«Ad amare una volta un po’ meglio tutti gli altri mortali»

UGO FOSCOLO E LA TRADUZIONE DEL SENTIMENTAL JOURNEY

di Alessio Mattana

Oratore della libertà e assiduo frequentatore di Yorick: quale Ugo Foscolo?

Pubblicata nel 1813 con il titolo Viaggio sentimentale di Yorick lungo la Francia e l’Italia, la versione di A Sentimental Journey di Laurence Sterne (1768) elaborata da Ugo Foscolo è una delle traduzioni d’autore più note ai lettori italiani. Il grado di libertà che l’autore esercitò nei confronti del testo originale è parte integrante del suo fascino: «condotta con fantasia sollecitata e insieme frenata» (Varese 1982, 38), è quella di Foscolo una traduzione che interpreta il pensiero di Sterne oltre la lettera senza per questo sacrificare lo spirito dell’originale. È questa traduzione, nelle belle parole di Mario Fubini nell’introduzione al volume sulle Prose d’arte varie dell’Edizione Nazionale delle opere di Ugo Foscolo, «una vera e propria interpretazione con la quale il traduttore-interprete tende a dare maggiore evidenza a motivi impliciti nel testo originale e, così facendo, ha modo di rivelare il proprio gusto, la propria personalità» (Foscolo 1951, xlviii). Nel corso del Novecento, e in particolare a partire dal secondo dopoguerra, il Viaggio sentimentale è assurto al grado di classico della letteratura italiana: una rapida ricerca nel circuito delle biblioteche nazionali italiane (www.sbn.it) mostra come, negli ultimi centosedici anni, ben tredici case editrici abbiano pubblicato almeno una versione del Viaggio sentimentale foscoliano; e una ventina di studiosi (tra cui, oltre allo stesso Mario Fubini, Giuseppe Sertoli e Giovanni Puglisi) abbiano introdotto o commentato criticamente la traduzione, la quale è stata quasi sempre presentata con il testo originale a fronte. Traduzioni più fedeli all’originale di Sterne, quali quelle realizzate da G. Ipsevich Bocca (1932) e da Giancarlo Mazzacurati (1991), pur nel loro valore risultarono e tuttora risultano meno conosciute rispetto a quella di Foscolo.

Tale fortuna editoriale sarebbe stata inaspettata nell’Ottocento. Sin dai primi giudizi critici dopo la morte dell’autore nel 1827, la figura di Foscolo che venne costruita e celebrata fu quella dell’artista impegnato: la biografia dell’amico Giuseppe Pecchio lo descrive come uomo «inflessibile, rigido, indifferente al premio o alle minacce, tutta la sua vita lodatore solo della virtù», personaggio pubblico verso la cui memoria l’Italia avrebbe «il maggior debito» in quanto «uno degli oratori della sua libertà e indipendenza» (Pecchio 1830, 254–256) e oratore la cui bocca «era pura quanto i suoi scritti. Non raccomandava ai giovani che virtù e patriottismo» (Pecchio 1830, 263). Il Foscolo autore, spiega Marco Cerruti, fu percepito dai suoi contemporanei e dalle generazioni successive come una figura «sostanzialmente inedita nella storia della nostra cultura», autore innovativo in quanto «fervido assertore dei valori, messi in circolo pochi anni prima dalla Rivoluzione francese, di “uguaglianza”, “libertà”, “fraternità”, preoccupato di porre le proprie conoscenze e la capacità di affabulazione e di scrittura al servizio di tali valori, avido di azione politico-civile, ma anche, ove occorra, militare» (Cerruti 1990, 3-4).

Secondo Vincenzo Tripodi, questa visione fu se non altro parziale: «[l]a scuola romantica ha accentuato il Foscolo patriota ed esule, poeta de I Sepolcri, e non ha capito quello de Le Grazie» (Tripodi 1978, 3). Ed effettivamente l’enfasi su Foscolo scrittore engagé portò ad un disinteresse complessivo verso quella parte della produzione artistica foscoliana apparentemente più lontana dagli afflati patriottici. Come osserva Pino Fasano, la lettura del Foscolo come cittadino e scrittore esemplare divenne tanto egemonica da portare a concentrarsi quasi esclusivamente «sull’Ortis, sui Sepolcri, sugli scritti politici, e in genere su quanto pertiene ai valori patriottico-risorgimentali di cui Foscolo è fatto primo banditore» (Fasano 1974, 172–173). Testi esplicitamente privi di tale valore patriottico, come il Viaggio appunto, vennero trascurati. E se in apertura di secolo Giuseppe Pecchio poté in poche righe affermare che Foscolo «prese per suo esercizio a tradurre il Viaggio sentimentale di Sterne», negli ultimi decenni dell’ottocento calò emblematico il silenzio di Francesco De Sanctis nei confronti del Viaggio: «né il grande saggio del ’71, né la Storia si soffermano, sia pur brevemente, su quest’aspetto della attività e della personalità del Foscolo» (Fasano 1974, 177).

Eppure è nel 1805, dunque tre anni dopo la pubblicazione dell’Ortis e due prima della pubblicazione dei Sepolcri, che il Foscolo, in piena fioritura poetica, affronta per la prima volta la traduzione de A Sentimental Journey; ed è di prima ancora, a ben vedere, l’influenza di Sterne. Composto da «frammenti di un romanzo autobiografico» (Varese 1982, 14) e rimasto incompiuto (nonché inedito fino all’edizione di Giuseppe Chiarini del 1890), un testo come Il sesto tomo dell’Io (scritto verso il 1800, ma la datazione è incerta) rivela distintamente la presenza di un narratore di matrice sterniana. Si veda, a titolo esemplificativo, questo passaggio notato da Fasano sulla complessa relazione tra tempo fisico, tempo della lettura e tempo della scrittura: «Io scrivo.… e…. e ogni lettera ch’io traccio m’avvisa che la vita siegue con pari rapidità la mia penna. Il tempo vola e divora il creato. […] Quelle trecce che tu con tanta cura componi…. vedi vedi! ti biancheggiano tra le dita. Ogni bacio, ogni addio è il preludio di quella eterna separazione che ci aspetta!» (Foscolo 1951, 20).

Chiaro – per non dire smaccato – il rimando al nono volume del Tristram Shandy (1759–1767) dove, siamo al capitolo ottavo, il narratore digredisce dagli amori dello Zio Toby per affermare che

Time wastes too fast: every letter I trace tells me with what rapidity Life follows my pen […] whilst thou art twisting that lock, – see! it grows grey; and every time I kiss thy hand to bid adieu, and every absence which follows it, are preludes to that eternal separation which we are shortly to make (Sterne 1978, 754).

Il Tempo passa troppo in fretta: ogni lettera che traccio mi dice con quanta rapidità la Vita segua la mia penna; […] mentre ti arrotoli al dito quel boccolo,-guarda! diventa grigio; e ogni volta che ti bacio la mano per dirti adieu e ogni assenza che segue, sono preludio a quella separazione eterna alla quale dovremo presto sottostare (Conetti 1992, 594)

Inoltre, già la primissima redazione dell’Ortis rivelava chiare le tracce dell’influenza di Sterne. A partire dalla prima edizione bolognese del 1798 compare difatti l’episodio di Lauretta, del quale Foscolo in una lettera del 1808 a Jakob Salomo Bartholdy dichiarerà un prestito («ora stralcerei que’ frammenti della Storia di Lauretta perché sentono l’inopportunità dell’episodio e l’imitazione della Maria di Lorenzo Sterne» – Foscolo 1952, 485) poi riconosciuto, seppur implicitamente, nella versione dell’Ortis pubblicata a Londra nel 1817. Vale la pena osservare di sfuggita come, in quest’ultimo esempio, l’atto del tradurre venga evocato da Foscolo come strumento per modulare la storia di Maria – la quale compare sia nel Tristram Shandy sia nel Sentimental Journey – sulla propria scala tonale:

In un libretto inglese ho trovato un racconto di sciagura; e mi pareva a ogni frase di leggere le disgrazie della povera Lauretta […] Or io per non parere di scioperare mi sono provato di scrivere i casi di Lauretta, traducendo per l’appunto quella parte del libro inglese, e togliendovi, mutando, aggiungendo assai poco di mio, ho raccontato il vero, mentre forse il mio testo è romanzo (Foscolo 1955, 349–350).

Se, come si è detto, la critica ottocentesca interpretò abbastanza omogeneamente la figura dell’autore sotto la lente di Jacopo Ortis, dall’inizio del Novecento la traduzione dallo Sterne ricevette, pur gradualmente, una maggiore considerazione critica. Giuseppe Chiarini, celebre studioso, dedicò poco più di cinque pagine della sua ampia Vita di Ugo Foscolo al Viaggio sentimentale. L’incontro con il romanziere inglese, Chiarini afferma, si rivelò comunque decisivo per lo sviluppo della poetica foscoliana: Sterne «gli additò una nuova via, nella quale egli entrò franco e sicuro, come se l’avesse sempre conosciuta: i suoi lunghi e sapientemente avvolti periodi si snodarono e si spezzarono, alla classica gravità si alternò la snellezza e la disinvoltura» (Chiarini 1927, 257). Tratteggiata dal Chiarini, questa antitesi tra un Foscolo ortisiano e uno didimeo tese a ripresentarsi lungo il secolo. Luigi Berti ebbe il grande merito di dedicare per primo una monografia focalizzata sul Foscolo traduttore dello Sterne (uno dei primi testi critici in assoluto che venne interamente dedicato alla traduzione di un’opera). Analogamente a Chiarini, anche Berti lesse una contrapposizione forte tra i due Foscolo: pur apprezzando il sostrato sentimentale che accomunò sin da subito gli animi di Foscolo e Sterne, Berti descrive l’inizio del lavoro di traduzione come un punto di svolta grazie al quale «il poeta italiano perse quella portata limitata di gesti, gli sfoghi teatrali alla Ortis, e compostamente s’atteggiò in una forza nuova che ne placò i motivi pomposi, le enfasi giovanili e sterili» (Berti 1942, 51). La versione del Viaggio intervenne dunque a portare a maturazione l’anima tormentata del Foscolo, fornendo all’autore uno strumento introspettivo – «un’esperienza intima, particolare e minuziosa e, soprattutto, una regola» (Berti 1942, 54) – che permetteva di interpretare il mondo circostante: il Sentimental Journey cioè «limitava o diminuiva aspirazioni e temporanee esuberanze, distribuiva con intelligenza le forze, metteva in equilibrio certe intensità, creava per Foscolo una regola di moderazione» (Berti 1942, 62).

Mario Fubini poi, nella sua diffusa introduzione al volume sulle Prose d’arte varie dell’Edizione Nazionale delle opere di Foscolo, percepisce a tratti un vero e proprio contrasto tra «prosa sterniana e poesia foscoliana», contrasto sul quale «come sulle relazioni fra il Foscolo traduttore e il Foscolo poeta, fra la traduzione sterniana e la traduzione omerica, ci sarebbe ancora molto da dire» (Foscolo 1951, l). Trent’anni dopo il Berti e vent’anni dopo il Fubini, Fasano poté ancora scrivere della traduzione del Viaggio come rivelazione che portò l’autore a penetrare «la vera natura dell’arte sterniana, il senso doloroso di quella trama fittissima di sorrisi e di lacrime» (Fasano 1974, 121); e più recentemente Sandro Gentili, in un interessante contributo critico, ha interpretato «[l]’assidua frequentazione di Yorick» da parte del Foscolo come spunto per innestare nelle sue opere la tipica ironia sterniana grazie alla quale menzogna e verità si confondono agli occhi dei pedanti (Gentili 1997, 129).

Rispetto alla critica ottocentesca, tutta concentrata sul patriota, la critica novecentesca ha il merito di rendere giustizia alla traduzione del Viaggio ponendo giustamente l’accento su come la figura di Sterne abbia influenzato – in gradi più o meno severi – la scrittura del Foscolo. Questa operazione, però, viene effettuata sullo stesso presupposto di partenza, solo invertito di segno: vi è discontinuità e mancanza di comunicazione tra il Foscolo giovanile dell’Ortis – teatrale, byroniano ed esplicitamente politico – e il Foscolo maturo del Viaggio – malinconico, disincantato e meno interessato alla politica. Il giudizio di Paolo Ruffilli che, nell’introduzione all’edizione Garzanti del Viaggio, identifica la traduzione come un desiderio del Foscolo «di vivere e di scrivere alla maniera dello Sterne, cioè senza giustificazioni da chiedere e da dare, senza pregiudiziali, senza forzature, senza leggi divine in assenza di Dio e, cosa difficilissima per lui, senza prendersi troppo sul serio» (Foscolo 2009, xxiv), è emblematico del persistere di questa interpretazione. Eppure, a porre dei primi dubbi sulla validità di questa discontinuità tra Ortis e Didimo contribuiscono sia la citata presenza di tracce sterniane nella produzione precedente alla traduzione, sia il fatto che solo pochi anni dopo il Viaggio Foscolo si ridedicò alla prosa politica (con i durissimi, e per questo mai pubblicati, Discorsi della servitù dell’Italia del 1815) e alla definitiva edizione londinese dell’Ortis (1817).

Dopo una prima traduzione nel 1805, Foscolo ritornò sul Viaggio sentimentale sulla scorta di nuove riflessioni sul ruolo sociale della letteratura nel rappresentare il vero, nel preservare il patrimonio linguistico nazionale e nell’aumentare la concordia civile — tutti punti che si intersecarono in un chiaro ideale di indipendenza nazionale. Partendo dunque dalla storia della ritraduzione del 1812–1813 e approfondendo le riflessioni di Foscolo sulla funzione delle lettere e del poeta, sarà dunque mia cura argomentare che nel Sentimental Journey Foscolo rilevò una difesa della virtù civica e della libertà dell’uomo che dovette risultare congeniale alla sua visione politica. I sentimenti che dominano Yorick durante le sue peregrinazioni sono, come vedremo, collegati a quell’ideale di indipendenza contro la tirannia e il servaggio che il poeta italiano così spesso difese nei suoi scritti.

«Ma dovendolo tradurre per gli altri»: dalla traduzione alla ritraduzione del Viaggio.

È a partire da un viaggio obbligato che comincia la storia della traduzione del Sentimental Journey. Nel 1804 Foscolo fu aggregato alla divisione italiana inviata da Napoleone in Francia per osservare i movimenti dell’Inghilterra sotto costa e fino al termine dell’anno successivo si mosse tra Calais, Valenciennes e Boulogne-sur-mer. La missione non dovette essere delle più importanti se, come leggiamo in un’epistola indirizzata al generale maggiore austriaco Conte di Fiquelmont del 25 Aprile 1815 dalla Svizzera, l’autore si considerasse de facto in esilio: «Mi fu ingiunto di andare all’esercito; poi, sotto colore di comandare i depositi di tre reggimenti — commissione, com’Ella vede, un po’ misera — fui confinato a Valenciennes, e commesso alla vigilanza della gendarmeria» (Foscolo 1933b, 302). Durante questo periodo l’autore venne però a contatto con le famiglie inglesi residenti in Francia, con le quali, come ci racconta il Chiarini, «il Foscolo dové naturalmente stringere relazioni, e avere presto familiarità» (Chiarini 1927, 255), e grazie a queste prese dimestichezza con la lingua. Nello stesso periodo ritornò in contatto con le opere di Sterne forse già lette in traduzione durante la sua gioventù veneziana, e si dedicò ad una primissima traduzione del Sentimental Journey. Proprio verso la fine del 1805, ad ottobre, Foscolo annunciò in una lettera all’amica Amélie Bagien che la traduzione era stata completata, e che rimanevano solo da scrivere des notes sulle opinioni, i ricordi e le osservazioni di Foscolo in Francia (Foscolo 1952, 86). Il piano venne delineato nel dettaglio in una lettera all’editore Niccolò Bettoni (già tipografo dei Sepolcri) scritta nel maggio del 1806:

Viaggiò in Francia l’Autore dieci anni prima della Rivoluzione — fingo io di avere avuto il Viaggio Sentimentale di Sterne da un Nathaniel Cookman, che al libro stampato avesse framesse alcune pagine manoscritte, tutte d’osservazioni che il Cookman avea scritte in inglese nel suo viaggio in Francia negli ultimi due anni di pace. Di poi narra i costumi francesi dopo la Rivoluzione […] se ne danno in calce del libro venticinque articoletti.

Nel che non v’è altra verità se non che io feci queste osservazioni sui Francesi percorrendo i loro paesi — che cercai di esprimerle in una maniera tutta mia (Foscolo 1952, 106).

Dunque il progetto foscoliano era non già unicamente di tradurre lo Sterne in italiano, ma di conglomerarlo ad un testo complementare – i suddetti «venticinque articoletti» – al fine di proporre per la pubblicazione un’opera composita. L’accordo non sarebbe andato in porto, ma l’anno dopo, siamo nel 1807, Foscolo prese contatti con l’amico Ferdinando Arrivabene, il quale si propose di fare da tramite con un editore mantovano disponibile a stampare il Viaggio. La traduzione del Sentimental Journey, leggiamo dalla corrispondenza del Foscolo, sarebbe stata consegnata entro la fine dell’anno e accompagnata da «un tometto di note tradotte dall’inglese — note bizzarre e frizzanti intorno a’ costumi nostri e francesi di Nataniele Cookman irlandese» le quali, Foscolo specifica, mai «furono tradotte […] in Italia, né in Francia, ch’io sappia» (Foscolo 1952, 195). In una lettera da Firenze del 31 ottobre 1812 diretta al compositore Giovanni Paolo Schulthesius, l’autore ricorda retrospettivamente il contesto e i motivi dietro quel suo primo approccio al testo di Sterne:

Trovandomi per occasione ad albergare nello Hotel Dessein à Calais, e a convivere con gli Inglesi, mi posi nuovamente alla grammatica per intendere quell’autore bizzarro; e per esperimentare l’arrendevolezza della nostra lingua, volli nella mia versione letteralissima innestare le frasi tutte ed i modi di quella lingua, e parevami d’aver fatto gran cosa (Foscolo 1954, 191).

In questa fase iniziale, Foscolo propose dunque una traduzione «letteralissima», parola per parola, che risultasse fedele nel senso e nell’espressione e che mettesse in mostra la flessibilità della lingua italiana nel rendere fedelmente un autore che sembra essere stato scelto, innanzitutto, per la sua «bizzarria». Questo non certo per mero esercizio letterario ma,come si evince dalla citata missiva inviata alla Bagien, prospettando un impatto sui suoi concittadini: ma traduction très-littérale aidera les partisans de ma langue à connaître ses richesses (la mia traduzione molto letterale aiuterà i partigiani della mia lingua a conoscere le sue ricchezze) – per quanto una frase successiva descriva tale impatto come limitato e, forse, macchiato di un certo elitismo: le petit nombre de lecteurs à qui je veux plaire (il piccolo numero di lettori a cui piacerò) (Foscolo 1952, 75–76).

Il motivo della «arrendevolezza della nostra lingua» di fronte alla lingua dell’originale già ricorreva nella lettera al Bettoni del 1806. I propositi della traduzione letterale sarebbero stati:

1° per provare l’arrendevolezza della nostra lingua anche nella traduzione di un autore delicatissimo ne’ concetti, strano nelle espressioni e stringato nello stile.
2° per mostrare che i Francesi l’hanno tradotto male, come fanno per lo più de’ libri stranieri, e più che mai negli scritti di bella letteratura; e per smentire la laida traduzione italiana fatta su la francese.
3° per far gustare la satira finissima de’ costumi francesi, di cui ogni parola di quel libro è pregna, sebbene pochi se ne siano interamente avveduti (Foscolo 1952, 107).

L’intento di questa versione era dunque di mostrare al pubblico europeo che la lingua italiana, quando maneggiata da un traduttore competente (al contrario dell’anonimo autore della «laida» di Viaggio 1792), poteva manifestare al cospetto delle altre lingue e letterature europee sufficiente pieghevolezza da permettere la traduzione fedele di un autore limite per delicatezza concettuale, stranezza espressiva e stringatezza stilistica quale Sterne era. Sempre nella lettera al Bettoni del 1806, Foscolo auspica per la sua opera una portata non solo nazionale ma addirittura europea: «L’opera riuscirebbe nuova a’ lettori. — in Francia potreste lusingarvi di smercio, e molto più in Inghilterra se mai si concludesse la pace, o se aveste mezzi di farla arrivare per l’Olanda e per Amburgo […]» (ibid.).

Com’è noto, questa versione non venne mai effettivamente alla luce, rifiutata come fu dagli editori e comunque continuamente rimaneggiata dal Foscolo: finché non fu accantonata in favore di altri lavori, e a noi ne giunsero solo sparute prove. Sappiamo però che tra il 1812 e il 1813 Foscolo riprese in mano il lavoro, e anzi addirittura lo rifece da capo. La nuova versione comincia con un’epistola introduttiva dove viene presentato Didimo Chierico, cioè il doppio foscoliano a cui l’autore assegna fittiziamente la traduzione dello Sterne. Nella lettera di Didimo ai lettori leggiamo che «io lo aveva, or son più anni, tradotto per me: ed oggi che credo d’avere una volta profittato delle sue lezioni, l’ho ritradotto, quanto meno letteralmente e quanto meno arbitrariamente ho saputo per voi» (Foscolo 1951, 39). L’espressione «quanto meno letteralmente» si pone in contrasto con i propositi precedentemente esposti di traduzione «letteralissima»: si parla dunque di una versione concepita diversamente (nonostante la data e il luogo in calce alla lettera didimea – «Calais, 21 settembre 1805» – introducano un elemento di continuità non trascurabile). La supposizione che Foscolo si fosse rimesso al lavoro ex novo nel 1812 viene confermata, tra le altre, da una chiarissima missiva destinata ad Isabella Teotochi Albrizzi il 15 ottobre 1812: «Ho ritradotta la traduzione del Viaggio sentimentale» (Foscolo 1954, 176). La susseguente, ardua ricerca di un editore si concluderà positivamente: trovato un accordo con Giuseppe Molini di Pisa, l’opera fu pubblicata nel luglio del 1813, probabilmente ancora rimaneggiata e corretta nel frattempo. Il testo è il medesimo che viene stampato oggigiorno.

Le note, in questa versione, sono presenti ma senza essere né corpose né diffuse, e glossano soprattutto su considerazioni traduttoriali, passi ambigui del testo, citazioni bibliche e precisazioni culturali. Nel Viaggio sentimentale pubblicato nel 1813 quasi tutto il peso dell’originalità di Foscolo cade quindi sulla traduzione; traduzione questa volta, rivela l’autore a Sigismondo Trechi nel giugno 1813, lavorata e rivista fino all’ossessione: «Faccio ora stampare a Pisa il Viaggio Sentimentale ch’io aveva già tradotto per me: ma dovendolo tradurre per gli altri, l’ho ritradotto, e mille volte rifatto, e lambiccato, e corretto, e ricorretto, e copiato e fatto copiare in guisa ch’io ci ho perduto dietro tutto il verno passato, e quasi mezzo l’ingegno» (Foscolo 1954, 275).

Quale fosse la tipologia di questa ritraduzione lo si evince dalla fittizia Notizia intorno a Didimo Chierico annessa al testo. Foscolo presenta il traduttore come un «nostro concittadino» che mentre «militava fuori d’Italia» raccomandò al Foscolo, «tre suoi manoscritti affinché se agli uomini dotti parevano meritevoli della stampa, io ripatriando li pubblicassi altrove» (Foscolo 1951, 173). Il terzo di questi testi altri non è che «la versione dell’Itinerario sentimentale di Yorick» – libro che, stando al Foscolo, fu «più celebrato che inteso». E uno dei motivi di tale incomprensione da parte dei lettori dell’epoca è presto detto: trattasi di carenza di una traduzione italiana affidabile, poiché il Viaggio «fu da noi letto in francese, o tradotto in italiano da chi non intendeva l’inglese». Didimo, per quanto scrivesse per ozio (cioè libero dall’ordine di alcuno), nondimeno

rendeva conto a sé stesso d’ogni vocabolo; […] viaggiò in Fiandra a convivere con gli Inglesi […] onde farsi spianare molti sensi intricati; e lungo il viaggio si soffermava per l’appunto negli alberghi di cui Yorick parla nel suo Itinerario, e ne chiedeva notizie a’ vecchi che lo avevano conosciuto; poi si tornò a stare a dimora nel contado tra Firenze e Pistoia, a imparare migliore idioma di quello che s’insegna nelle città e nelle scuole (Foscolo 1951, 176).

Di queste tre fasi, la terza risulta nuova rispetto alla traduzione del 1805: il fittizio Didimo si ristabilisce in Italia, nelle campagne tra Firenze e Pistoia, al fine di perfezionare la competenza linguistica nella lingua di arrivo non per come veniva insegnata a scuola dai grammatici o praticata nelle grandi città da parte degli intellettuali, bensì per come veniva parlata da persone non influenzate dagli studi. Affidando l’originalità della sua opera interamente all’operazione del tradurre e non a un testo integrativo, Foscolo si concentrò sulla resa nella lingua italiana tramite un lavoro di ricerca (che oggi definiremmo sul campo) nei contadi della Toscana. Tale lavoro, Cerruti suggerisce, ebbe un’importanza linguistica e letteraria che andò oltre la sola oeuvre foscoliana:

con tutti i problemi linguistici e scrittorii che ebbe a comportare, nella ricerca di un italiano letterario-narrativo agevole, fluido, leggibile, non lontano dalla fresca naturalezza dell’originale inglese, [il Viaggio sentimentale] costituisce un episodio oggettivamente importante, ne fosse o meno il Foscolo consapevole, nella ricerca di una scrittura romanzesca che, prima del Manzoni, variamente impegna, soprattutto a livello di traduzioni, la nostra cultura (Cerruti 1990, 123).

«Amate palesemente e generosamente le lettere»: la funzione politica del traduttore-poeta

L’appunto di Cerruti restituisce alla ritraduzione del Viaggio una sfumatura di progettualità molto marcata, un proposito di «sciacquare i panni in Arno», che, se pure non mancava interamente alla versione del 1805, certamente non risultava espressa nel modo adeguato. Si potrebbe sostenere che alcune riflessioni del Foscolo sulla letteratura e la società necessitassero ancora di ulteriore tempo per giungere a maturazione. Ed effettivamente, l’intervallo cronologico intercorso tra le due versioni vede Foscolo particolarmente attivo non solo sul piano poetico (è, come ricordato, del 1807 il carme Dei sepolcri) e teatrale (l’Aiace fu rappresentato un’unica volta nel dicembre del 1811), ma anche su quello della riflessione letteraria. È del marzo 1808 la nomina del Foscolo a professore d’eloquenza presso l’università di Pavia, ed è dell’anno successivo l’orazione introduttiva al suo corso nota come Dell’origine e dell’ufficio della letteratura, un documento dove Foscolo enuncia estesamente la sua concezione di letteratura. Invocando «l’amore del vero» come nume tutelare (Foscolo 1933a, 5), Foscolo impernia la prolusione sulla centralità della parola: il verbo, sostiene Foscolo, è ciò che rende l’uomo diverso dal novero degli animali. L’uomo, dominato dalle passioni, è «animale essenzialmente usurpatore, essenzialmente sociale» (Foscolo 1933a, 8); e tali pulsioni portano le società ad una divisione del genere umano in «molti servi che tanto più perdono l’arbitrio delle loro forze, quanto men sanno rivolgerle a proprio vantaggio, ed in pochi signori che fomentando co’ timori e co’ premi della giustizia terrena, e con le promesse e le minacce del cielo le passioni degli altri, hanno arte e potere di promuoverle a pubblica utilità» (Foscolo 1933a, 17).

Ma la parola – quel bisogno «inerente alla natura dell’uomo» (Foscolo 1933a, 8) di comunicare il proprio pensiero – può porre freno a tale divisione facendo leva sulle passioni più nobili dell’uomo e astraendo e stabilizzando le idee. A quest’uopo, seppur di rado, la natura dota alcuni uomini di «amore del vero» e, soprattutto, «dell’arte di rappresentarlo» (Foscolo 1933a, 17). Coloro che ne sono dotati, come appare chiaro dal passo subito successivo, sono i poeti. A loro il compito non solo di distinguere il vero ma, soprattutto, di rappresentarlo ad uso di tutte le persone che non riescano a distinguerlo autonomamente, siano essi i molti servi o i pochi padroni:

Ufficio dunque delle arti letterarie dev’essere e di rianimare il sentimento e l’uso delle passioni, e di abbellire le opinioni giovevoli alla civile concordia, e di snudare con generoso coraggio l’abuso o la deformità di tante altre che, adulando l’arbitrio de’ pochi o la licenza della moltitudine, roderebbero i nodi sociali e abbandonerebbero gli Stati al terror del carnefice, alla congiura degli arditi, alle gare cruente degli ambiziosi e alla invasione degli stranieri (Foscolo 1933a, 17).

L’ufficio della letteratura, in Foscolo, è dunque essenzialmente politico. Rafforzare la «civile concordia» è azione necessaria al fine di combattere la tirannide in una nazione, sia il «carnefice» autoctono o straniero; per converso, uno scrittore che non metta coraggiosamente a nudo gli abusi del potere è connivente al tiranno. A puntello del proprio argomento, Foscolo rimanda alla nascita della letteratura ellenica come punto d’origine di questa relazione tra lettere e società: «contemporanee al potere dello scettro e degli oracoli», la filosofia e la poesia – intesa da Foscolo nel senso ampio di letteratura – si combinarono nel segno della verità: la prima esplorando «tacita il vero, la ragione politica che intende a valersene sapientemente», la seconda permettendo che l’insegnamento arrivasse alle persone «cogli affetti modulati della parola, che lo idoleggia coi fantasmi coloriti della parola, e che lo insinua con la musica» (ibid.). Il ruolo del poeta è dunque per Foscolo un ruolo di elevata responsabilità sociale, la cui funzione risiede nel parlare con eloquenza ai sentimenti nobili del popolo al fine di veicolare le idee di giustizia e di libertà maturate filosoficamente. D’altronde, «[n]on vive più forse nell’uomo il bisogno di rendere con le parole facile all’intelletto ed amabile al cuore la verità?» (Foscolo 1933a, 20). A seconda dei diversi abiti in cui la verità viene eloquentemente ammantata, questa può apparire «moltiforme e indistinta al nostro intelletto […], la vestiamo di tante e sì diverse sembianze, e le sembianze di tanti accidenti quante sono le disparità de’ climi, de’ governi, dell’educazioni, e de’ nostri individuali caratteri» (ibid.).

Ed è appunto ruolo dello scrittore nazionale modulare l’idea di verità con un tipo di eloquenza che sia in sintonia con la propria tradizione letteraria e il patrimonio linguistico dei propri concittadini. Trascurare il piano dell’eloquenza, come fanno i grammatici cruschisti, significa sabotare la capacità dei cittadini compatrioti di comprendere il vero. Ed è questo un punto su cui Foscolo batte sovente, chiedendosi perché «oggi gli scienziati non degnano di promuovere i loro studi con eloquenza, poiché non si valgono delle attrattive della loro lingua per farli proprietà cara e comune agl’ingegni concittadini?» (Foscolo 1933a, 32). L’invito agli scrittori patriottici è dunque di scrivere sempre in una lingua plasmata su quella dei cittadini «collocati dalla fortuna tra l’idiota ed il letterato, […] que’ cittadini che soli devono e possono prosperare la patria» (Foscolo 1933a, 35). Scrivere in questo modo è espressione di amore per le lettere e la nazione, domini che per Foscolo prosperano insieme quandunque si preservi la lingua. Così, nel suo invito ai poeti a dipingere le passioni con verità e ad abbellire la lingua non di puntigli grammaticali e pigri forestierismi ma di evidenza, energia e luce, patria e letteratura vengono simbolicamente riunite nello stesso oggetto logico del verbo amare:

Amate palesemente e generosamente le lettere e la vostra nazione, e potrete alfine conoscervi tra di voi, ed assumerete il coraggio della concordia; […] Osservate negli altri le passioni che voi sentite, dipingetele, destate la pietà che parla in voi stessi, quella unica virtù disinteressata negli uomini: abbellite la vostra lingua della evidenza, dell’energia e della luce delle vostre idee, amate la vostra arte, e disprezzerete le leggi delle accademie grammaticali ed arricchirete lo stile; amate la vostra patria, e non contaminerete con merci straniere la purità e le ricchezze e le grazie natie del nostro idioma. La verità e le passioni si faranno più esatti, men inetti e più doviziosi i vostri vocabolari (Foscolo 1933a, 36).

La cura della lingua e il ruolo sociale del poeta divengono ancora più cruciali quando si traduce. Prendendo le mosse dalla versione dei primi due canti dell’Odissea di Ippolito Pindemonte, cominciata nel 1805, in Sulla traduzione dell’Odissea del 1810 Foscolo passa in rassegna i precedenti traduttori di Omero in italiano, lamentando il fatto che l’Odissea «non ottenne ancora in Italia un traduttore-poeta» (Foscolo 1933a, 198).

Cosa intende Foscolo per traduttore-poeta? Certamente non parla di coloro che, traducendo solo dizionario alla mano, tradiscono lo spirito dell’originale: tradurre in questa maniera genera anzi «la massima infedeltà, perchè, la parola essendo tradotta col dizionario, ogni immagine, ogni frase della poesia rimanevasi muta d’ogni armonia, cieca, fredda di splendore e di fuoco»; e l’Iliade di Anton Maria Salvini del 1742, così resa, «pareva cadavere» (ibid.). A renderla tale sono l’eccessiva pedanteria e la mancanza di comunione spirituale con il testo originale, cioè lo stesso peccato di sottomissione che Foscolo attaccava nell’Origine come indicativo della connivenza al potere tirannico. I grammatici e i cruschisti, soggetti al testo straniero, tendono a «soggettarsi» per eseguire una traduzione che riuscirà infine «letterale e cadaverica» (Foscolo 1933a, 205). Per una «versione animata», cioè una traduzione che veicoli con eloquenza le passioni e l’idea del vero contenute nell’opera originale, «vuolsi un poeta: or il poeta sarà sempre più fedele, perchè poeta e grammatico non se la dicono sì bene tra loro come poeta e poeta» (ibid.). Questo perché è la licenza di creazione linguistica che il Foscolo esige nel traduttore-poeta. In quanto tale, egli deve disdegnare qualsiasi accenno di servilismo verso la lingua d’origine e deve anzi esercitare assoluta libertà nel plasmare la lingua d’arrivo, lingua nella quale egli tipicamente versifica o scrive; mentre il disegno dei pensieri, l’architettura del libro e la passione del poema, essendo basati sul cuore umano, sono valori assoluti della natura e come tali vanno preservati con fedeltà:

La lingua della traduzione dovend’essere assolutamente diversa, la libertà di maneggiarla e d’accomodarla all’originale dev’essere piena e assoluta; ma il disegno de’ pensieri, l’architettura del libro, la passione del poema e tutti i suoi caratteri sono fondati su la natura dell’ingegno e del cuore umano, e la natura potendo rappresentarsi sempre ugualmente in tutte le lingue malgrado le loro infinite modificazioni, la fedeltà in queste pitture dev’essere serbata dal traduttore con cura e con religione (ibid.).

Per Foscolo, lo scrivere opere di letteratura originali e il tradurre opere altrui (e le due a questo punto vanno identificate in una sola) sono dunque pratiche sempre influenzate da ciò che Guido Mazzoni nell’introduzione alla sua edizione della biografia del Chiarini chiama «la punta dell’ago calamitato» del pensiero foscoliano, la quale, pur oscillando, «volgevasi ostinatamente alla Stella Polare, l’Italia» (Chiarini 1927, xxvii). La versione del Viaggio Sentimentale del 1813, come vedremo tra poco, non fa eccezione a questa regola e anzi, tramite specifiche scelte di traduzione e di edizione, tende a enfatizzare proprio quegli aspetti del testo di Sterne più attinenti al pensiero politico-letterario di Foscolo.

«Nè potrei parlare se non italiano, nè parlare se non secondo il mio cuore»: Foscolo e la letteratura dell’indipendenza.

In Sulla traduzione dell’Odissea, lo abbiamo visto, la categoria dei cruschisti-grammatici è sovente attaccata. Rispetto al tentativo di quest’ultimi di riciclare parole desuete dai poeti del Trecento, Foscolo afferma:

altra cosa è dar vigore ed aspetto di antica dignità all’orazione con l’uso d’antichi vocaboli di cui non si trovano equivalenti nell’idioma corrente e co’ bellissimi modi de’ Latini e de’ padri della lingua, arte maravigliosa segnatamente nell’Ariosto e nel Caro; ed altro è l’andare accattando voci brutte, dimenticate, quando la lingua ne ha pure di bellissime e intese da tutti (Foscolo 1933a, 199).

Gli arcaismi sono quindi visti come dannosi poiché acuiscono il divario tra la lingua astratta parlata dagli accademici e la lingua effettivamente parlata dai «cittadini» italiani. Con licenza traduttoriale piuttosto decisa, il capitolo del Viaggio sentimentale intitolato Il frammento elabora proprio questa posizione. Nell’originale di Sterne, Yorick si trova in un alberghetto e consuma la sua colazione. Una volta terminato il burro e buttata la foglia d’uvaspina su cui questo poggiava, Yorick fa per liberarsi anche della cartaccia sottostante la foglia, quando, con sua sorpresa, nota che sopra vi è scritto quello che si rivelerà essere un frammento di una storia in the old French of Rabelais’s time (nel francese antico dell’epoca di Rabelais) (Sterne 2002, 134). Yorick traduce il frammento in un inglese a lui contemporaneo e in questa guisa viene offerto ai lettori quello che è anche un omaggio a uno scrittore particolarmente caro a Sterne. Didimo, invece, riporta quello che, traslato nel suo universo narrativo, sarebbe il frammento originale: originale però scritto nel suo caso in un italiano antiquato. Mentre in Sterne l’incipit del frammento recita dunque: Now as the notary’s wife disputed the point with the notary with much too heat—I wish, said the notary, throwing down the parchment, that there was another notary here only to set down and attest all this (Sterne 2002, 136); Foscolo scrive «Sendo che la mogliera del notaio s’incagnasse ad misdire et contradiare al notaio, il notaio si gittò a’ piedi la perhamena et disse: Harrei caro vi fussi uno altro notaio ad rogare et testimoniare ogni cosa» (Foscolo 1951, 145). Qual è il motivo dietro la scelta arcaizzante di Foscolo? La spiegazione arriva da una nota testuale attribuita a Didimo stesso:

Yorick non tradusse questo frammento in inglese antiquato; ma io Didimo volendo pur dedicare a’ maestri miei alcun mio tenue lavoro, che, come frutto delle loro lezioni, riescisse di lor gradimento, colsi quest’occasione ed imitai le orazioni e le storie ch’essi all’età nostra vanno gemmando de’ più riposti gioielli di Fra Giuda e del Semintendi. […] La lingua italiana è un bel metallo che bisogna ripulire della ruggine dell’antichità, e depurare dalla falsa lega della moda; e poscia batterlo genuino in guisa che ognuno possa riceverlo e spenderlo con fiducia; e dargli tal conio che paia nuovo e nondimeno tutti sappiano ravvisarlo. Ma i poverelli, detti Letterati, non avendo conio proprio, lo accattano da Fra Giuda, e mordono per invidia chi l’ha del suo; e i damerini, detti scienziati, piangono ipocritamente, dicendovi che la povertà della lingua li stringe a provvedere di fuori. I primi non hanno mente, gli altri non hanno cuore; e non avranno mai stile (Foscolo 1951, 148–149).

L’omaggio ai padri della letteratura italiana viene assimilato in un più ampio attacco satirico contro i “Letterati” con la elle maiuscola, cioè coloro i quali, non padroneggiando la lingua italiana, sempre traducono a forza di arcaismi e forestierismi. L’immagine della lingua italiana come conio è significativa e calzante: al pari della moneta, una lingua ha valore in una nazione solo se, nel suo circolare, viene riconosciuta dalla comunità come valida e investita di valore; d’altra parte, una parola vecchia o artificiosa, proprio come una moneta, viene considerata contraffatta o non di valore corrente. Ed era questa della ricezione della lingua da parte dei propri concittadini una preoccupazione centrale per Foscolo che, nella già citata lettera del 1812 a Schultesius, si dice convinto che la traduzione del 1805 avrebbe corso il rischio di incorrere nel disprezzo del pubblico: «dopo anni parecchi m’accorsi che quella versione era scritta in certo gergo anglo-tosco, e che il mondo l’avrebbe meritatamente disprezzata come bastarda» (Foscolo 1954, 191). La stessa preoccupazione emerge nella lettera del 1812 alla Teotochi Albrizzi che si è menzionata sopra, dove Foscolo spiega come il Viaggio fosse stato ritradotto «perch’era troppo fedele, e si sentiva l’inglesismo nella lingua, e lo stento nello stile» (Foscolo 1954, 176). Tale attenzione linguistica è direttamente subordinata all’effetto che avrebbe sorto sul suo lettore modello: il suo scopo come autore, rivela una lettera a Camillo Ugoni del 1813, è di «comporre de’ libri per chi non sa, ed allettarlo ad intenderli e a rileggerli» (Foscolo 1954, 411).

Foscolo non ambisce, nelle parole di Didimo in una delle prime redazioni dell’Avvertimento del traduttore, che al «titolo di buon cittadino» (Foscolo 1951, 192), il quale consiste nello stimolare le passioni nobili dei propri concittadini e nel preservare la lingua italiana dalla corruzione dei forestierismi, degli arcaismi e dagli eccessi della grammatica. E cittadinanza e lingua sono strettamente congiunti se, come scriverà appena due anni dopo nei Discorsi della servitù dell’Italia, è dalla lingua, e conseguente dagli scrittori, che dipende il titolo di nazione: non vi è quindi che da «[r]ingraziate la fama de’ vostri padri, benemeriti della rinata letteratura, se ancora vi rimane una lingua, e per essa il titolo di nazione» (Foscolo 1933b, 252–253). Come i padri della letteratura si assunsero la responsabilità di mantenere la lingua nazionale viva e libera, così gli scrittori al tempo di Foscolo, leggiamo nella seconda stesura dell’Avvertimento del traduttore nel Viaggio, devono prendersi uguali responsabilità verso i posteri:

Sono per quanto la necessità mel concede, rigidissimo osservatore dell’obbligo di mantenere libera e inviolata da’ modi strani e stranieri la lingua, come la men incerta e più nobile eredità lasciataci da’ nostri avi; e di preservarla dalla ostentazione dell’antichità, dall’idiotismo dei provinciali, e sopra ogni cosa da’ vezzi posticci della retorica, per tramandarla lucida, ricca e passionatissima a’ nostri figlioli (Foscolo 1951, 192).

La traduzione – che per sua natura prevede il confronto con lo straniero – è però una disciplina ardua per il poeta dal punto di vista delle responsabilità linguistiche: urge trovare una resa fedele delle passioni espresse nell’originale, senza che la lingua, e lo scrittore con lei, ne risulti asservita. In piena opera di ritraduzione, come leggiamo in una lettera all’amica Cornelia Martinetti del settembre 1812, Foscolo percepiva fortemente questa tensione: «sai tu ch’ei mi fa spesso arrabbiare? no, no, io non sono fatto dalla Madre Natura per servire mai; e la traduzione non è ella forse una servitù da scolare?» (Foscolo 1954, 148). La risposta adottata da Foscolo a questo auto-interrogativo è che quando la traduzione viene effettuata in prospettiva patriottica, e dunque ambendo a preservare la libertà della lingua d’arrivo, lo scrittore riguadagna la sua libertà autoriale e civica insieme. Il capitolo del Viaggio intitolato La traduzione, che vede Yorick andare al teatro dell’opera di Parigi, mostra questa dinamica in atto. Non appena Yorick fa per accomodarsi, il vecchio ufficiale seduto al suo fianco, inizialmente occupato a leggere il libretto dell’opera, si toglie gli occhiali, li ripone nella custodia e ripone tutto in tasca—un gesto gentile e silenzioso per favorire la conversazione con uno straniero arrivato a teatro da solo. A partire da questa reminiscenza, il narratore riferisce di un episodio analogo capitatogli a Milano: incrociata la Marchesina F*** ad un passaggio, Yorick tenta di spostarsi galantemente, ma la marchesina lo imita e la situazione si ripete involontariamente per diverse volte. Risolta quest’imbarazzante scenetta,

I had no power to go into the room, till I had made her so much reparation as to wait and follow her with my eye to the end of the passage—She look’d back twice, and walk’d along it rather side-ways, as if she would make room for any one coming up stairs to pass her—No, said I—that’s a vile translation: the Marquesina has a right to the best apology I can make her; and that opening is left for me to do it in—so I ran and begg’d pardon for the embarassment I had given her. She answered, she was guided by the same intention towards me—so we reciprocally thank’d each other (Sterne 2002, 77–78).

Foscolo traduce così la scena:

Ma io non trovava più modo d’entrare, se innanzi non mi fermava ad accompagnarla per tutto il corridoio con gli occhi, e riparare almeno così alla mia colpa. Ed ella si guardò dietro, e riguardò, e se n’andava rasente il muro, come per dar luogo a taluno che saliva le scale — Oibò, dissi — questa è traduzione plebea: posso far ammenda migliore, e la marchesina può giustamente pretenderla, e però m’apre quest’adito — onde raggiungendola la supplicai che mi perdonasse, e credesse ch’io non tendeva che a cederle il passo — Ed io a lei, rispos’ella — e ci siamo ringraziati scambievolmente (Foscolo 1951, 98–99).

A questa traduzione relativamente fedele alla lettera Foscolo aggiunge però una nota a pie’ di pagina molto interessante. Rispetto a quello che dovrebbe essere l’originale didimeo, Foscolo confida al lettore di avere emendato il manoscritto: «il testo ha: that’s a vile translation: e Didimo scrisse: questa è traduzione salviniana; scusandosi con la seguente postilla: “Quest’aggiunto, benché nuovo, è tutto italiano, e calzante e pieno di verità e necessario; e intendeva di parlare di quella specie di traduzioni [salviniane]”» (ibid.). Ora, Salvini altri non è che il traduttore dell’Iliade che Foscolo accusò di essere pedante e di avere reso l’Iliade “cadavere” in Sulla traduzione dell’Odissea, e si capisce dunque dal contesto dell’episodio che la traduzione è qui intesa da Foscolo non in un senso letterario stretto, ma, più ampiamente, come pratica di concordia civile basata sul presupposto che gli esseri umani siano animati da passioni positive che possono essere risvegliate con un linguaggio adeguato. Nel caso di Yorick sono i gesti a stimolare queste passioni e quindi la concordia. Foscolo estende il ragionamento alla letteratura tutta: il requisito per tradurre e per scrivere efficacemente, prima ancora della fredda proprietà linguistica, è l’avere un cuore. E il cuore è proprio ciò che i pedanti non possiedono, come ancora leggiamo nelle bozze di Della servitù dell’Italia:

Ben vedo che questo mio discorrere fra lo storico, l’apologetico ed il politico, darà noia a’ lettori di bell’ingegno, e peggio assai questo mio largheggiare di ripetizioni com’uomo in cui predomina il cuore. E così è, perché nella presente mia pellegrinazione bisogna pure ch’io lasci dettare a sua voglia al mio cuore; e solo col ridire quel che più gli sta dietro e gli duole, si riconforta. […] Non i begl’ingegni, ma deve intendermi il popolo, il quale da più anni tende le orecchie avidissime d’udire a ripetere mille volte le verità ch’ei sente, e non sa nè s’attenta d’esprimere (Foscolo 1933b, 239).

Yorick certamente non è un pedante, poiché il suo itinerario è a quiet journey of the heart in pursuit of nature, and those affections which rise out of her, which make us love each other—and the world, better than we do (Sterne 2002, 111); o, come traduce Foscolo questa frase del capitolo XLVI, un «viaggio del cuore in traccia della Natura e di tutti que’ sentimenti soavi che da lei sola germogliano, e che ci avvezzano ad amarci scambievolmente — e ad amare una volta un po’ meglio tutti gli altri mortali» (Foscolo 1951, 126). La citazione di questo capitolo è anche riportata dal Foscolo in nota al titolo della sua traduzione, quasi a dare la chiave di lettura dell’interpretazione foscoliana del Sentimental Journey. Il riferimento all’episodio chiamato Il passaporto, di cui il capitolo citato fa parte insieme ad altri cinque, rende questa chiave di lettura ancora più convincente. Di ritorno da una passeggiata a Parigi con una giovane fille de chambre, Yorick riceve la richiesta di esibire il proprio passaporto da parte dell’albergatore, sotto ordine di un lieutenant de police. Il protagonista, come egli stesso confessa, era partito da Londra con tanta fretta da essersi scordato della guerra tra Francia e Inghilterra (cioè la guerra dei sette anni, avvenuta tra il 1756 e il 1763; il Viaggio è ambientato nel 1762). Yorick si trova dunque in Francia senza autorizzazione alcuna, e gli viene prospettato il rischio di finire imprigionato alla Bastiglia. Per quanto inizialmente la sua ironia lo porti a convincersi dell’assenza di terrore nella parola Bastille, il verso incessantemente ripetuto da uno storno in gabbia volge a riportarlo alla realtà. Vale la pena citare ampiamente questo passo significativo, prima da Sterne:

I heard the same words repeated twice over; and looking up, I saw it was a starling hung in a little cage.—“I can’t get out—I can’t get out,” said the starling.
I stood looking at the bird: and to every person who came through the passage it ran fluttering to the side towards which they approach’d it, with the same lamentation of his captivity—“I can’t get out,” said the starling. […] The bird flew to the place where I was attempting his deliverance, and thrusting his head through the trellis, press’d his breast against it, as if impatient—I fear, poor creature! said I, I cannot set thee at liberty—“No,” said the starling—“I can’t get out—I can’t get out,” said the starling.
I vow I never had my affections more tenderly awakened; or do I remember an incident in my life, where the dissipated spirits, to which my reason had been a bubble, were so suddenly call’d home. Mechanical as the notes were, yet so true in tune to nature were they chanted, that in one moment they overthrew all my systematic reasonings upon the Bastille; and I heavily walk’d up-stairs, unsaying every word I had said in going down them.
Disguise thyself as thou wilt, still, slavery! said I—still thou art a bitter draught! and though thousands in all ages have been made to drink of thee, thou art no less bitter on that account.—‘tis thou, thrice sweet and gracious goddess, addressing myself to liberty, whom all in public or in private worship, whose taste is grateful, and ever wilt be so, till nature herself shall change—no tint of words can spot thy snowy mantle, or chymic power turn thy scepter into iron—with thee to smile upon him as he eats his crust, the swain is happier than his monarch, from whose court thou art exiled—Gracious heaven! cried I, kneeling down upon the last step but one in my ascent, grant me but health, thou great Bestower of it, and give me but this fair goddess as my companion—and shower down thy mitres, if it seems good unto thy divine providence, upon those heads which are aching for them
(Sterne 2002, 95–96).

Una tale, potente invocazione della libertà come valore principe con cui la natura investe le sue creature non dovette lasciare Foscolo indifferente. La sua interpretazione, rispettosa dello spirito originale, ne esalta alcuni accenti rendendola quasi un soliloquio di tragedia: l’apostrofe alla libertà viene ripetuta e intensificata con una punteggiatura più ricca di punti esclamativi, sino a giungere all’isolamento drammatico del «Te!»; e il servaggio viene, come la libertà e la natura già nell’originale, reso in maiuscoletto, a restituirgli un sovrappiù di enfasi.

Ritornando per l’andito, intesi dire e ridire le stesse parole, e alzando gli occhi vidi uno stornello in una gabbietta ivi appesa — I can’t get outI can’t get out, dicea lo stornello: Non posso uscire — Non posso uscire.
E stetti a mirarlo; e verso chiunque andava e veniva, quel tapinello dibattendo l’ali accorreva, e tuttavia lamentando con le stesse parole la sua schiavitù — I can’t get out, dicea lo stornello […].
L’uccello svolazzò dove io m’industriava di liberarlo; sporgeva il capo tra que’ ferretti e premevali come per impazienza col petto — Temo, povera creatura, gli dissi, ch’io non potrò darti la tua libertà! No, dicea lo stornello — I can’t get outI can’t get out; dicea lo stornello.
Giuro che gli affetti miei non furono più teneramente svegliati mai; nè mai nè in veruno di quanti accidenti io mi ricordi nella mia vita, gli spiriti traviati che abusavano della mia ragione rientrarono con pentimento sì volontario in sè stessi. Per quanto quelle note fossero materiali, risuonava in essere a ogni modo tal accento di natura e di verità, che in un batter d’occhio sbaragliò tutti i miei sistematici sillogismi su la Bastiglia. Io risaliva quasi a stento le scale, e fermandomi, per disdirmi d’ogni parola da me proferita scendendole.
Tu puoi condirti a tua posta, o indolente servaggio! io diceva – tu sei pur sempre un calice amaro; e sebbene i mortali nascano di generazione in generazione a migliaia per tracannarti, tu non per tanto non sei men amaro — Te! — te, o tre volte dolce e graziosa Dea! — Te o libertà! invocano tutti con solenni e con domestiche supplicazioni, Te che hai sapore gradito, e l’avrai finchè natura non rinneghi sè stessa — nè orpello mai di parole potrà contaminare il tuo candido manto, nè forza d’alchimia tramuterà in ferro il tuo scettro — teco, e se tu gli sorridi, mentr’ei mangia il suo pane, il pastore è più beato del suo monarca dalla corte del quale tu se’ sbandita — Dio misericordioso! esclamai inginocchiandomi sul penultimo gradino salendo — Dispensatore dell’universo! concedimi soltanto la sanità; e lasciami per unica mia compagna quest’amabile Dea! — piovano poi le tue mitre, se così parrà bene alla tua divina provvidenza, su quelle teste che si curvano di languore aspettandole (Foscolo 1951, 113–114).

Questo passo mostra il principale punto in comune tra Sterne a Foscolo, e cioè l’idea che la natura investa gli esseri umani, e anzi gli esseri tutti, di amore per la libertà e odio per il servaggio. Lo stornello, chiosa Foscolo nella sua nota a piè di pagina, diventa dunque «il nuovo cimiero di Yorick», vero e proprio «emblema dell’indipendenza di chi non è nè ambizioso nè avaro; quindi era immune dalle discipline della legge feudale d’Inghilterra, e dall’ira o dal favore delle sette politiche» (Foscolo 1951, 117). Immune dalla discordia delle sette e tutto concentrato sulla concordia della natura umana, Yorick ha raggiunto la sua indipendenza; e proprio le sette, avrebbe osservato Foscolo in Della servitù dell’Italia, ostacolavano l’indipendenza della nazione. «A rifare l’Italia bisogna disfare le sette. Potrebbe, se non disfarle, reprimerle il ferro straniero; ma allo straniero gioverà prima istigarle, onde più sempre signoreggiare per mezzo d’esse l’Italia» (Foscolo 1933b, 181), esordisce l’autore nella parte di Della servitù intitolata Discorso agli italiani di ogni setta. Non lesinando in precisione, con «[q]uesto vocabolo Setta» l’autore identifica

[lo] stato perpetuo di scissura procurata e mantenuta da un numero d’uomini, i quali, segregandosi da una civile comunità, professano, o pubblicamente o fra loro, opinioni religiose, o morali, o politiche, per adonestare segreti interessi, e sostenerli con azioni contrarie al bene della comunità (Foscolo 1933b, 182).

Il cittadino è chi con le sue azioni favorisce la concordia e il bene della comunità, mentre il servo e il tiranno, complici, espongono opinioni che cercano di dividere in sette. È quindi significativo l’ironico invito esteso ai monarchi di lasciare «patente in Italia l’arena de’ reciprochi vituperi» qualora essi ambiscano «ad avere più servi che cittadini» (Foscolo 1933b, 212).

Agli occhi di Foscolo, Yorick rappresenta il cittadino ideale, e il suo itinerario nel Sentimental Journey la piattaforma letteraria ideale per veicolare quelle idee di concordia cittadina che riteneva imprescindibili per il progetto di indipendenza italiana. La base da cui partire per raggiungere l’indipendenza è il riconoscimento di una comune natura umana che, a prescindere dalle distinzioni culturali, porta Yorick a guardare la giovane fille de chambre ed esclamare:

I felt the convinction of consanguinity so strongly, that I could not help turining half round to look in her face, and see if I could trace out any thing in it of family likenessTut! said I, are we not all relations? (Sterne 2002, 90)

fui vinto ad un tratto di tal sentimento di consanguinità, che mi fu forza di volgermi a considerarla in viso se mai vi raffigurassi alcun’aria di famiglia — Poh! Dissi; e non siamo noi tutti parenti? (Foscolo 1951, 109).

La fiducia di Yorick nella possibilità di una concordia umana è direttamente collegata alla sua libertà come autore e al suo disprezzo dei potenti e degli uomini servili, un punto che Foscolo esplicita chiaramente nell’ Avvertimento ai lettori: «Ma e voi, Lettori, avvertite che l’autore era d’animo libero, e di spirito bizzarro, e d’argutissimo ingegno, segnatamente contro la vanità de’ potenti, la ipocrisia degli ecclesiastici, e la servilità degli uomini letterati» (Foscolo 1951, 39). Quel «voi, Lettori» cui si rivolge Foscolo è lo stesso voi su cui è plasmata la lingua della ritraduzione. Come scrisse l’autore a Quirina Mocenni-Magiotti in una lettera del 1816: «Tu sai, e se nol sapessi sappilo d’ora in poi, ch’io prima (all’uso didimeo) traduco un autore per me: poi lo ritraduco per amor de’ lettori» (Foscolo 1966, 255). La differenza tra le due versioni, dunque, fu la rimodulazione del testo a favore del pubblico dei concittadini italiani; quel «per voi» appunto a cui fa riferimento Didimo nell’Avvertimento, e nel quale risuona la voce di Sterne:

Poiché assumendo il nome di Yorick, antico buffone tragico, [Sterne] volle con parecchi scritti, e singolarmente in questo libricciuolo, insegnarci a conoscere gli altri in noi stessi, e a sospirare ad un tempo e a sorridere meno orgogliosamente su le debolezze del prossimo. Però io lo aveva tradotto, or son più anni, per me: ed oggi che credo d’avere una volta profittato delle sue lezioni, l’ho ritradotto, quanto meno letteralmente e quanto meno arbitrariamente ho saputo, per voi (Foscolo 1951, 39).

Lezioni, queste, in ultima istanza interpretabili come un invito a fare della letteratura che, scritta nella lingua che meglio risuoni con il cuore degli uomini, possa così risvegliare in essi i valori della libertà comune. Foscolo e Didimo, spesso separati dalla critica, si uniscono nel difendere questa idea di letteratura: il doppio, che«andava pellegrinando per trovare un’università, “dove, diceva egli, s’imparasse a comporre libri utili per chi non è dotto […]”» e aveva una «naturale avversione contro chi scrive per pochi» (Foscolo 1951, 173–174), diventa tutt’uno con l’autore che, nella lettera di tre anni dopo al Conte di Fiquelmont, così preannunciava il suo esilio:

Ma per mia disavventura, le lettere, alle quali mi sono sino dalla puerizia alimentato, tendono a eccitare nobilissime e generose passioni per dirigere utili e giuste opinioni; nè parlano al solo intelletto, nè a’ sensi, ma al cuore, in cui sono le sensazioni miste intellettuali e sensuali; nè possono parlare a tutti i popoli […] presenti e futuri, se non con la lingua d’un solo popolo. Or io scrivo italiano, io tengo per generosa passione l’amor della patria, e per giusta opinione l’indipendenza nazionale, la tolleranza religiosa, la libertà di pensare, e sì fatte [cose], errori forse, ma radicati in tutto me stesso. Però nè potrei parlare se non italiano, nè parlare se non secondo il mio cuore; quindi non potrei stare sotto le leggi di un governo il quale trova necessario che la nazione abbia principj diversi da’ miei (Foscolo 1933b, 306–307).</blockquote>

Riferimenti bibliografici

Berti, 1942: Luigi Berti, Foscolo traduttore di Sterne, Firenze, Edizioni di Rivoluzione, 1942

Cerruti 1990: Marco Cerruti, Introduzione a Foscolo, Roma, Laterza

Chiarini 1927: Giuseppe Chiarini, La vita di Ugo Foscolo, a cura di Guido Mazzoni, Firenze, G. Barbera, 1927 (I edizione 1910)

Conetti 1992: Laurence Sterne, La vita e le opinioni di Tristram Sahandy, gentiluomo, Milano, Mondadori (traduzione di Lidia Conetti da Sterne 1978)

Fasano 1974: Pino Fasano, Stratigrafie foscoliane, Roma, Bulzoni

Foscolo 1933a: Ugo Foscolo, Lezioni, articoli di critica e di polemica (1809-1811), a cura di Emilio Santini, Firenze, Le Monnier

– 1933b: Ugo Foscolo, Prose politiche e letterarie dal 1811 al 1816, a cura di Luigi Fassò, Firenze, Le Monnier

– 1951: Ugo Foscolo, Prose d’arte varie, a cura di Mario Fubini, Firenze, Le Monnier

– 1952: Ugo Foscolo, Epistolario volume secondo (luglio 1804 – dicembre 1808), a cura di Plinio Carli, Firenze, Le Monnier

– 1954: Ugo Foscolo, Epistolario volume quarto (1812-1813), a cura di Plinio Carli, Firenze, Le Monnier

– 1955: Ugo Foscolo, Ultime lettere di Jacopo Ortis, a cura di Giovanni Gambarin, Firenze, Le Monnier

– 1966: Ugo Foscolo, Epistolario volume sesto (1° aprile 1815 – 7 settembre 1816), a cura di Emilio Santini, Firenze, Le Monnier

– 2009: Laurence Sterne, Viaggio sentimentale di Yorick lungo la Francia e l’Italia, traduzione di Ugo Foscolo, introduzione e note di Marisa Bulgheroni e Paolo Ruffilli, Milano, Garzanti (I edizione 1983)

Gentili 1997: Sandro Gentili, I codici autobiografici di Ugo Foscolo, Roma, Bulzoni

Meo 1974: Laurence Sterne, La vita e le opinioni di Tristram Shandy gentiluomo, traduzione di Antonio Meo, introduzione di Giorgio Melchiori, prefazione di Carlo Levi, Milano, Mondadori, 1974 (prima edizione, Torino, Einaudi 1958)

Pecchio 1830: Giuseppe Pecchio, Vita di Ugo Foscolo, Lugano, Ruggia e C.

Sterne 1978: Laurence Sterne, The Life and Opinions of Tristram Shandy, Gentleman (1759–1767), 2 voll., a cura di Melvyn New e Joan New, Gainesville, University Press of Florida

– 2002: Laurence Sterne, A Sentimental Journey and Continuation of the Bramine’s Journal (1768), a cura di Melvyn New e W.G. Day, Gainesville, University Press of Florida

Tripodi 1978: Vincenzo Tripodi, Studi su Laurence Sterne ed Ugo Foscolo, Madrid, Jose Porrua Turanzas,

Varese 1982: Claudio Varese, Foscolo: sternismo, tempo e persona, Ravenna, Longo

Viaggio 1792: Viaggio sentimentale del sognor Sterne sotto il nome di Yorick, Venezia, Antonio Zatta