di Franco Nasi
A proposito di: Chiara Elefante, Traduzione e paratesto, Bologna, Bononia University Press, 2012, p. 190, € 12,00.
Quando si parla o si legge di traduzione, è facile imbattersi in frasi sapienziali o luoghi comuni che sembrano chiudere il discorso ancora prima di cominciarlo. «Traduttore traditore» è l’adagio italiano rinascimentale forse più citato. Altrettanto proverbiali sono: «Ogni generazione vuole i propri traduttori» oppure Poetry is what is lost in translation. Quest’ultimo è attribuito all’autorevolezza del poeta Robert Frost il quale peraltro, stando a quanto scrive David Bellos (2012, 149), non avrebbe mai scritto né pronunciato questa massima. In ciascuno di questi luoghi comuni c’è del vero, ma è altrettanto vero che molti traduttori o teorici della traduzione, non senza buone ragioni, ne hanno messo in discussione la perentorietà. Così Douglas Hofstadter, in una lunga introduzione intitolata alla sua versione in inglese de La Chamade di Françoise Sagan, mette alla berlina l‘intrinseco pessimismo presente in “traduttore traditore” trovando in inglese diverse traduzioni altrettanto efficaci della paronomasia italiana (Hofstadter 2009, 18). Oppure il giovane Ezra Pound, in How I began, ritiene che è proprio ciò che non si perde nella traduzione a definire che cosa sia poesia: I resolved that at thirty I would know more about poetry than any man living […] I would know what was accounted poetry everywhere, what part of poetry was ‘indestructible’, what part could not be lost in translation (Pound 1913, 707) (Avevo deciso che a trent’anni avrei saputo di più sulla poesia di qualunque altra persona vivente […], avrei saputo che cosa era considerato dappertutto poesia, quale parte della poesia era “indistruttibile”, quale parte non poteva andare perduta in traduzione). Un altro luogo comune riguarda la nota a piè di pagina del traduttore, che è vista come un rimedio estremo all’incapacità o impossibilità di rendere nella lingua di arrivo la complessità di un enunciato o di una figura del testo fonte. Si parla così, nella migliore delle ipotesi, della nota come di una sconfitta del traduttore. Con il ricorso a questa appendice o escrescenza del testo il traduttore sembrerebbe venir meno a un assunto deontologico della professione: quello di essere invisibile, o il meno visibile possibile. In quello spazio invece prenderebbe, seppur discretamente la parola, seminascosto nei caratteri più piccoli, in fondo alla pagina o a fine capitolo. Anche in questo caso uno studioso attento alle indagini sul ruolo culturale della traduzione, Jean-Louis Cordonnier, ribalta il luogo comune e sostiene che, se utilizzata in modo non smodato, La note en bas de page (ou ailleurs) n’est pas considérée par nous comme la défaite du traducteur. Elle se situe dans la complémentation. Elle montre le non-dit et l’inconnu de l’Autre (Non consideriamo la nota a piè di pagina (o altrove) difetto del traduttore. Essa si situa nel completamento. Rivela il non detto e l’incognito dell’Altro [Cordonnier 1995, 182]). Per Cordonnier le funzioni delle note in uno scritto originale ad opera dell’autore o in un testo in traduzione ad opera del traduttore sono differenti: quelle del traduttore hanno lo scopo di dare informazioni sulla cultura dell’estraneo: Elle répond à l’incomplétude du language et à l’insuffisance des échanges culturels (Risponde all’incompletezza del linguaggio e all’insufficienza degli scambi culturali [ibid.]), evidenziando così il ruolo del traduttore come mediatore, come fautore di un’apertura verso una cultura altra che non si vuole annullare nelle norme linguistiche e culturali della lingua di arrivo. D’altronde proprio su queste colonne anche un filosofo come Gaetano Chiurazzi ha pronunciato una difesa della N.d.T.
Il saggio di Cordonnier è ripreso da Chiara Elefante che, in una monografia necessaria, ottimamente costruita, ricca di sollecitazioni e di suggerimenti per ulteriori studi, invita i lettori a considerare gli spazi editoriali in cui il traduttore prende la parola, rendendo palese, in modo più o meno esplicito, il proprio progetto traduttivo. Il titolo dello studio, Traduzione e paratesto, è incisivo e invitante, anche se – ed è questa un piccola e pretestuosa critica al volume – non indica in modo chiaro l’oggetto centrale dello studio. Meglio forse sarebbe stato Traduzione e peritesto. Un titolo così avrebbe di sicuro fatto vendere meno copie, ma sarebbe stato più vicino al centro dell’indagine.
Paratesto, peritesto, epitesto: siamo nel cuore di una delle classificazioni di Gérard Genette, che in Introduction à l’architexte (1979; tr. it. di Armando Marchi, Introduzione all’architesto, Parma, Pratiche, 1981), in Palimpsestes (1982; trad. it. di Raffaella Novità, Palinsesti. La letteratura al secondo grado, Torino, Einaudi, 1997) e, soprattutto in Seuils (1987; tr. it. Soglie. I dintorni del testo, a cura di Camilla Maria Cederna, Torino, Einaudi, 1989), definisce le categorie spaziali del testo. A questo impianto tassonomico fa riferimento Chiara Elefante nell’organizzare la propria ricerca. Mentre il paratesto indica tutto ciò che sta accanto o attorno a un testo o è in relazione diretta con esso, il peritesto e l’epitesto sono due specificazioni ulteriori, due sottoinsiemi del paratesto. Il primo è costituito dagli elementi paratestuali presenti all’interno del volume come le note, le introduzioni, le postfazioni, la quarta di copertina, le note biografiche sull’autore, le epigrafi, le fascette, le sovraccoperte ecc.; l’epitesto invece è formato dai messaggi privati o pubblici, relativi a quel testo, che compaiono all’esterno del libro come le interviste all’autore, gli epistolari, le pagine di diario ecc. Genette ha messo bene in luce quanto questi spazi siano importanti per la ricezione, l’interpretazione del testo e per il rapporto fra lettore, testo e autore, ma ha trattato solo in modo marginale la funzione di questi spazi liminari nelle opere in traduzione.
Quanto invece questi materiali siano fondamentali come fonti primarie per ricostruire una storia dell’idea di traduzione nei secoli, è ben documentato dalle numerose antologie (da Nergaard 1993 a Robinson 2002, solo per citare due fra le più note), che fanno ricorso spesso a lettere o introduzioni o note del traduttore. Stando alla classificazione di Genette, dunque, epitesti possono essere considerate l’epistola di Girolamo a Pammachio o la Sendbrief vom Dolmetschen di Lutero, peritesto il De Optimo genere oratorum, scritto da Cicerone come introduzione alla sua versione latina dei discorsi di Demostene e Eschine.
Ma molto resta ancora da indagare per quanto riguarda soprattutto l’incidenza del peritesto nella fruizione delle traduzioni in testi meno canonici, sottoposti alle leggi del mercato, quindi prodotti editoriali frutto di una collaborazione di agenti (editore, traduttore, revisore), come ad esempio nella narrativa contemporanea, dove, tra l’altro, diverse opere tradotte nelle principali lingue europee provengono sempre più di frequente da paesi culturalmente molto distanti. Per Chiara Elefante, ed è questo mi pare l’assunto centrale del suo libro, questi spazi «hanno un’importanza fondamentale nel passaggio che la traduzione consente da una cultura all’altra, perché nella loro pluralità, sono spazi ibridi, soglie che, al pari del processo traduttivo, consentono di superare il concetto stesso di frontiera» (p. 11). Sono luoghi in cui si parla del testo, che è lì accanto, in traduzione; luoghi che si presentano evidentemente come altri e in cui l’editore, il traduttore o il critico si rivolgono a un lettore culturalmente diverso da quello per cui il libro era stato originalmente scritto; luoghi eterodiegetici in cui la mediazione può essere resa esplicita e che possono dare anche indicazioni sulla personalità del traduttore.
Traduzione e paratesto apre con un’introduzione in cui si indicano i principali referenti teorici rispetto alla analisi testuale (Genette), al polisistema letterario (Even Zohar), all’analisi dei rapporti fra traduttore e editore (Cadioli), all’etica della traduzione e all’incidenza della letteratura post-coloniale in questo ambito (Spivak, Simon, Nergaard), per descrivere poi il corpus di analisi preso in considerazione. Tale corpus è composto dagli apparati peritestuali di 200 romanzi francesi o francofoni, contemporanei, dedicati a un pubblico di lettori adulti, tradotti in italiano, in un arco di tempo che va dalla fine degli anni settanta (momento in cui l’editoria sembra puntare sempre più decisamente sull’aspetto commerciale del libro) al 2010. Dei 200 romanzi analizzati «120 sono di autori francesi, 22 di autori provenienti dall’Africa sub-sahariana, 8 di autori caraibici, 30 di autori del Magreb, 10 di autori del Québec, 9 di autori belgi, e 1 di un’autrice svizzera» (p. 25).
Esplicito è anche l’obiettivo del lavoro, che è quello di ricavare dagli spazi peritestuali «alcune tendenze che concernono il modo in cui sono stati rappresentati e concepiti il processo traduttivo e il ruolo del traduttore negli ultimi trent’anni, perché se è vero che in quell’arco di tempo il mondo dell’editoria è profondamente mutato, e il ruolo e le funzioni di chi traduce hanno goduto di un lento ma continuo processo di riconoscimento e valorizzazione esterni, è altresì vero che a cambiare notevolmente è stata anche l’immagine che il traduttore ha di sé» (p. 24).
Il capitolo primo (Paratesto e interdisciplinarità), si concentra ancora preliminarmente sugli aspetti teorici, passando in rassegna gli studi sul paratesto prima e dopo Genette. In modo coerente con le più avvedute metodologie traduttologiche, l’autrice affronta il problema con uno sguardo interdisciplinare, e si premura di richiamare i contributi principali provenienti dalla sociologia dei processi culturali (e qui l’attenzione è rivolta in particolare alle nozioni di campo letterario e di habitus di Pierre Bourdieu); dalla critica letteraria (con alcune utili indicazioni bibliografiche su recenti studi o numeri monografici di riviste dedicati al paratesto o a elementi peritestuali come il titolo); dalla linguistica, soffermandosi sul contributo di Philippe Lane che già dagli anni novanta si è occupato non tanto del paratesto autoriale, come aveva fatto Genette, ma del peritesto ed epitesto editoriale, indicando per questi ambiti metodologie linguistiche d’analisi distinte. Nella seconda parte di questo capitolo teorico si affronta il complesso problema della voce del traduttore. Qui il richiamo è agli studi di Theo Hermans (1996), in particolare al saggio The Translator’s Voice in Translated Narrative, in cui, come scrive Elefante, si sottolinea come la voce del traduttore possa legittimamente risuonare «non solo all’interno del testo tradotto, ma anche in quegli spazi paratestuali, costruiti grazie all’interazione costante tra editore e traduttore, che contribuiscono a portare nelle mani dei lettori una traduzione nel senso più ampio e profondo del termine» (Elefante 2012, 54). Ugualmente cogente è il richiamo agli studi di Siri Nergaard (2009) e di Paul Bandia (2001) sull’incidenza delle versioni delle letterature postcoloniali per una nuova idea del tradurre. Qui il contributo peritestuale diventa un modo per superare l’eterna e sterile opposizione fra coppie (fedele/infedele, source oriented/target oriented, letterale/senso) che ha caratterizzato tanti studi e tante riflessioni. Scrive Bandia:
Afin d’éviter l’éternelle querelle entre souciers et ciblistes, il est de mise d’explorer la possibilité d’une troisième voie, la voie du centre (textual middles; the space in-between) susceptible de rendre compte des écarts (inhérents à la langue et à la pratique littéraire) souvent négligés, exagérés ou assimilés, dans tout acte de traduire qui s’appuie sur des théories normatives ou prescriptivistes en traductologie. Il faut accorder à l’éthique de la différence sa juste place dans la théorie et tenir compte des questions de la position traductive (translation position, ethics of location) et du contexte global d’échange culturel (Bandia 2001, 136-7).
Al fine di evitare l’eterna disputa tra chi si rivolge al testo fonte e chi al lettore, è d’obbligo esplorare una terza via, la via di mezzo (textual middles; the space in-between) in grado di dar conto degli scarti (inerenti alla lingua e alla pratica letteraria) spesso trascurati, esagerati o assimilati, in ogni atto dl tradurre che si fondi su teorie traduttologiche normative o prescrittive. Occorre attribuire il suo giusto posto nella teoria all’etica della diversità e tener conto delle questioni della posizione traduttiva (translation position, ethics of location) e del contesto globale dello scambio culturale. </blockquote>
Il passaggio ci sembra cruciale per comprendere l’operazione complessiva di Chiara Elefante e il senso che uno studio del peritesto può avere nelle odierne ricerche sulla traduzione. Non si tratta qui di avere una testimonianza della riflessione del traduttore sul suo lavoro, cosa che avviene ormai sempre più frequentemente con opere letterarie autonome, in cui il traduttore parla soprattutto della propria personale esperienza culturale o esistenziale che ruota attorno al mestiere di traduttore. Non è cioè un’opera autonoma, come ad esempio l’ultimo romanzo autobiografico di Massimo Bocchiola (2015). Il peritesto diventa parte integrale del testo tradotto, è lo spazio liminale che consente che l’opera che abbiamo davanti sia il testo in sé ma anche altro. In questo ulteriore spazio di mediazione il traduttore (o la comunità di operatori editoriali che lavorano alla realizzazione del romanzo nella nuova veste) prende la parola, e indica nei glossari, nelle note a piè pagina, nelle prefazioni ecc. ciò che culturalmente è non riducibile. Scrive Chiara Elefante:
Questa visione della traduzione come presa di parola profondamente politica, così lontana dalle prime riflessioni che consideravano il tradurre un atto principalmente linguistico, sono un’ulteriore, finale conferma, dell’apertura interdisciplinare adottata sia dagli studi sul paratesto che da quelli sulla traduzione, e, a maggior ragione, da quelli sul paratesto in traduzione (Elefante 2012, 58).
I capitoli secondo e terzo costituiscono la descrizione della parte di ricerca sul corpus. L’autrice procede in modo molto sistematico muovendo da un’analisi della collana in cui i testi sono pubblicati, che è «molto più di una veste grafica o di una classificazione tematica» (Ivi, 59), per affrontare poi il problema assai complesso della traduzione del titolo. Ampio spazio è dedicato alle pre(post)fazioni, a volte semplicemente riprese da prefazioni presenti nel testo originale, a volte firmate dai traduttori, a volte da critici autorevoli della cultura di arrivo. Analizzare il ruolo che questi peritesti hanno nella ricezione del testo e la relazione che si stabilisce fra questi scritti e il testo tradotto può essere luogo di interessanti considerazioni sulla politica culturale o le strategie censorie di un particolare momento storico. In Italia abbiamo esempi paradossali di incongruità tra prefazione e operazione traduttiva, peraltro assai significativi per comprendere le tensioni culturali di un’epoca: prima fra tutte la vicenda editoriale di Americana di Vittorini che, in piena seconda guerra mondiale, per superare la censura fascista ebbe bisogno di una prefazione scritta tutta in chiave antiamericana da Emilio Cecchi. Elefante, nell’analizzare il corpus di pre(post)fazioni ai romanzi francesi o francofoni in traduzione italiana, ne individua anche diverse tipologie: contestualizzante, dialogica e interculturale, partecipativa, informativo-descrittiva, addomesticante. Non è un caso che statisticamente risulti che «gli spazi riservati al traduttore sono maggiori per le opere provenienti da culture e letterature meno conosciute» (p. 108).
Oggetto di studio diventano poi la nota a piè pagina del traduttore, il glossario, la quarta di copertina. Di nuovo l’analisi del corpus mostra come questi elementi peritestuali negli ultimi anni vengano utilizzati meno saltuariamente, come se i traduttori si fossero «”liberati” dal fantasma della doxa traduttiva sistematica» che tende a giudicare negativamente «le note a priori, senza esaminarne il contenuto o l’effettiva necessità rispetto al testo tradotto» (p. 130). Di nuovo viene ribadita dall’autrice la tendenza, anche attraverso l’utilizzo del peritesto, al superamento delle coppie oppositive:
L’analisi del corpus ci permette anche di dire che attualmente la pratica traduttiva sembra andare al di là della tendenza classica tra sourciers (orientati al testo fonte) e ciblistes (orientati al lettore). Nelle note analizzate infatti non si può parlare di atteggiamento traduttivo che lascia interamente all’Altro il suo segreto feticizzandolo, né di atteggiamento che lo banalizza, visto che nella maggior parte dei casi la nota è inserita proprio nel tentativo di prestare attenzione alla lettera e alla lingua dell’Altro (p. 131).
Sempre dall’analisi del corpus risulta che le note del traduttore non sono scritte tanto per giustificare una scelta o per confessare un fallimento o peggio ancora una mesta resa di fronte all’impossibilità del tradurre. La loro funzione sembra essere meno apocalittica, eppure assai più feconda. Scrive Chiara Elefante:
Essere coscienti della finitudine del processo traduttivo significa sapere, e testimoniarlo al lettore, che la traduzione si fa hic et nunc, all’interno di società e culture storicamente definite, e che è necessario attribuire all’etica della differenza il suo giusto ruolo, tenendo contemporaneamente in considerazione il contesto globale degli scambi culturali (Ibid).
Nel libro è riportata una famosa citazione di Dominque Aury, autrice di Histoire d’O e traduttrice dall’inglese, in cui si sostiene che tradurre i termini inglesi scone e muffin con petit pain – ovvero, in italiano, «panino» – non è per niente una traduzione. Che fare allora? Mettere una nota con tanto di ricetta e modalità d’uso? La note en bas de page est la honte du traducteur (La nota a piè di pagina è l’onta del traduttore): così conclude il suo ragionamento Anne Desclos, alias Dominique Aury, regalandoci un’altra frase sapienziale e un altro luogo comune. Forse, come invece ci insegna il bel libro di Chiara Elefante, la vergogna più grossa di un traduttore è quella di pensare di essere al di fuori del tempo e dello spazio.
Riferimenti bibliografici
Bandia 2001 : Paul Bandia, Le concept bermanien de l’ “Étranger” dans le prisme de la traduction postcoloniale in «TTR», 2, pp. 123-139.
Bellos 2012: David Bellos, Is that a fish in your ear? Translation and the meaning of everything, New York, Faber and Faber.
Bocchiola 2015: Massimo Bocchiola, Mai più come ti ho visto, Torino, Einaudi.
Cordonnier 1995 : Jean-Louis Cordonnier, Traduction et culture, Paris, Hatier.
Elefante 2012: Chiara Elefante, Traduzione e paratesto, Bologna, Bononia University Press.
Hermans 1996: Theo Hermans, The translator’s voice in Translated Narrative, in «Target», 1, pp. 23-48.
Hofstadter 2009: Douglas Hofstadter, Translator, Trader. An Essay on the Pleasantly Pervasive Paradoxes of Translation, in Françoise Sagan, That Mad Ache, transl. by Douglas Hofstadter, New York, Basic Book, pp. 1-100.
Nergaard 1993: Siri Nergaard, La teoria della traduzione nella storia, Milano, Bompiani.
Nergaard 2009: Siri Nergaard, Cosa significa traduzione oggi? In Rosa Maria Bollettieri Bosinelli e Elena Di Giovanni (a cura di), Oltre l’Occidente: traduzione e alterità culturale, Milano, Bompiani, pp. 479-518.
Pound 1913: Ezra Pound, How I Began, in «T.P.’s Weekly», XXI, 552, 6 June.
Robinson 2002: Douglas Robinson, Western Translation Theory, Manchester, St. Jerome.