveva avere buona memoria se chiamava la «moglie» di Monicelli «Daniela», come a p. 11), Lowry

tried valiantly to sober up and be helpful; which he was, until – after a long morning’s work one day – he keeled over in his chair and began vomiting “great gouts of black blood” (Lowry’s glowery and possibly somewhat exaggerated description). He was rushed to a local hospital, and spent a week in bed listening wide-eyed and repentant to his doctor’s ominous prophecies; and then “bounced out,” as Margerie put it, “fit  as a fiddle (Day 1974, 9).

[cercò eroicamente di non bere e di rendersi utile; e ci riuscì, finché – alla fine di una lunga mattinata di lavoro – un giorno si rovesciò dalla sedia e cominciò a vomitare «sangue nero a fiotti» (truce e probabilmente alquanto esagerata descrizione di Lowry stesso). Fu ricoverato a precipizio in ospedale e passò una settimana a letto ad ascoltare a occhi spalancati e contrito le funeree profezie dei medici; e poi «se ne saltò fuori – così la raccontava Margerie – sano come un pesce» (traduzione nostra)].

L’episodio diventò quasi leggenda. Su «Successo» del maggio del 1965 Guido Vergani riferiva, di seconda o terza mano, che Lowry

di vino ne ingollò a litri in casa di Giorgio Monicelli a Milano, dopo aver fatto fuori bottiglie di campari, rimasugli di cognac e di whisky. Per una settimana non mise il naso al di là della porta d’ingresso. Un giorno crollò di schianto: lo portarono all’ospedale, i medici lo dichiararono spacciato e la mattina dopo era già in piedi e già chiedeva di potersi bagnare la gola.

La leggenda è ancora più fantasiosa nella pur breve versione di famiglia. La cugina Cristina Mondadori racconta: «Nel 1961, quando uscì l’edizione italiana del romanzo, festeggiarono l’evento con una sbornia epica, talmente robusta che Lowry, nottetempo, fu costretto a farsi ricoverare in ospedale al Niguarda, mentre il cugino Giorgio dimostrò maggior tempra e tenuta». Ma nel 1961 Lowry era morto già da quattro anni ed è quindi  anche molto improbabile che affermasse che la versione monicelliana era «migliore dell’originale» (Mondadori 2004, 32).

Più attendibile, anche se forse un po’ romanzata, la versione raccolta di prima mano da Giorgio Soavi. Lowry, gli raccontò Monicelli,

ha vissuto qui […] perché noi avevamo un gran bisogno di confrontare intere pagine e i soliti dubbi sulle interpretazioni. […] la vita con lui non è stata facile. Lui era meraviglioso, ma aveva un bisogno di bere inesauribile. Siccome anche a noi piace bere, l’inizio fu inebriante. Lui voleva il vino e basta. […] Passavamo serate e pomeriggi, io alla macchina per scrivere, lui sdraiato sul divano e inventava ciò che credeva di aver scritto. […] Il lavoro in comune non andava molto avanti; spesso stava chiuso nella sua stanzetta e scriveva poesie d’amore per mia moglie, usciva fuori entusiasta perché gliele traducessi immediatamente. Poi lo trovammo stecchito sul pavimento e quella fu la prima volta che lo portammo in clinica.

Si rimise subito, ma loro fecero sparire il vino.

ma un mattino che non rispondeva entrammo nella sua stanza e lo trovammo di nuovo stecchito sul pavimento. Nel bagno aveva scoperto una grossa bottiglia di alcol, quello per le ferite; a me sembra putrido ma lo aveva bevuto tutto […] Lowry si era scolato l’acetone per le unghie e l’avanzo di uno sciroppo per la tosse.
[…] Lo caricammo su un taxi e ritornammo alla clinica dove ormai ci conoscevano. […] un giovane medico disse: non se la caverà. […] Piuttosto fate una ispezione meticolosa a tutto quello che ci può essere di alcolico: dovete buttare via tutto, ma proprio tutto. […] siamo tornati a casa, pensando al nostro meraviglioso e sciagurato amico che ci aveva riempito la casa e la vita dei suoi disastri. Come lo amavamo.
Il mattino dopo, verso le sette, sentimmo battere alla porta. Era Lowry, seminudo, che chiedeva di rientrare in casa. Era fuggito dalla clinica. […] Tranne l’acqua che scendeva dai rubinetti, in casa non c’erano altri liquidi. […] Se si esclude una bottiglia di acqua di colonia che mia moglie aveva nascosto, a mia insaputa, in una pentola. Lowry la scoprì in un pomeriggio di disperazione e quando lo ritrovammo stecchito per terra e lo riportammo alla clinica disse che era stata una bevuta fantastica […] Il suo sogno era di non creare ostacoli alla sua completa dissoluzione (Soavi 1980).

Era quello anche il sogno di Monicelli?

Lo scrittore e giornalista Luigi Compagnone lo incontrò in quel periodo, nel 1959, per un’intervista sulla fantascienza:

Fu in quell’occasione che lo conobbi. Adopero il verbo conoscere nel suo significato profondo. Forse vi è presunzione nel dire di aver conosciuto (amato) un uomo per essere stato insieme a lui non più di mezza giornata. Ma Giorgio Monicelli era leggibile come nessuno. Era un color chiaro. Esaurimmo in breve tempo l’argomento fantascienza, cominciammo a poco a poco a parlare di noi due. Proprio come due vecchi amici, che si ritrovano dopo tant’anni. Giorgio, in quel tempo, viveva uno dei momenti più infelici della sua infelicissima vita. Me ne parlò quasi d’improvviso: con tenera voce, e con quella calma dolente che, talora, solo la frequentazione del dolore sa dare a un essere umano. E lui era tutto umano, e tutto fraternamente scoperto in quell’essere uomo di pena. E, purtroppo, creatura ormai rassegnata. Gliela si leggeva negli occhi, la rassegnazione. Occhi smarriti, luminosi d’intelligenza. E di stanco amore per la vita. Glielo aveva mortificato, quell’amore, l’antica arroganza italiana. La prepotenza di chi gli aveva sfruttato lavoro e talento. Un grande ma sventurato talento. Le sue traduzioni dagli americani, dagli inglesi: belle come quelle di Cecchi, Pavese, Vittorini, Baldini. Rileggiamoci Cronache marziane di Ray Bradbury, uno scrittore che non è soltanto uno scrittore di fantascienza. Rileggiamoci quel libro, per capire il talento letterario di Monicelli, per riamare le sue invenzioni (un grande traduttore è, come è noto, colui che tradisce l’originale per restargli fedele in virtù delle proprie invenzioni stilistiche). Dopo tant’anni, quel che più ricordo di Giorgio sono gli occhi e la voce: un’alta malinconia, che era anche l’ironica accettazione del suo proprio destino e, insieme, la superiorità di un uomo sulla bestialità della sorte e la cattiveria di chi, in lui, aveva provocato il lento formarsi di un’ingiustizia (Compagnone 1981).

«Nel 1961 ci fu una ennesima violentissima lite tra lui e i cugini Alberto e Giorgio Mondadori, e allora Monicelli lasciò definitivamente il suo impiego» (Cozzi 1981). Ma Andreina Negretti, che avrebbe curato qualche fascicolo di «Urania» nell’interregno che precedette l’arrivo del nuovo direttore, Carlo Fruttero, preferiva credere che nell’abbandono ci fossero «motivi di salute» (in Cozzi 2006, 127). L’ultimo «Urania» uscito sotto la direzione di Monicelli fu il n. 267 del 2 ottobre 1961 (Iannuzzi 2013, 55).

Monicelli era un uomo troppo particolare, troppo raffinato, troppo all’avanguardia per l’epoca in cui viveva […] e poi non era un esecutore, no, assolutamente, Monicelli […] era chiaramente un uomo creativo, un artista […] E quindi, lavori come quello di fare le traduzioni gli pesavano, non credo che gli dessero molte soddisfazioni (Carlo Renna in Cozzi 2007, 499).

Sarà anche stato un «cacciatore d’anticipi», ma lavorò ancora come un disperato per alcuni anni, sfoderando traduzioni su traduzioni e ricorrendo agli stimolanti per sostenere quel ritmo. E bevendo il vino di quella sua damigiana. Finché non finì, sfiancato, il 4 novembre del 1968. Pochi mesi dopo, Mario Monicelli scrisse alla nipote Elisa:

il tuo povero papà è stato il fratello che più ho amato e l’uomo la cui intelligenza ho più stimato di quanti ne ho conosciuti, e che ha avuto l’influenza maggiore sulla mia formazione. Quindi debbo molto più io a lui che lui a me. Il carattere invece era quello di mio padre e di tuo nonno. Debole. Ma sono uomini che hanno arricchito chi li ha avvicinati (Archivio Elisa Monicelli)

Giorgio Monicelli ha scritto – anche se alcune da lui firmate, a partire dal 1951, molto probabilmente non sono opera sua – decine e decine di traduzioni da opere di tutti i generi, di tutti i registri e di tutti i livelli qualitativi (ma – per quel che vale – tra gli autori si contano ben otto premi Nobel); traduzioni in grandissima parte ormai invecchiate, come è inevitabile, e non tutte «perfette» come lui vantava da giovane. Abbiamo un solo esempio di “pulce” fatta finora a una traduzione di Monicelli, proprio la più prestigiosa, Sotto il vulcano: a suo tempo l’anglista Claudio Gorlier notò che «Ferris Wheel è diventato in italiano Via Ferris. Come si spiega, dice Gorlier, se non arguendo che Monicelli ha tradotto dal francese invece che dall’americano e ha scambiato roue (ruota) per rue (via)?» (g.b., Gaffes celebri, in «La Stampa», 27 febbraio 1998). Gorlier rivelava così uno dei segreti della velocità, ma anche uno dei punti deboli di un grande traduttore. Ma ancora oggi – rileva giustamente Giulia Iannuzzi (2013, 61) – «manca un’analisi delle traduzioni letterarie monicelliane, che si cimenti coi testi nell’ottica di uno studio comparatistico dettagliato».

Comunque, se, come ha scritto Vittorio Spinazzola (1985, 9), «scrittore di successo è colui che, alla prova dei fatti, ha saputo far coincidere il suo pubblico ipotetico con un pubblico reale, costituito dai frequentatori delle librerie divenuti acquirenti del libro», Giorgio Monicelli è stato uno degli scrittori di maggior successo in Italia. Ancora oggi, dopo decenni, molte sue traduzioni vengono ripubblicate e rilette, divorate dai lettori che su di esse, come sui film di suo fratello, hanno formato buona parte del loro immaginario, delle loro conoscenze e della loro lingua, ignari però del nome dell’autore della prosa che leggono.

Ringraziamenti

Desideriamo ringraziare innanzitutto, per la disponibilità e la gentilezza con cui ci hanno messo a disposizione i loro archivi e i loro ricordi, le signore Elisa e Fede Monicelli. Grazie anche alla signora Francesca Muratori, che ci ha messi al corrente della lettera del 1950 di Mutti Maglione a Monicelli in suo possesso, e al dott. Lapo Berti che ci ha mostrato il carteggio tra suo padre Luigi e Renato Poggioli. Preziosa l’assistenza prestataci nella nostre ricerche dal dott. Tiziano Chiesa dell’Archivio della Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, Milano, e dal dott. David Bidussa della Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, Milano.

Fonti

Fondi archivistici

Aame: Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori (Milano), Archivio storico Arnoldo Mondadori editore, Carteggio Arnoldo Mondadori

Aga: Istituto piemontese per la storia della Resistenza (Torino), Archivio Giorgio Agosti

Archivio privato Elisa Monicelli (Meina)

Archivio privato Fede Monicelli (Milano)

Ast, Agee: Archivio di Stato di Torino, Archivio Giulio Einaudi Editore, serie Corrispondenza con autori e collaboratori italiani, cartella 136, f. 2071, Monicelli Giorgio

Asv, Cln: Archivio di Stato di Varese, Fondo Comitato di liberazione nazionale della provincia di Varese

Asv, Questura: Archivio di Stato di Varese, Archivio della Questura, Scatola 10, cat. B1A, Fiorita Giorgio Questore; Lopomo Raffaele, commissario di P.S.

Bibliografia

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Chiavegatti 2010: Franco Chiavegatti, Nota biografica di Tomaso Monicelli, in Tomaso Monicelli. Un protagonista della cultura e della storia italiana del primo Novecento. Atti del Convegno, Ostiglia, Teatro sociale, 21 aprile 2007, a cura di Franco Chiavegatti, Mantova, Sometti, pp. 21-71

Chiavegatti e Romani 2013: L’avventura umana e artistica di Giorgio Monicelli tra l’Ostiglia di inizio ‘900 e la Mondadori di Milano, mostra documentaria a cura di Franco Chiavegatti e Maria Chiara Romani, Ostiglia, 6 ottobre – 8 dicembre 2013

Codelli 1997: Lorenzo Codelli, intervista a Mario Monicelli, in «Urania» n. 1322 (ripresa col titolo Così mio fratello inventò la fantascienza, in «La Repubblica», 30 settembre 2012; ora in http://blog.librimondadori.it/)

Compagnone 1981: Luigi Compagnone in Fantafestival 1981 (www.fanta-festival.it/archivio)

Cozzi 1981: Luigi Cozzi, Giorgio Monicelli, in Fantafestival 1981 (www.fanta-festival.it/archivio)

Cozzi 2006: Luigi Cozzi, La storia di «Urania» e della fantascienza in Italia (vol. I) L’era di Giorgio Monicelli: 1952-1961, Profondo rosso, Roma

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Di Gioia 2011: Marco Di Gioia, Fernanda Pivano mediatrice della cultura americana in Italia dagli esordi alla beat generation, tesi di laurea magistrale, Università degli studi di Milano, a.a. 2010-2011, relatrice prof. Irene Piazzoni

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Weisser 1983: Graziella Weisser, Voglio una vita alcolizzata, in «L’Europeo», 8 ottobre 1983

Interviste

Elisa Monicelli, Meina, date varie 2013

Fede Monicelli, Milano, 21 giugno 2013