Esercizi di rima

UNA QUARTINA DI YVES BONNEFOY E QUALCHE PARADOSSO

di Valerio Magrelli

1. Sul fenomeno della rima

ESERCIZI DI RIMADi tanto in tanto, anche tra il grande pubblico, torna a guizzare per un istante il verso classico, questo autentico fossile espressivo. Al di là del linguaggio elaborato per slogan o réclames, le suggestioni di un’arte antiquaria come la metrica riemergono talvolta improvvise. Anche se in forma completamente diversa, lo stesso era successo nelle sale cinematografiche con due opere quasi contemporanee: L’attimo fuggente, del 1989, e Cyrano de Bergerac, del 1990. Il primo, diretto da Peter Weir, e tutto animato dall’ampio respiro lirico di Walt Whitman, si intitolava Dead Poets Society, cioè «il circolo dei poeti morti» (così il titolo originale), e narrava della rivolta giovanile contro un mondo governato dal calcolo, dall’ordine, dal conformismo. Protagonista è un insegnante, in grado di scatenare la forza anarchica e romantica della lirica contro le leggi di un potere “prosaico”. Prosa contro poesia, dunque, ma in un duello in prosa, dove è la prima a scegliere le armi, ossia la lingua parlata dai personaggi.

Nel Cyrano cinematografico di Jean Paul Rappeneau la lotta è la medesima ma i mezzi risultano invertiti: qui lo scontro si svolge per intero sotto l’egida del metro e della rima. Abbandonatosi fiducioso a un film di cappa e spada, a un racconto d’amore, a un colossal in costume, il pubblico rimane interdetto sin dalla prima scena. «Come stanno parlando?» ho sentito esclamare qualcuno. La voce veniva da un gruppo di ragazzi che, evidentemente, non aveva mai avuto occasione di sentire recitare in versi. Messi di fronte a una lingua totalmente artificiale, quegli spettatori cercarono di assuefarsi al suo gioco ritmico. Forse molti di essi avranno ascoltato per la prima volta un’opera in versi. Che effetto avrà fatto loro la strana musica degli alessandrini, mi chiedevo stupito, o meglio, la traduzione di Oreste Lionello in doppi settenari, il cosiddetto martelliano? La risposta arrivò folgorante, da un ragazzo che finalmente spiegò agli amici: «Ah! ma adesso ho capito! E’ una specie di rap!»

Nemmeno un metricologo avrebbe saputo rispondere con tanta precisione. Un pubblico del genere, cresciuto tra telequiz, videoclip e spot, e pertanto ignaro di quelle forme metriche che pure pullulano un po’ ovunque, dalle canzoni ai titoli dei giornali, per non dire della réclame, poteva interpretare il fenomeno solo in un modo: riportando l’ignoto (l’antico teatro in versi) al noto (la scansione della musica giovanile). Poiché, in un certo senso, proprio di un rap si tratta, dell’ultimo rap di una tradizione secolare, posto che, come sostenne Albert Thibaudet, Cyrano celebrò, del teatro in versi, «i funerali solenni e i sontuosi riti funebri» (Thibaudet 1967, 529). Per questo, estremo prodotto di quel genere letterario culminato nella grande stagione drammaturgica del classicismo francese, il testo di Rostand costituisce un vero e proprio canto del cigno.

Piccolo corollario. Vissuto in una casa traboccante di libri, mio figlio si è tenuto ben lontano dalla letteratura e soprattutto dalla poesia. Seguivo con dispiacere, ma insieme comprensione, le fasi di tale necessaria differenziazione (come avviene nella mitosi, ossia il processo in cui la cellula genitore si divide in due o più cellule figlie). Finché, un bel giorno, eccolo venire a chiedermi se avevo per caso un rimario. Ce l’ho, rispondo, ma non per caso, anzi, ne ho addirittura tre: ma a che ti serve? Naturalmente la risposta fu la stessa della scena vista al cinema. Facendo parte di un gruppo di musica rap, il primogenito non poteva fare a meno del suo strumento principe. In breve, il mio Cristoforo Colombo era arrivato alla metrica partendo dal reggae. Quando si dice buscar el Levante por el Poniente!

Conclusa questa digressione sul tema, andiamo ora a una quartina “infantile” di Bonnefoy. Fiaba o bestiario, nonsense o filastrocca, certo è, lo vedremo fra poco, che alla base del testo sta un unico elemento portante: quello che i vocabolari definiscono nei termini di «identità di suono, a partire dalla vocale accentata, fra due o più parole, più frequentemente poste a fine verso», o altrimenti detto, quel «fenomeno che si produce nel caso di omofonia perfetta di due parole a partire dalla vocale tonica inclusa». Si è pronunciato il nome «filastrocca». Ebbene, usando questa parola in senso tecnico, Camillo Sbarbaro si riferì a tali composizioni come a testi «alla mercé della rima, tenute in sesto dal verso» (citato in Dossena 2004, 91): parole impeccabili per illustrare la nostra quartina.

Dedichiamoci dunque alla capacità, caratteristica della rima, di tenere in sua «mercé» un’intera poesia. In effetti, se questo miracolo acustico ha fatto versare fiumi d’inchiostro, è innanzitutto per la sua inesausta vitalità – non per niente, c’è addirittura chi ha parlato al riguardo di un autentico tropismo erotico (Meyer 1976). Dalla capricciosa scherma (éscrime”) della rima (rime), a sua volta messa in rima da Baudelaire, fino al nietzschiano ritorno del suono, poeti e critici non hanno cessato di interrogarsi (magari per bandirlo) su questo effetto verbale in cui senso e suono si legano tanto indissolubilmente quanto arbitrariamente. Quest’ultimo avverbio si trova al centro di An Evening of Russian Poetry, una straziante lirica di Nabokov dedicata appunto alla rima come impronta digitale, inconfondibile marca identitaria di una lingua, e quindi molto spesso stemma stesso dell’intraducibilità. Sullo sfondo dell’antica credenza che Platone assegnò al personaggio di Cratilo (persuaso che fra una cosa e il suo nome esistesse una parentela necessaria e originaria, smarritasi nel corso dell’evoluzione linguistica), ecco la strofa in questione:

The rhyme is the line’s birthday, as you know,
and there certain customary twins
in Russian as in other tongues. For instance,
love automatically rhymes with blood,
nature with liberty, sadness with distance,
humane with everlasting, prince with mud,
moon with a multitude of words, but sun
and song and wind and life and death with none.

La rima è il compleanno del verso, si sa,
e da qui certi abituali gemelli
in russo come in altre lingue. Ad esempio,
amore rima automaticamente con sangue,
natura con libertà, tristezza con distanza,
umano con perenne, principe con fango,
luna con una moltitudine di parole, ma sole
e canto e vento e vita e morte con nessuna (Nabokov 1962, 91)

Senza allargare troppo i confini del discorso, qui basti rilevare l’importanza di un simile fenomeno all’interno del processo traduttivo. Al di là di polemiche ormai secolari, rimane il fatto che talvolta «l’uso della rima avrebbe ragioni tanto vitali nell’economia del testo da doversi imporre anche nella traduzione». Questo giudizio di Giuseppe Bevilacqua (2008a, 11), relativo ad alcune versioni da Gottfried Benn, può essere integrato da un’altra sua notazione: «Se la rima […] ha […] una funzione essenziale e non accessoria, allora il traduttore deve sapere che, rinunciando a riprodurla, priva il testo di una componente necessaria a mediarne non puramente la forma, ma lo stesso significato” (Bevilacqua 2008b, 109). Certo, precisa il germanista, il suo mantenimento non è un dogma della traduzione poetica; al contrario, esso si impone soltanto in pochi casi specifici. Tuttavia, una volta stabilito, esso comporta inevitabilmente qualche compromesso, sia in ordine alla letteralità della traduzione, sia al metro:

Il compromesso in ordine alla fedeltà al testo ha un limite alquanto soggettivo perché si modula sull’interpretazione. Uno scostamento dal nucleo denotativo dell’espressione originale può essere legittimo solo se si configura quella che chiamerei “una variante non d’autore”, ossia se rispetta ed esplicita l’alone connotativo che avvolge quel nucleo (Bevilacqua 2008, 114-15).

È  appunto sulla base di tali presupposti che andrà letto, e successivamente tradotto, il testo che si è scelto come esempio.

2. Ossa, carrozze, albatros, mammiferi: analisi del testo

E finalmente siamo giunti in porto, per contemplare un’incantevole quartina che Yves Bonnefoy compose qualche anno fa per l’infanzia. Intorno al 2009 alcuni allievi della scuola Hermannsburg di Brema, piccoli redattori del giornalino «Das Nashorn» (il rinoceronte), chiesero a diversi autori, tedeschi e non, di prendere parte a una sorta di giostra poetica. Bonnefoy rispose con una quartina scherzosa, ma degna di nota per vari motivi, a cominciare dal fatto che, caso decisamente raro nella sua poesia, rappresenta una composizione monorimica. D’altronde, la peculiarità dell’avvenimento è rimarcata (e graficamente sottolineata) dallo stesso autore, il quale, nel breve bigliettino di accompagnamento in data Paris, 25 décembre 2009 stilato sulla carta da lettere intestata «Collège de France. Etudes comparées de la fonction poétique», precisa: C’est là quelque chose que je ne fais jamais! (Si tratta di qualcosa che io non faccio mai!). A dissipare ogni dubbio, ecco poi risuonare addirittura il punto esclamativo, sigillo di una performance pressoché unica nella produzione di uno scrittore che ha saputo spaziare dalla storia dell’arte a quella della letteratura, dalla saggistica alla traduzione (Shakespeare in primis), su su fino alla stesura di alcuni magistrali interventi sul tema stesso del tradurre.

Ma veniamo all’analisi dei quattro octosyllabes, da non confondere, mai!, con gli “ottonari” utilizzati là «dove il sì suona». Data la profonda differenza fra metrica francese e metrica italiana (una legata al numero delle sillabe, l’altra all’ultimo accento del verso), ritengo che sia sempre preferibile conservare le due rispettive terminologie, onde evitare indebite sovrapposizioni lessicali – come parlare, horribile dictu, di alessandrini italiani o settenari francesi. Ciò detto, vediamo dunque questo poeta affrontare con ironia, diligenza e inventiva il genere, bimbesco per eccellenza, della filastrocca rimata e metricamente formalizzata:

J’aime bien ce rhinocéros
Qui se croyait un albatros.
Il ne voyageait qu’en carrosse…
On en a retrouvé un os.

Conoscendo il committente e destinatario della sollecitazione (un gruppo di bambini per un giornale scolastico), la poesia risulta facilmente rubricabile nella categoria dei nonsense. Composto da quattro versi senza enjambement, l’esercizio ludico si apre con una confessione bislacca. Infatti, dopo aver espresso la propria passione per “quel” particolare pachiderma (segnalato tramite il ricorso alla deissi), l’autore, come in ogni fiaba che si rispetti, ci rivela una sorpresa. Proprio lui, il rinoceronte, emblema della pesantezza terrestre, pretenderebbe infatti d’essere un albatros. (Inciso: se il testo dice «credeva», ossia croyait, invece di «crede», cioè croit, è soltanto perché entrambe le lingue, nel passaggio dal presente in passato, acquistano una sillaba, unità evidentemente indispensabile al completamento del metro). Mentre l’evocazione del quadrupede africano suggeriva inevitabilmente il nome di Ionesco, il riferimento al grande volatile atlantico comporta un inevitabile rinvio all’omonima lirica di Baudelaire – parodiata, fra i tanti, da Raymond Queneau. Fine della prima parte, e inizio della seconda, diversa dalla precedente perché composta, invece che da un distico, da due periodi di un verso ognuno.

Sul primo, non c’è molto da aggiungere, oltre che rimarcare la “solita” stranezza da bestiario. Veniamo a sapere, difatti, che il nostro animale si spostava (circa l’uso del passato verbale, vedi sopra l’esigenza di natura sillabica) “esclusivamente” in carrozza… Facile immaginare la rassegnazione della povera creatura, che pure avrebbe ambito volare sopra i mari! Quanto alla chiusa, invece, tutto cambia, e Bonnefoy, con una crudeltà tanto inattesa quanto in effetti tipica del favolista, getta un’ombra drammatica sull’intera quartina. Di punto in bianco, cioè, veniamo a sapere, che il nostro eroe è defunto, morto e seppellito: anzi, il suo stesso scheletro è scomparso. Per meglio dire, della potente belva, della sua carogna, non è rimasto che un osso, a mo’ di reliquia.

Prima di affrontare il compito di tradurre la quartina francese in rima e metro, secondo quanto pocanzi illustrato, iniziamo col proporre una semplice traduzione di servizio (in realtà, come qualsiasi traduzione, nient’affatto semplice e nient’affatto di servizio, ma tant’è):

Amo assai quel rinoceronte
Che si credeva un albatros.
Viaggiava soltanto in carrozza…
Se ne è ritrovato un osso.

Nella sua desolata povertà, questa versione si rivela illuminante. Infatti, il semplice trasporto “parola per parola”, pur rispettando la sostanziale corrispondenza dei significati, non conserva più nulla del testo originario in quanto a effetto metrico, rimico, ritmico. Nulla poiché, per riprendere Sbarbaro, le filastrocche vivono appunto in quanto, completamente «alla mercé della rima», sono «tenute in sesto dal verso». Togliete l’architrave, carpentieri, per dirla con J. D. Salinger, e tutto viene giù… Proviamo allora a ricostruire la casa del testo, iniziando da quelle che abbiamo visto costituire le sue strutture portanti.

3. Qualche criterio operativo

Una volta terminata la nostra sommaria analisi della poesia, ovvero dopo aver individuato le sue linee architettoniche (per riprendere l’analogia edilizia), è venuto il momento di esplicitare l’orientamento che vogliamo imprimere alla traduzione. La quartina ha per protagonisti due animali. In pieno Novecento, il poeta francese Saint-John Perse compose un testo in versi, Quatre charmants (Quattro affascinanti), per descrivere, in una scrittura intensa e assorta, altrettanti cammei verbali su toro, trota, serpente ed allodola. Niente di più lontano da questo divertissement di Bonnefoy, che evoca sì una coppia di bestie, ma giusto per sottolineare l’incommensurabile distanza che le divide. Perché, in effetti, cosa hanno a che fare tra loro un rinoceronte e un albatros?

La risposta va data da un francese, magari da un francese lettore di Nabokov, ossia tanto avvertito da risponderci per le rime, ribattendo semplicemente: «La rima». Cedendo all’esercizio ludico propostogli dai giovani studenti, l’autore, infatti, parte dalla catena rhinocéros-albatros (stessa pronuncia finale dell’italiano “os”) e la completa, sempre rispettando l’octosyllabe, con carrosse e os (che al singolare si pronuncia così come lo leggeremmo noi). Continuando con gli accostamenti impertinenti, potremmo allora menzionare, dopo il raffinatissimo Saint-John Perse, l’ermetico Mallarmé, creatore del leggendario Sonetto in x, la cui prima redazione si intitolava non a caso Sonnet allégorique de lui-même (Sonetto allegorico di se stesso). Dopo aver perso un titolo tanto impegnativo, la seconda e definitiva stesura si indica oramai con il primo verso: Ses purs ongles très haut dédiant leur onyx. Ad ogni modo, l’attuale denominazione del sonetto dipende dalle rime, che appaiono ai versi 1, 3, 5, 7, 11 e 13 (per i più curiosi, le parole convocate sono rispettivamente onyx, Phénix, ptyx, Styx, nixe, se fixe). Naturalmente sarebbe a dir poco eccessivo rifarsi a un precedente simile per chiamare la composizione di Bonnefoy Quartina in os, ma in buona sostanza, ammettiamolo, il gesto non sarebbe poi così scorretto. Ad ogni modo, eccoci arrivati al nodo della questione: come tradurre la nostra poesia?

Da quanto si è detto, risulta evidente come l’unica resa plausibile non potrà essere che monorimica, così da cogliere all’interno del testo la sua «informazione dominante» (Nasi 2015, 112). E’ questo, per inciso, il fattore critico e interpretativo che ogni traduzione include e cela, per quanto limitato esso possa essere. Una volta impostato il programma da seguire (rima unica), passiamo alle sue possibili soluzioni. Tutte le difficoltà nascono dal fatto che, come potrebbe dire Nabokov, il francese è quella lingua in cui è possibile la rima fra parole quali rhinocéros e albatros. Di conseguenza, sul piano del significato, i rispettivi referenti scoprono una inattesa, incongrua parentela. Ora, visto che in italiano ciò non è consentito (al punto che una delle sue definizioni potrebbe anzi essere quella di “lingua in cui le parole che indicano gli animali ‘rinoceronte’ e ‘albatros’ non rimano”), saremo costretti a trovare un’alternativa.

Indubbiamente l’ideale sarebbe stato produrre quattro testi, ognuno dei quali retto da una delle quattro diverse rime presenti nella traduzione di servizio, ovvero “rinoceronte”, “albatros”, “carrozza” e “osso”. Qui interviene però una scelta arbitraria: vuoi per esigenze materiali (evitando cioè di mettere troppo alla prova la pazienza di questo già pazientissimo lettore), vuoi per motivi linguistici (da un lato la difficoltà della rima in -os pertinente allo stesso volatile in italiano, dall’altro la prevedibile goffaggine della rima in -ozza, con buona pace del nostro migliore opinionista politico), si è preferito limitare la scelta a quanto suggerito dal primo e dall’ultimo verso. Seguiremo pertanto solo due dorsali rimiche, la prima in -onte, la seconda in -osso.

4. Prima soluzione rimica: spazio al rinoceronte

Non sono molti i lettori cui è capitato di sfogliare un rimario. Già il semplice fatto di capire il criterio che guida l’ordinamento delle parole, risulta di per sé piuttosto inusuale. Anche andando sul web, bisogna sapere che, per trovare una rima in italiano, occorre impostare la ricerca a partire dall’ultima sillaba accentata. Dato per scontato tutto ciò, passiamo dunque alla prima opzione, che vede la ricerca in -onte, per “rinoceronte” – non senza ricordare come una simile mossa appaia di fatto irrinunciabile per una poesia destinata a un giornalino di bambini intitolato per l’appunto “Das Nashorn”. Una volta individuata la serie completa di rime, la mossa successiva consisterà nell’evidenziare i termini passibili di un qualche impiego, scartando quelli presumibilmente inservibili. Domanda inevitabile: come possiamo sapere in anticipo ciò che ci servirà in seguito?

Si tratta di una scelta nient’affatto ovvia, che ci porta a affrontare ciò che potremmo definire una specie di “paradosso del traduttore”. Il postulato, infatti, sembrerebbe contraddittorio, simile a una petizione di principio: come faccio a sapere in anticipo ciò che mi servirà in seguito? Sotto certi aspetti, tale particolare posizione logica rinvia al concetto di serendipità (neologismo per indicare la fortuna di scoprire qualcosa per caso, imbattendosi in un risultato imprevisto mentre se ne stava cercando un altro). A rigore, però, qui il problema è lievemente diverso. In questo caso, infatti, il traduttore dovrà cercare di pre-vedere quale parola potrà presumibilmente interessargli, e tutto ciò, ecco in cosa consiste il paradosso, ignorando l’esito finale delle proprie ricerche, cioè la versione finale cui porteranno i suoi sforzi – salvo, evidentemente, ritornare alla lista per una ulteriore lettura.

Ma analizziamo direttamente l’esempio relativo alla nostra prima opzione. Prevedendo di escludere dal campo semantico del testo “a venire” (Maurice Blanchot docet) possibili richiami a voci quali Acheronte, Anacreonte, anodonte, aplodonte, arconte nonché Aspromonte, il traduttore potrà viceversa trovare qualche interesse per Automedonte.

Il perché è presto detto: questo nome proprio, appartenente all’auriga di Achille durante la guerra di Troia, è diventato per antonomasia sinonimo di cocchiere e infine autista. Ora, in una quartina volta a descrivere qualcuno che “viaggiava soltanto in carrozza”, il motivo della preferenza salta agli occhi. Sia pure per motivi diversi, lo stesso vale per gli altri termini in rima quali conte, dronte, Fetonte, fonte, fronte, impronte, monte, orizzonte, ponte e scazonte. Non è assodato che possano essere utili, ma tuttavia si impongono immediatamente per una sorta di loro potenziale fruibilità. Insomma, qui il traduttore fa la spesa, e porta a casa gli ingredienti che ritiene possano eventualmente servirgli in vista del piatto programmato. Non li userà tutti, ovviamente, ma non esclude che se ne possa giovare. Escludendo il primo verso in –onte (il rinoceronte “matrice”), risulta dunque che, per cercare le tre soluzioni ulteriori, la quartina monorimica avrà a disposizione undici candidati: automedonte, più i dieci appena citati. Ebbene, se fino a questo momento il traduttore si è mosso in base a un preciso protocollo, adesso entra in ballo quel gioco di attrazione e repulsione ricostruito da Hofstadter nell’applicare alla nascita degli anagrammi la sua teoria degli «aggregati sfarfallanti». Invece di anagrammi, cerchiamo rime, ma il paradigma mentale non è poi così diverso. Considerata l’impressionante vicinanza di significati in cui ci siamo imbattuti ad apertura di elenco con il citato «automedonte» (vero e proprio regalo della rima, pensando a Valéry che definiva il primo verso un «dono degli dei»), tanto vale cominciare proprio da lì. Il che ci consente intanto di ottenere la prima coppia di versi:

Amo davvero quel rinoceronte,
[…] Viaggiava con un suo automedonte…
[…]

Ecco scattata, improvvisa, l’attrazione. Al francese di Bonnefoy, che presenta la rima rhinocéros-carrosse, l’italiano risponde con l’abbinamento rinoceronte-automedonte. Possiamo dire di aver operato metonimicamente, sostituendo cioè il mezzo di trasporto (la carrozza) con il suo conducente (il vetturino). Procedimento improprio? Mica tanto. Versione un po’ azzardata? Per fortuna ci viene di nuovo in aiuto Bevilacqua, secondo cui dovrebbe essere riconosciuto al traduttore una «sorta di diritto alla metonimia», laddove «la trasposizione non lede una primaria intenzione dell’autore». Buono a sapersi. Per ora, almeno, l’economia del testo (Franco Nasi ha parlato di una sua «ontologia») non sembra gravemente violata. Sia chiaro: i difetti non mancano, dall’introduzione abusiva di un nome proprio, alle sue pesanti ipoteche mitologiche, del tutto estranee all’atmosfera giocosa della quartina. Ancora più grave, poi, l’obiezione relativa alla funzione originaria della poesia, vale a dire quella di essere pubblicata e letta da bambini. Cosa rispondere? Sarà l’occasione buona per raccontare loro una nuova storia, insegnando al contempo un nuovo nome. D’altronde, ogni versione, in ultimo, è una scala, che invita il lettore ad aggiungere nuovi gradini per salire più in alto.

Tornando però alla quartina, qui viene il difficile: riserve a parte, non possiamo mica contare sempre su certi prodigi! L’importante è tenersi stretti all’originale, ripercorrerne continuamente i componenti, e nel frattempo traguardare i materiali che offre l’italiano, debitamente filtrati, facendoli galleggiare, tenendoli in sospensione, aspettando che, fra queste due nebulose, finisca per stabilirsi un qualche contatto – e qui diventa difficile non pensare al brodo primordiale (vedi l’esperimento di Miller-Urey nel 1953), colpito da qualche folgore, e dunque improvvisamente “acceso”, ossia predisposto alla riproduzione cellulare… Vedo così balenare un’altra pista. Da un lato so che l’ultimo verso di Bonnefoy recita: On en a retrouvé un os, dall’altro (dopo l’impiego di «automedonte»), dispongo ancora dei dieci termini in rima precedentemente selezionati “alla cieca”: conte, dronte, Fetonte, fonte, fronte, impronte, monte, orizzonte, ponte e scazonte. Anche se la scintilla è meno vivida, e assai più faticosa da far brillare, l’osso del rinoceronte mi fa pensare al suo corno, posto sul muso, e per associazione (sia pure indebita) a quello che il liocorno porta in fronte. Da qui l’idea di attribuire la reliquia superstite proprio a quella parte del suo corpo:

Amo davvero quel rinoceronte,
[…] Viaggiava con un suo automedonte…
Ne hanno trovato un osso della fronte.

Indubbiamente, più che a una traduzione, ora siamo di fronte a una riscrittura (se vogliamo, anche anatomica). L’autore, infatti non aveva alcun bisogno di specificare l’origine del reperto, visto che, nella lingua di Bonnefoy, «osso» (os) rima da sé con «rinoceronte» (rhinocéros) e dunque con «carrozza» (carosse). Facendo un passo in più, e passando dalla parte del poeta francese, potremmo anzi affermare che la sua scelta è stata solo dettata dalla rima. Ma gli italiani, per ottenere una qualche corrispondenza nel loro sistema lessicale, la devono inventare/trovare: mai come in questo caso va sottolineato l’etimo latino del termine. Da qui l’idea di specificare la provenienza della reliquia animale: non «osso» e basta, quindi, bensì “osso della fronte”. Col che siamo arrivati all’ultimo verso.

Riepilogando, sappiamo di dover tradurre, sempre in un endecasillabo ma soprattutto con una rima in –onte, un verso che recita: “Che si credeva un albatros”. Ci troviamo cioè all’intersezione fra due esigenze: da un lato la necessità di segnalare la presenza di un uccello, dall’altro l’obbligo che ciò avvenga rispettando la rima prefissataci. Ebbene, se partiamo con l’idea di trovare un sinonimo al volatile indicato da Bonnefoy, ripassando le nove voci residue, la scelta risulta immediata. Tra conte, dronte, Fetonte, fonte, impronte, monte, orizzonte, ponte e scazonte, solo il secondo e terzo nome potrebbero fare alla bisogna: uno perché riferito a un uccello vero e proprio, l’altro in quanto appartenente all’unico uomo dell’antichità capace di volare. Ma le buone notizie finiscono qui. Infatti, Fetonte si librava in aria, sì, ma con i cavalli del padre Apollo. Quanto al dronte (o dodo), si tratta sì di un uccello columbiforme dell’isola di Mauritius, ma inetto al volo (quando si dice la sfortuna lessicale!), e perciò addirittura opposto alla solenne, possente figura dell’albatros. Come se non bastasse, su entrambi i contendenti grava un destino tragico: mentre Fetonte muore poche ore dopo aver preso la guida del carro solare, il dronte si estinse nella seconda metà del XVII secolo in seguito all’arrivo dei portoghesi e degli olandesi.

E allora? Allora il traduttore in cerca di rime dovrà cambiare strada, e abbandonare i tentativi di agire per via sinonimica. Teniamoci il termine «albatros» o un suo equivalente, ma togliamolo dalla posizione finale, spostandolo cioè all’interno del verso. Torniamo poi al gruppetto delle parole rimaste: a parte le ultime due, appena scartate, dovendo cercare attinenze con il volatile atlantico, si impone adesso, fra le otto rimanenti, il sostantivo «orizzonte» – magari dopo qualche ennesimo retropensiero baudelairiano, questa volta in rapporto al «ponte» di una nave… Da qui la proposta che segue:

Amo davvero quel rinoceronte:
albatros si credeva, all’orizzonte.
Viaggiava con un suo automedonte…
Ne hanno trovato un osso della fronte.

Avendo tolto per questioni metriche il pronome «che» con cui si apriva il secondo verso, abbiamo dovuto introdurre i due punti a chiusura del primo. Un’alternativa possibile sarebbe stata quella di conservare il pronome, sostituendo però, sempre per questioni metriche, il sostantivo «albatros», e ottenendo così: «che si credeva uccello all’orizzonte». Ma a questo punto entrano in gioco i gusti, ossia le valutazioni personali del traduttore, che oltretutto ci offrono l’agognata possibilità di chiudere finalmente questo capitolo.

5. Seconda soluzione rimica: il richiamo dell’osso

T’amo, rinoceronte grande e grosso,
Benché tu ti ritenga un pettirosso.
Si muoveva in carrozza, paradosso!
Adesso ne hanno ritrovato un osso.

Passando adesso alla seconda soluzione, basata sulla rima in –osso, seguiamo il percorso inverso rispetto al precedente: partiamo dalla traduzione finale, per ricostruirla a posteriori. Sulla base dell’explicit, o chiusa, da cui viene tratta la chiave delle rime (in senso musicale), il primo verso segue lo stesso criterio di quello che abbiamo appena analizzato per le rime in –onte. Scartata la possibilità di trovare sinonimi dell’animale protagonista, abbiamo fatto retrocedere il nome dell’animale all’interno del verso, affidandoci a un’espressione idiomatica, e dunque “neutra”, che ben si attaglia alla sua mole: un «grande e grosso», potremmo dire, che, come ogni zeppa che si rispetti, non reca alcun disturbo. Bisognerà piuttosto sottolineare come, a un lettore italiano, l’incipit richiami immediatamente un altro mammifero e un altro autore, ovvero il bue di Giosuè Carducci. Ma sono interferenze esplicite e tutto sommato tollerabili.

Più problematico il secondo verso, e ciò non tanto per la congiunzione testuale «benché» (con valore avversativo-limitativo), quanto per lo scambio, davvero azzardato, fra due tipi di volatili diversissimi fra loro. Pur non avendo a che fare con un auriga incapace o con un dodo inabile al volo, lo scarto fra albatros e pettirosso risulta effettivamente enorme. L’unica ragione che ci permette di accettarla, risiede nella natura di non-sense caratteristica della poesia. Potremmo insomma ripetere che, così come la scelta di Bonnefoy è stata dettata soltanto dalla rima albatros-os, la nostra, a pari diritto, potrà orientarsi sull’accoppiata pettirosso-osso. Ricordiamo cioè che il traduttore, nell’impossibilità di replicare le mosse dell’originale, deve sempre inventare/trovare le corrispondenze ad esse più vicine, ma questo non sul piano del senso letterale, bensì a livello di progetto testuale complessivo, cosa che appare ancora più chiaramente nel terzo verso.

«Lasciate ogni speranza, voi ch’entrate», verrebbe da dire di fronte al compito che ci aspetta qui. Trovare un sinonimo di carrozza che finisca in -osso? Neanche a parlarne. Tanto vale ricorrere direttamente a qualche circonlocuzione o idiotismo.

6. Paradossi

Morale della favola: accedendo a un registro stilistico di tipo meta-narrativo, ossia del tutto estraneo alla quartina francese, la scelta finale ha condotto all’introduzione di una parola che ancora una volta, a mo’ di semplice zeppa, si introduca nel verso al solo e unico scopo di rimare: “paradosso”, appunto (e non si vede chi potrà negare il paradosso di un rinoceronte che decida di spostarsi in carrozza).

D’altronde, come suggerisce Hofstadter, la traduzione è per natura paradossale. Alla base dell’atto traduttivo, egli elenca difatti quattro autentiche aberrazioni: il paradosso della lingua sbagliata; il paradosso dello stile sbagliato; il paradosso del luogo sbagliato; e da ultimo il paradosso del “non credere al testo”. Quanto al primo (il cosiddetto Wrong-Tongue Paradox), esso consiste nel fatto che possa darsi una Divina Commedia di Dante in inglese, quando, ai tempi di Dante, l’inglese moderno neppure esisteva. Se inoltre è vero che lo stile di uno scrittore equivale alle sue impronte digitali, come accettare che lo «stile letterario di una persona», cioè, il traduttore, sostituisca «quello di un’altra”» ossia l’autore? Siamo così al Wrong-Style Paradox, il paradosso dello stile sbagliato. Proviamo adesso a osservare dei personaggi di un romanzo nell’atto di discorrere: mentre la loro lingua è fatta di espressioni idiomatiche legate a una precisa geografia, a una strada o a una storia particolare, la lingua della traduzione finisce inevitabilmente per riferirsi a luoghi del tutto differenti; con il che arriviamo al Wrong-Place Paradox. Ma il paradosso estremo è certo quello che riguarda il testo stesso e la sua “necessaria” inutilità. Ecco che cosa scrive Hofstadter a proposito de The Don’t Trust the Text Paradox (Il paradosso “non fidarti del testo”):

The act of reading is a process of converting words into ideas and then of largely forgetting the words involved. As readers-in-depth, translators have to respect ideas more than words… Paradoxically, keeping one’s trust in the words after one has found the ideas that they stand for amounts to a knee-jerk preference for letter over spirit, and this Literality Trap amounts to a death sentence for high-quality translation (Hofstadter 2009, 8-10).

L’atto della lettura equivale a un processo che converte parole in idee, e poi dimentica in gran parte le parole coinvolte. In quanto lettori-profondi, i traduttori dovrebbero rispettare le idee più delle parole… Paradossalmente, continuare ad aver fiducia nelle parole, dopo che si sono trovate le idee al posto delle quali stanno le parole stesse, implica una pregiudiziale preferenza della lettera sullo spirito. Altrimenti detto, questa Trappola della Letteralità finisce per tramutarsi in una sentenza di morte per una traduzione di alta qualità.

Un simile, complesso scambio fra parole e idee, ci riporta a una pagina in cui Paul Valéry evocò la risposta del suo maestro, Stéphane Mallarmé, all’amico pittore Degas. Secondo quest’ultimo, per comporre poesia sarebbe bastato disporre di molte idee. Al che lo scrittore ribatté spiegando:Mais, Degas, ce n’est point avec des idées que l’on fait des vers… C’est avec des mots (Valéry 1927, 784: Mio caro, i versi non si fanno con le idee… ma con le parole).

All’ombra di questi tre grandi maestri, e riprendendo la nozione della poesia come stato d’animo e insieme stato di linguaggio, mi è capitato di definire il poeta come un essere ibrido, a metà strada fra l’enigmista e l’invasato. Meglio: un “enigmista invasato” – espressione che credo spieghi bene la strettissima parentela che il fare versi intrattiene con i giochi di parole, gli indovinelli, su su fino agli oracoli, i responsi, i vaticinii. Ebbene, se questo vale per chi scrive in versi, altrettanto lo è per chi quei versi traduce, in base all’intuizione di Jorge Luis Borges secondo cui non esisterebbe ningún problema tan consustancial con las letras y con su modesto misterio como el que propone una traducción (Borges 1932; traduco così: «nessun problema è così consustanziale/tanto intimamente connesso alla letteratura e al suo modesto mistero quanto quello che propone una traduzione»)

Bibliografia

Bevilacqua 2008a: Giuseppe Bevilacqua, Premessa a Gottfried Benn, Poesie, Rovigo, Il Ponte del Sale

Bevilacqua 2008b: Giuseppe Bevilacqua, Il problema della rima in Benn, ibidem

Borges 1932: Jorge Luís Borges, Le versioni omeriche (Las versiones homéricas, in Discusión, 1932 (19572), citato in George Steiner, Dopo Babel. Aspetti del linguaggio e della traduzione, Milano, Garzanti, p. 20 (trad. it. di George Steiner, After Babel. Aspects of language and translation, Oxford University Press, Oxford, 19922)

Dossena 2004: Giampaolo Dossena, Dizionario dei giochi con le parole, Bologna, Zanichelli

Hofstadter 2009: Douglas R. Hofstadter, Translator, Trader. An Essay in the Pleasantly Pervasive Paradoxes of Translation, Basic Books, New York

Meyer 1976: Herman Meyer, Erotik des Reims, in «Jahrbuch der Akademie der Wissenschaften in Göttingen», Göttingen

Pescetto e Siciliano 1962: Aberto Pescetto e Enzo Siciliano, Poesie, Milano, Il Saggiatore, 1962 (trad. it. parziale da Vladimir Nabokov, Problems and Poems, New York, McGraw-Hill, 1970)

Nasi 2015: Franco Nasi, Traduzioni estreme, Quodlibet, Macerata, 2015

Thibaudet 1967: Albert Thibaudet, Storia delle letteratura francese dal 1789 ai nostri giorni, Milano, Garzanti 1967 (trad. it. di Jone Graziani, da Histoire de la littérature française de 1789 à nos jours, Librairie Stock, Delamain et Boutelleau 1936)

Valéry 1927: Paul Valéry, Souvenirs littéraires, in «Conferencia», 20 marzo 1927, ora in Oeuvres, vol. I, Bibliothèque de la Pléiade, Paris, Gallimard 1957