Dal giovane Holden al vecchio Alex

LA MIMESI DELL’ITALIANO GIOVANILE TRA INVENZIONE E TRADUZIONE

di Stefano Ondelli

1. Assunti metodologici e descrizione del corpus

The Catcher in the Rye di Salinger, noto in italiano come Il giovane Holden, è considerato un romanzo di svolta non solo per i temi trattati ma anche per le innovazioni che introduce a livello linguistico, e questo è vero per l’originale americano (Costello 1959) come pure per la sua traduzione in italiano (per una panoramica, cfr. Gentili 2014). Fino a pochissimo tempo fa era lecito parlare di traduzione al singolare perché, in riferimento a questo romanzo (a cominciare dal titolo), il pensiero andava immediatamente alla versione einaudiana del 1961 a firma di Adriana Motti. Tale versione è stata nel tempo oggetto di svariate analisi, che ne hanno evidenziato sia gli aspetti positivi che quelli negativi; minori le osservazioni (cfr. Arcangeli 2007, cap. 1), anche per la circolazione più ristretta di cui ha goduto, che hanno riguardato la versione stesa quasi dieci anni prima da Corrado Pavolini con lo pseudonimo di Jacopo Darca (1952). Ci si poteva comunque attendere (come si è prontamente verificato) grande attenzione per la nuova traduzione realizzata, sempre per Einaudi, da Matteo Colombo nel 2014, tesa programmaticamente a svecchiare quello che ormai era diventato una sorta di canone di riferimento, spogliandolo dell’artificiosità che ne caratterizza in parte la resa di un registro informale fortemente permeato dalle scelte espressive caratteristiche degli adolescenti (Zanuttini 2014).

A voler semplificare i termini della questione da un punto di vista traduttivo, si può dire che Motti (e più ancora Darca prima di lei) si sia trovata di fronte a un compito doppiamente complesso: da una parte le tradizionali difficoltà insite nella resa di un testo nato in una lingua e cultura straniere (peraltro al tempo ben meno familiari di quanto non lo siano alla comunità italofona odierna), dall’altra lo scoglio della riproduzione di una varietà linguistica – quella colloquiale giovanile – che, negli anni della stesura sia del romanzo che della sua traduzione, aveva appena iniziato a formarsi (cfr. Sofri 1999). Se si guarda infatti alla periodizzazione proposta per la lingua dei giovani (Cortelazzo 1994, par. 3), ci si accorge che il periodo pre-politico, quello del secondo dopoguerra, quando si registra il sorgere delle varietà giovanili (Radtke 1993, 197), fa riferimento a momenti di aggregazione (il servizio militare, la scuola) di definizione piuttosto vaga, che inoltre riguardavano solo gruppi abbastanza ristretti della popolazione (i maschi nel caso del militare, o le élite italofone che proseguivano gli studi, a differenza di una vasta maggioranza dialettofona).

Di qui, probabilmente, la critica mossa a una certa artificiosità e creatività nelle scelte traduttive di Motti: se l’inglese americano di Salinger è innovativo proprio perché in un certo senso mimetico del comportamento linguistico degli adolescenti, l’italiano di Darca prima e Motti poi non può che essere in qualche modo il risultato di un assemblaggio artificiale di elementi presi a prestito dalle scarse risorse appartenenti a gerghi e registri bassi e a un parlato colloquiale che era ancora in gran parte limitato alla Toscana e alle zone limitrofe, innestate su un’intelaiatura inevitabilmente derivata dallo standard letterario. La situazione poteva ricordare quella del doppiaggio dei film, soprattutto di provenienza americana, la cui ambientazione richiedeva l’impiego di sintassi e fraseologia proprie dei registri bassi (cfr. Fiorelli 1994 e Rossi 2006, ma anche Arcangeli 2007, 16; nel caso in esame si tratta di espressioni come «dacci un taglio», «non c’è problema»,o aggettivi come«dannato», «lurido» e «sporco»). Tuttavia, a prescindere dagli inevitabili limiti, la traduzione di Motti ha avuto grande successo e resta il punto di riferimento per almeno un paio di generazioni di lettori che hanno trovato credibili gli intercalari («e via discorrendo», «e compagnia bella») e i volgarismi alquanto attenuati («stantuffare», «figlio di buona madre») messi in bocca a Holden Caulfield.

Delicata è stata dunque l’operazione condotta da Matteo Colombo, alla ricerca di un’attualizzazione dei modi di espressione dell’insofferenza giovanile del protagonista del romanzo di Salinger, e svariate sono le considerazioni da farsi nella valutazione dei risultati. Se si prescinde dagli aspetti strettamente legati alla trasposizione più o meno pertinente di realtà legate alla cultura americana (per es. i doughnuts, che Holden mangia col caffè, sono resi come «noccioline» da Darca, «frittelle» da Motti e «ciambelle» da Colombo, che ha avuto certamente il vantaggio di conoscere le abitudini alimentari di Homer Simpson; ma si veda anche la discussione sull’«eglefino» condotta da Whitsitt 2014), molte delle difficoltà consistevano ancora una volta nella resa dello stile franto, degli intercalari ossessivi e delle scelte lessicali più meno classificabili come appartenenti allo slang del narratore di The Catcher in the Rye. Se per Darca e Motti il problema era inventare un italiano giovanile che risultasse credibile in bocca a un coetaneo e coevo di Holden Caulfield, immagino che per Colombo il problema sia consistito nel selezionare un italiano giovanile che non suonasse artefatto, e quindi in qualche modo tenesse conto dello sviluppo che ha caratterizzato questa varietà linguistica, senza però mai dimenticare la distanza temporale. Secondo Zanuttini (2014), a Colombo «è stato affidato il delicatissimo compito di restituire al romanzo un tono e un linguaggio che non sia stantio, ma neanche impigliato in giovanilismi iperattuali e caduchi per definizione»; Holden Caulfield è pur sempre un rappresentante della comunità bianca che si prepara agli studi superiori nell’America del dopoguerra: se apre la strada al Jim Stark di Gioventù bruciata, non ha però ha visto le barricate del ’Sessantotto né, tantomeno, è un nativo digitale.

Scopo di questo studio è cercare di valutare le strategie seguite dai tre traduttori di The Catcher in the Rye con specifico riferimento agli aspetti legati alle scelte linguistiche relative alla dimensione diastratica, quindi alla giovane età del narratore. L’intento non è tanto giudicare se le varie traduzioni siano più o meno riuscite, quanto enucleare le diverse strategie impiegate per rendere in italiano una varietà linguistica che viene generalmente considerata centrale nell’economia complessiva del romanzo. Ora, per compiere questa operazione mi pare necessario dotarsi di un termine di paragone, e i numerosi studi ormai disponibili sull’italiano giovanile e le sue fasi di sviluppo offrono già un riferimento importante (oltre al già citato Cortelazzo 1994, tra i contributi più recenti segnalo Coveri 2014 e Marcato 2013, cap. VI), ma ho pensato che sarebbe stato più proficuo confrontare le scelte dei traduttori che ci interessano con la stilizzazione della lingua di adolescenti e postadolescenti offerta da autori italiani. Per valutare quanto la resa di un ipotetico italiano giovanile dell’inizio degli anni cinquanta si sovrapponga ai tratti assegnati all’italiano giovanile che si è effettivamente sviluppato solo negli ultimi trent’anni del Novecento (o ne diverga) ho preso in considerazione tre opere, anch’esse definibili come paradigmatiche della varietà stessa: Porci con le ali. Diario sessuo-politico di due adolescenti, di Marco Lombardo Radice e Lidia Ravera (1976: d’ora in avanti abbreviato in Ali), la raccolta di racconti di Pier Vittorio Tondelli Altri libertini (1980: Libertini), e Jack Frusciante è uscito dal gruppo di Enrico Brizzi (1994: Jack).

La selezione si è basata su più criteri: come già accennato, si tratta di opere che hanno goduto di grande successo di pubblico e possono essere considerate esemplificative della (sub)cultura e del linguaggio giovanile in tre momenti diversi del loro sviluppo: l’appropriazione della coscienza politica post-1968, il riflusso verso la sfera privata nel periodo delle radio libere successivo al 1977, l’individuazione di un gruppo di consumatori specifico con l’affermazione delle televisioni private a partire dalla seconda metà degli anni ottanta. I primi due testi, come e più di The Catcher in the Rye negli Stati Uniti, sono stati oggetto di censura. I protagonisti hanno circa l’età e la condizione di Holden Caulfield in Ali e Jack, mentre i personaggi di Tondelli, oltre che leggermente più anziani, sono ancor meno integrati nella società. Comune a tutti i testi è la struttura del romanzo di formazione (pur segmentata in diversi racconti da Tondelli), imperniato sulla ribellione dei personaggi, nei comportamenti sociali come nelle scelte linguistiche.

Dal punto di vista diatopico (elemento comunque importante nella definizione dell’italiano giovanile), le ambientazioni garantiscono una certa rappresentatività, portando il lettore dai licei romani e bolognesi di Ali e Jack a una via Emilia che conduce verso il nord dell’Italia e dell’Europa in Libertini. Questo ovviamente non significa che dalle tre opere prese come riferimento si possa estrarre un’immagine esaustiva dell’italiano giovanile: l’operazione sarebbe una contraddizione in termini, data la natura intrinsecamente transeunte di questa varietà linguistica. Se il linguaggio dei giovani funziona da collante di gruppo e viene impiegato per distinguersi dagli adulti, gli adolescenti degli anni novanta devono necessariamente esprimersi in maniera diversa dai loro coetanei di vent’anni prima, né si potrebbe mai pretendere che l’italiano del giovane Holden si sovrapponga a quello dei sedicenni di trent’anni dopo (in questo senso vanno infatti le affermazioni di Colombo nell’intervista rilasciata a Conca 2014). Tuttavia, l’analisi delle opere può estrapolare tendenze di fondo alle quali rapportare le strategie messe in campo dai tre traduttori del romanzo di Salinger. Insomma, si tratta di un modo per andare a vedere come ognuno abbia lavorato su questo livello del testo.

L’analisi è stata condotta su due subcorpora: il primo comprende le tre traduzioni (a cui d’ora in avanti ci riferiremo in forma abbreviata con “Darca”, “Motti” e “Colombo” e, collettivamente, subcorpus «traduzioni»), il secondo i tre testi narrativi italiani descritti sopra (collettivamente, subcorpus «originali»). I testi sono stati scansionati in formato digitale ed elaborati con il software di trattamento automatico dei testi Taltac2 (www.taltac.it), il programma di lemmatizzazione e pos-tagging Treetagger (http://www.cis.uni-muenchen.de/~schmid/tools/TreeTagger/; il tagset usato è quello di Achim Stein) e il servizio di analisi lessicale e della leggibilità Corrige! (http://www.corrige.it).

A una prima analisi introduttiva basata sulla misurazione automatica di ricchezza e densità lessicale, lunghezza dei periodi e distribuzione delle classi grammaticali, hanno fatto seguito indagini di tipo quali-quantitativo per lo più incentrate sul lessico. Si è deciso di privilegiare il livello lessicale perché, secondo la letteratura disponibile, esso riassume i caratteri fondanti dell’italiano giovanile. Se infatti testualità e morfosintassi ricalcano per lo più le caratteristiche generali del registro colloquiale e informale dell’italiano (proprio perché i giovani devono ancora completare la formazione linguistica e appropriarsi dei registri più alti), sono il riuso di elementi dialettali e gergali, la semantica (tramite lo sfruttamento di tutte le strategie di spostamento del significato) e la morfologia lessicale (scorciamenti, distorsioni e deformazioni scherzose) a rendere possibile l’espressività ludica che realizza la funzione identitaria di questa varietà linguistica.

2. Analisi automatica

2.1. Ricchezza lessicale

Tabella 1 – Ricchezza lessicale del subcorpus «traduzioni»

Salinger Darca Motti Colombo
N 77.553 70.190 72.224 71.548
V 4.361 7.296 7.550 6.979
V/N*100 5,62 10,39 10,45 9,75
V1/N*100 40,79 49,42 50,66 49,51
N/V 17,78 9,62 9,57 10,25

Anche se la nostra analisi intende misurare quanto le traduzioni divergano reciprocamente e nel confronto con i modelli italiani, senza preoccuparci troppo di rilevare la corrispondenza col testo originale, in questo caso è utile riportare le misure di The Catcher in the Rye (nella colonna denominata Salinger) perché ci permette le seguenti considerazioni: in primo luogo, in contraddizione con le previsioni dei cosiddetti «universali traduttivi» (Baker 1996), le traduzioni risultano più brevi del testo di partenza (riga Numero parole). I motivi possono essere molteplici, benché alcune dichiarazioni dei traduttori (in particolare in Nadotti, Colombo 2014, ma si vedano anche le osservazioni in Zagni 2014), unitamente alla minore ricchezza lessicale ((V/N)*100 e N/V) e il tasso molto contenuto di hapax legomena (cioè le parole che compaiono una sola volta nel testo: (V1/V)*100) per dei testi di così piccole dimensioni facciano pensare che nella resa verso l’italiano tutti abbiano preferito ridurre un po’ la tendenza alla ripetizione che caratterizza l’idioletto del protagonista (a mo’ di confronto, un campione analogo estratto da corpora giornalistici usati in precedenza da Ondelli, Viale 2010 riporta le seguenti misure: N= 73.533, V= 13.355, (V/N)*100= 18,16, (V1/V)*100= 57,91, N/V= 5,51).

In particolare, Colombo sembra aver rinunciato (programmaticamente, come ricordato nel citato carteggio con Anna Nadotti 2014: «Ho l’impressione che il nostro rigore sulle implicazioni psicologiche della ristrettezza lessicale e della tendenza alla ripetizione di Holden Caulfield sia una delle chiavi di volta di questa traduzione») a parte della variatio già perseguita di Motti e Darca, come dimostrano la minore ricchezza lessicale e il punto percentuale in meno di hapax (ma non rispetto a Darca). Probabilmente ciò può essere imputato al tentativo di essere meno aderente alla variazione sinonimica propria dei testi letterari e di aderire a scelte mimetiche del giovanilese (che risulterebbero meno erratiche). Resta il fatto che l’inglese di Holden Caulfield risulta quasi due volte più povero del suo italiano, probabilmente a seguito del maggior numero di ripetizioni e della forte incidenza delle parole grammaticali (ma si veda più sotto il par. 2.5.)

Tabella 2 – Ricchezza lessicale del subcorpus «originali»

  Ali Libertini Jack
N 51.154 50.644 43.165
V 8.197 9.233 8.289
(V/N)*100 16,02 18,23 19,20
(V1/V)*100 60,90 63,82 61,74
N/V 6,24 5,48 5,21

Le diverse dimensioni dei testi (N) rendono i confronti difficili sia all’interno del subcorpus delle opere scritte originariamente in italiano, sia tra queste ultime e le tre traduzioni. Tuttavia restano forti differenze (tra il 6 e il 10% in termini di ricchezza lessicale e tra il 10 e il 14% in termini di hapax), tali che la ricchezza lessicale espressa risulta quasi doppia nei romanzi non tradotti. A prescindere dall’universale traduttivo della semplificazione, in questo caso un peso determinante è assegnabile all’estrema povertà lessicale del testo originale in inglese. Anche stavolta, il confronto con un corpus di testi giornalistici di dimensioni paragonabili alle opere italiane (N=47.868, V=9.849, (V/N)*100=20,57, (V1/V)*100= 59,16, N/V= 4,86; il campione è sempre estratto dai materiali di Ondelli e Viale 2010) dimostra comunque che anche queste ultime si caratterizzano per una certa povertà lessicale, probabile indice dello sforzo mimetico dei registri bassi e colloquiali tipici della lingua dei giovani, con risultati più apprezzabili in Ali.

2.2. Vocabolario di base e leggibilità

Tabella 3 – Incidenza % del VdB e leggibilità

Darca Motti Colombo Ali Libertini Jack
Fondamentale 88,38 89,08 90,29 87,21 82,78 83,00
Alto uso 3,50 3,32 3,02 4,15 4,17 4,49
Alta disponibilità 1,56 1,45 1,22 1,28 1,69 1,61
Totale VdB 93,44 93,85 94,53 92,64 88,65 89,10
Non VdB 6,56 6,15 5,47 7,36 11,35 10,90
Gulpease 71 73 74 61 52 55

Per quanto riguarda l’incidenza del Vocabolario di base (VdB: le circa 7.000 parole più frequenti e comprensibili a tutti nella lingua italiana; per una descrizione cfr. http://www.corrige.it/leggibilita/vocabolario-di-base/), appare evidente lo scarto, in particolare, tra vocabolario fondamentale e vocabolario d’alto uso: nel confronto con il subcorpus «originali», nelle traduzioni risulta superiore il primo valore e inferiore il secondo. Rispetto alle traduzioni, anche la percentuale di lemmi non appartenenti al VdB è quasi doppia in Libertini e Jack, mentre Colombo e Ali si confermano i due testi più poveri lessicalmente dei due subcorpora e, alla luce dell’indice di leggibilità Gulpease (più alto è l’indice, più facile da comprendere il testo; cfr. http://www.corrige.it/leggibilita/lindice-gulpease/), anche i più facilmente comprensibili. Insomma, tutte le misurazioni automatiche finora condotte sembrano puntare a una maggiore semplicità delle traduzioni rispetto alle opere dei narratori italiani, il che ci fa supporre un’imitazione più spinta della varietà orale e dei registri bassi e colloquiali della lingua.

Tra le opere non tradotte gli scarti sono sicuramente di minore entità: i dati registrati per Ali si avvicinano maggiormente a quelli delle traduzioni, mentre Libertini fornisce (ma per poco, nel confronto con Jack) la percentuale maggiore di hapax, l’incidenza più alta di lemmi non appartenenti al VdB e l’indice Gulpease più basso (Jack risulta invece il più ricco lessicalmente). Insomma Ali sembra imitare di più la varietà orale, mentre Libertini e Jack rimarrebbero più ancorati alla variatio dello scritto (ma cfr. sotto par. 2.5. per i dati sulla densità lessicale). Occorre però tener conto del fatto che non sempre ciò che è escluso dal VdB rappresenta lessico di registro alto e “difficile” (per es. potremmo avere degli inserti dialettali o regionali, o dei nomi propri) e che l’indice Gulpease risente molto della lunghezza delle frasi, che secondo Corrige! risulta diversa dai valori medi che ho calcolato manualmente in base ai segni di punteggiatura, anche se si conferma la tendenza di fondo (cfr. tabella 4).

2.3. Lunghezza media dei periodi e punteggiatura

Ho rilevato con Taltac2 le occorrenze dei segni di interpunzione e ho semplicemente diviso il totale delle occorrenze per i segni forti che segnalano il confine di frase. Per completezza, riporto alla Tabella 4 anche i valori medi calcolati da Corrige! e altri segni aventi potenzialmente valore sintattico.

Tabella 4 – Punteggiatura e lunghezza media dei periodi (valori assoluti)

Salinger Darca Motti Colombo Ali Libertini Jack
Fermo 6.466 6.294 6.242 6.358 2.903 1.246 1.888
Interrogativo 669 679 670 672 296 138 220
Esclamativo 129 127 205 135 47 157 61
TOTALE 7.264 7.100 7.117 7.165 3.246 1.541 2.169
Occorrenze 77.553 70.190 72.224 71.548 51.154 50.644 43.165
Lunghezza media 10,68 9,89 10,15 9,99 15,76 32,86 19,90
Idem secondo Corrige 10,62 10,49 10,33 17,63 39,45 23,19
Punto e virgola 2 17 31 0 27 39 115
Due punti 6 119 74 84 251 9 166
Virgola 4.529 4.311 4.494 4.505 3.772 2.990 3.650
Parentesi 0 5 0 0 280 1 51

 Il calcolo è reso più complicato dallo status ambiguo dei tre punti di sospensione: The Catcher in the Rye conta 22 occorrenze, a cui si aggiungono 639 casi di trattini che indicano sia frasi incidentali che interruzioni e cambi di progettazione, ma anche parole composte come corny-looking. Negli originali i trattini, oltre che per introdurre commenti incidentali, in Ali servono a costruire etichette descrittive come «studenti tipo-dove-hai-passato-le-vacanze»; «la femmina-che-vuole-il-suo-uomo-tutto-per-sé» (cfr. Arcangeli 2007, 32); Jack, invece, ricorre alle maiuscole («Serata Etilica E Stai A Dormire Da Me»), a composti polimembri del tipo «telefoto-presagio», «Martino-Zorro», «Martino-Sandokan», «Martino-Goldrake» (più originali in Jack rispetto ai «discorsi-fiume», le trame «erotico-romantiche» e il «fondo-spesa» di Ali) o giochi fonici quali la sillabazione come «nan-ni Mo-ret-ti! fran-ce-scAr-chi-bu-gi!». In Libertini l’uso, molto ridotto, dei trattini non presenta particolarità degne di nota.

Fondamentalmente, tuttavia, si conferma la scarsa propensione dei traduttori, ipotizzata dalla teoria degli «universali traduttivi», a intervenire sui confini frastici del testo di partenza: le differenze nella lunghezza media delle frasi sono minime e comunque indicano che l’originale di Salinger è caratterizzato da frasi più lunghe, seppur di poco (ma ricordiamo che le traduzioni sono nel complesso più brevi dell’originale di riferimento).

Salinger utilizza di più il punto fermo, mentre fra i traduttori, oltre alla spiccata preferenza accordata da Motti alle frasi esclamative, si nota la tendenza a ricorrere a segni interpuntivi forti come il punto e virgola (ma quest’ultimo è assente in Colombo) e (soprattutto) i due punti, probabilmente per unire frasi isolate che altrimenti risulterebbero in un italiano eccessivamente franto. Rimane comunque il fatto che la lunghezza media delle frasi nelle traduzioni è da 1,5 a 3 volte inferiore a quella delle opere italiane, con Ali ancora una volta più spostato verso una semplificazione delle strutture sintattiche (non a caso Arcangeli 2007, 32, parla di una «grammatica aperta sul parlato»), mentre Libertini spicca per le «lunghe sequenze le cui unità sintattiche sono tenute insieme dai più elementari anelli di coordinazione […] e solo raramente “disturbate” dall’intromissione di subordinatori» (ibid., 66). Per il resto, ogni autore mostra preferenze personali quanto all’uso di costrutti interrogativi, esclamativi e parentetici, oltre all’impiego dei due punti e del punto e virgola.

2.5. Densità lessicale e distribuzione delle classi grammaticali

Dopo aver assegnato automaticamente con Treetagger le forme grafiche dei due subcorpora alle varie classi grammaticali, ho proceduto al calcolo dell’incidenza delle parole “piene” (aggettivi, avverbi, nomi e verbi) e “vuote” (articoli, congiunzioni, preposizioni e pronomi; cfr. Tabella 5). Si noti che il totale delle forme non è pari ai valori di N visti sopra perché Treetagger assegna etichette aggiuntive che qui non sono comprese, e questo vale per tutte le tabelle di questo paragrafo. È bene segnalare inoltre che la categoria dei nomi comprende anche i nomi propri e che quella degli avverbi è stata assegnata in toto alle parole piene, anche se a rigore andrebbero distinti gli avverbi aventi valore lessicale (per es. velocemente) da quelli con valore grammaticale (per es. poco).

Tabella 5 – Densità lessicale (valori assoluti)

Darca Motti Colombo Ali Libertini Jack
Piene 44.380 44.707 45.503 31.536 30.266 26.986
Vuote 25.476 27.046 25.575 19.269 20.132 15.823
P/V 1,74 1,65 1,78 1,64 1,50 1,70

Pur tenendo conto dell’impatto delle dimensioni dei testi, le differenze non sono enormi, con Colombo (ma di poco superiore a Darca) nelle traduzioni e Jack che tra i testi italiani registra la densità superiore, mentre Libertini registra quella inferiore (e infatti evidenzia una maggiore lunghezza media dei periodi). Quel che è più interessante è la netta preponderanza, anche nelle traduzioni, che finora erano sembrate orientarsi di più alla mimesi di alcune caratteristiche generali dell’oralità, delle parole piene (pur tenendo conto dello status incerto degli avverbi): ciò permette di attribuire senza alcun dubbio tutti i testi alla varietà scritta dell’italiano, poiché i testi orali vedono di norma una leggera preminenza dalle parole grammaticali (Cresti 2005).

Passando alla distribuzione delle classi grammaticali (o Parts of Speech – POS), risulta inutile fare riferimento ai valori assoluti, viste le leggere differenze di dimensione all’interno del subcorpus delle traduzioni, che però aumentano nel confronto con i testi italiani. Tra l’altro, nell’attribuzione delle classi grammaticali, Treetagger utilizza etichette diverse e non sempre sovrapponibili a seconda delle lingue, rendendo problematici eventuali confronti. Tuttavia, a titolo puramente indicativo, riportiamo i valori percentuali relativi al testo inglese di The Catcher in the Rye: Aggettivi 5,93; Avverbi 11,51; Nomi 17,81; Verbi 24,18; Art 8,69; Congiunzioni 4,09; Preposizioni 8,96; Pronomi 18,81; rapporto Parole piene/Parole vuote: 1,46. La Tabella 6 riporta dunque i valori come percentuale sul totale delle occorrenze delle traduzioni.

Tab. 6 – Distribuzione % delle classi grammaticali nel subcorpus «traduzioni»

Darca Motti Colombo
Aggettivi 7,88 8,14 7,75
Avverbi 11,12 9,97 10,19
Nomi 21,02 20,82 20,51
Verbi 23,65 23,38 25,40
Articoli 6,98 7,02 6,79
Congiunzioni 5,66 6,04 5,82
Preposizioni 12,02 11,74 11,64
Pronomi 11,67 12,89 11,89

Le differenze più significative (oltre l’1%) riguardano preponderanza delle voci avverbiali in Darca (forse riconducibile all’influenza dell’inglese dell’originale), benché non accompagnata da un’alta incidenza di verbi nel confronto con gli altri due testi. Più numerose le forme verbali in Colombo (forse indicazione di un registro più colloquiale perché meno soggetto alla nominalizzazione), a cui fa da contraltare una minore incidenza dei pronomi rispetto a Motti (come in Darca, probabile segnale di affrancamento dall’universale linguistico dell’esplicitazione e, soprattutto, dall’influenza della lingua fonte). Colpisce in tutti i testi la netta prevalenza dei verbi sui nomi, tratto ascrivibile alla varietà orale dell’italiano, ma non in termini così marcati se si considerano i dati ottenuti da Cresti (2005), che riporta rispettivamente il 19,51% e 19,80%.

Tab. 7 – Distribuzione % delle classi grammaticali nel subcorpus «originali»

  Ali Libertini Jack
Aggettivi 8,97 7,42 10,11
Avverbi 10,95 9,72 8,43
Nomi 20,44 23,44 26,04
Verbi 21,71 19,46 18,46
Articoli 7,34 7,71 7,72
Congiunzioni 6,81 8,66 6,10
Preposizioni 11,94 11,93 14,78
Pronomi 11,83 11,65 8,36

Pur tenendo conto dell’impatto delle diverse dimensioni dei testi sui dati riportati in tabella, colpiscono i valori relativi a quasi tutte le classi grammaticali (tranne congiunzioni e preposizioni) di Jack, caratterizzato in particolare da una forte aggettivazione e nominalizzazione e dal conseguente calo di verbi e avverbi. Dei tre testi, solo Ali vede una leggera prevalenza dei verbi, coerentemente con la distribuzione caratteristica dei testi orali (e quindi dei registri bassi della lingua).

Il confronto dei due subcorpora conferma la posizione eccentrica di Jack per l’alta nominalizzazione e aggettivazione e il basso tasso di verbi e avverbi, ma anche Libertini registra una maggiore incidenza dei nomi nel confronto con le traduzioni. La causa potrebbe essere da ricercare in una mimesi più marcata del parlato da parte di Salinger, ma anche nell’influenza sulle traduzioni dell’inglese, notoriamente una lingua che tende a sottosfruttare la nominalizzazione nel confronto con l’italiano (cfr. Scarpa 2001, par. 2.2.1. e 4.4.1.).

Tabella 8 – Dettaglio della morfologia pronominale e verbale: distribuzione %

Darca Motti Colombo Ali Libertini Jack
Pronomi dimostr. 1,58 1,67 1,05 1,07 0,98 1,08
Pronomi personali 4,28 4,99 5,19 5,05 3,98 2,52
Congiuntivi 0,84 0,79 0,70 0,73 0,89 0,60
Condizionali 0,84 0,65 0,54 0,55 0,18 0,69
Gerundi 0,60 0,55 0,78 0,52 0,38 0,41
Imperfetti 4,82 5,12 4,84 1,41 0,60 4,78
Participi passati 2,50 2,64 5,42 3,29 2,46 3,89
Presente 4,76 5,36 8,55 3,29 2,46 3,89
Pass remoto 3,59 3,21 0,04 0,14 0,04 2,52
Futuro 0,28 0,18 0,16 0,36 0,47 0,32

Per quanto riguarda la morfologia pronominale, notiamo la presenza assolutamente sporadica ed equamente distribuita del neutro ciò in entrambi i subcorpora (7 occorrenze nelle traduzioni, 6 negli originali). Inoltre, nelle traduzioni di Darca e Motti si nota un certo sovrasfruttamento dei pronomi dimostrativi, probabile indice dell’universale traduttivo dell’esplicitazione e, forse, dell’influenza dell’inglese (cfr. Ondelli e Viale 2010, 40), che può essere chiamata in causa anche per spiegare la leggera sovrarappresentazione dei pronomi personali, probabilmente legata all’espressione obbligatoria del soggetto nel testo originale. Se però si considerano solo i pronomi soggetto di prima e seconda persona, tipicamente più presenti nei dialoghi e negli scambi comunicativi orali, Ali e Libertini registrano i valori più alti (rispettivamente 0,96% e 0,87%), mentre fra le traduzioni è Motti a usarli con maggiore frequenza (0,76%). Darca contiene anche le forme «noialtri/e» (1) e «voialtri/e»(rispettivamente 10 e 2 occorrenze in Colombo), che tra gli italiani trovano riscontro anche in Jack (5 e 1). Praticamente assenti le forme standard della terza persona: 3 occorrenze di «ella» e 1 di «egli» in Ali, ma utilizzati a fini parodistici del registro aulico letterario, come pure l’unico «egli» rinvenuto in Jack e l’unica «essa» in Motti e Colombo. Solo in Darca «essi» è presente in un dialogo senza intenti parodistici.

Passando alla morfologia verbale, si può notare che la frequenza di congiuntivo e condizionale cala nella transizione da Darca a Motti a Colombo, e in generale le traduzioni sfruttano questi modi verbali leggermente di più degli autori italiani. Colpisce lo squilibrio tra congiuntivo e condizionale in Libertini, che effettivamente contiene pochi costrutti ipotetici, mentre abbonda di comparative («come>> + congiuntivo imperfetto) o strutture analoghe («quasi» o «neanche»/«nemmeno» + congiuntivo imperfetto). La maggior frequenza del gerundio nelle traduzioni è in parte spiegabile con la frequenza dell’espressione «e via dicendo» in Motti e Colombo; un ulteriore fattore può essere l’influenza crescente della forma progressiva to be + -ing dell’originale inglese (le forme in –ing rappresentano il 2,17% del vocabolario di The Catcher in the Rye): in Colombo troviamo impieghi innovativi del costrutto «stare» + gerundio in accezione continua (come in «Stai morendo di freddo, eh?» o «Stavo morendo di imbarazzo»; cfr. Cortelazzo 2012a).

Per quanto riguarda l’indicativo, oltre a notare un uso inferiore del futuro nelle traduzioni (si registra ancora una diminuzione progressiva nelle tre versioni del romanzo), a cui è difficile trovare spiegazione (ma ricordiamo che l’italiano dell’uso medio, secondo Sabatini 1985, registra una minor fortuna del futuro nel suo senso temporale, mentre guadagna terreno l’accezione epistemica), occorre ricordare che Treetagger non riesce a individuare il perfetto composto, che viene classificato come occorrenze distinte di presente indicativo e participio perfetto. Ne consegue una certa difficoltà nei paragoni: Colombo, come si sa, decide di utilizzare il perfetto composto come tempo della narrazione, scelta che è stata considerata «una boccata d’aria fresca» (Zanuttini 2014; ma si vedano le osservazioni svolte su tempi verbali e tipi testuali in Cortelazzo 2012b, 46 e segg.). Si tratta di una scelta alquanto originale, poiché anche nell’italiano contemporaneo il perfetto semplice mi pare resistere tenacemente come tempo della fiction, accanto al presente, che infatti è la scelta operata sia da Tondelli che da Lombardo Radice e Ravera, come dimostra la sostanziale assenza dell’imperfetto in Libertini e Ali.

2.6. Conclusioni sull’analisi automatica

Alla luce dei dati ottenuti con i software a disposizione, è possibile concludere che le traduzioni recano ovviamente l’impronta lessicometrica del testo originale e, di conseguenza, registrano valori molto più bassi del subcorpus di controllo comprendente le opere italiane. Analoghe considerazioni valgono anche per incidenza del vocabolario di base, indice di leggibilità e lunghezza media dei periodi, che risentono dello stile molto particolare di The Catcher in the Rye. Le differenze si riducono se si guarda alla densità lessicale, che denuncia comunque la natura scritta di tutti i testi. Altri dati relativi all’analisi morfologica, invece, come la tendenza alla nominalizzazione, la frequenza di pronomi dimostrativi e personali, l’impiego del perfetto semplice o della perifrasi progressiva, possono essere intesi come spie dell’influenza dell’inglese in generale sulle traduzioni italiane. Resta il fatto che la traduzione più recente, quella di Colombo, sembra fare proprie con maggiore decisione le scelte mimetiche del parlato operate da Salinger (ma non per quanto riguarda la densità lessicale).

Anche se, in generale, i testi degli autori italiani risultano lessicalmente più ricchi e più difficili da leggere delle traduzioni qui considerate (soprattutto a causa della lunghezza dei periodi), il subcorpus degli autori italiani fa registrare, come è ovvio, una maggiore variazione interna. In particolare si nota il diverso taglio narrativo che distingue Ali e Libertini da una parte, che optano per i tempi commentativi (Weinrich 1978) della narrazione al presente e la conseguente preponderanza della prima e seconda persona dei pronomi personali, e Jack dall’altra, che ha invece un taglio più tradizionalmente narrativo nella scelta dei tempi verbali, con una maggiore nominalizzazione e aggettivazione.

Un’ultima considerazione riguarda la natura dei tratti estratti con l’analisi automatica: si tratta in generale di misurazioni tese a indagare fenomeni ritenuti caratteristici della varietà orale e dei registri bassi della lingua italiana, che quindi sono collegati solo indirettamente alle modalità di espressione dei giovani. Un sondaggio sui fatti lessicali potrà dire di più sull’aderenza all’italiano giovanile da parte del giovane Holden.

3. Aspetti lessicali

Come si è detto in apertura (par. 1.), il livello fondante dell’italiano giovanile è quello lessicale, poiché da punto di vista della morfosintassi i tratti identificati in letteratura si sovrappongono alle caratteristiche dei registri informali e della varietà orale della lingua. D’altro canto, è implicito che una varietà linguistica che trova nel continuo rinnovamento la sua ragione d’essere (i giovani di domani dovranno esprimersi in maniera diversa da quelli di ieri, che nel frattempo sono diventati adulti) debba affidarsi alla creatività lessicale, poiché più difficile sarebbe introdurre continue novità di tipo sintattico e morfologico.

Pur dando per scontata la natura transeunte di gran parte degli aspetti lessicali, è possibile individuare alcune costanti di fondo che permettono, appunto, di individuare la varietà giovanile. Queste riguardano una serie di fenomeni funzionali all’espressività ludica del discorso, che si declinano prima di tutto nell’uso creativo di risorse morfologiche tradizionali (suffissazione e prefissazione, deformazioni scherzose e distorsioni foniche – anche in funzione eufemistica – sigle e scorciamenti) e poi, a livello semantico, nel frequente uso di figure retoriche (iperboli, antifrasi, metonimie, antifrasi, banalizzazioni e antonomasie).

Sempre per quanto concerne la semantica, si riscontra il riferimento costante agli interessi tipici del gruppo di età: la scuola (ed emerge lo strato gergale più tradizionale), il sesso, gli interessi che fanno da collante al gruppo come moda e musica (ma anche i mass media), la ribellione intesa come turpiloquio, ma anche riferimenti a comportamenti trasgressivi quali l’uso di droghe e alcool, oltre a forestierismi e pseudo tali in quanto riferimento al viaggio come possibilità di fuga dalla realtà degli adulti.

Per sondare le peculiarità di ciascun testo, e quindi procedere al confronto tra i due subcorpora, è possibile sfruttare le risorse lessicali sia di Corrige! sia di Treetagger: il resoconto ortografico offerto dal primo segnala le forme che non riconosce come appartenenti al patrimonio dell’italiano, che considera ortograficamente errate, che potrebbero essere non adatte al contesto e, infine, le parole potenzialmente imbarazzanti e volgari; la lemmatizzazione realizzata dal secondo etichetta come sconosciute tutte le forme che non rientrano nella base di dati. Occorre dunque abbandonare l’approccio quantitativo seguito finora e affidarsi a uno spoglio manuale dei dati per selezionare i fenomeni ritenuti significativi, al fine di valutare quanto siano “fuori norma” i vocabolari dei testi analizzati (le ricerche lessicali sono state svolte su GRADIT e GDLI).

3.1. Darca

La resa del registro colloquiale viene affidata da Darca in primis alla mimesi del parlato intesa come riproduzione grafica della pronuncia tramite l’apocope dell’infinito («ballar», «cascar», «far», «raccoglier», «riprender») e qualche aferesi non innovativa («‘ste» per «queste»). Altri troncamenti rendono (come già nell’originale di Salinger) le interruzioni dell’eloquio («convers…», «domat…», «intell…»), mentre le esclamazioni più frequenti («per amor di Dio» e «per amor di Gesù Cristo», «gesummio», ma anche l’inarticolato «hum») denunciano l’influenza dell’inglese (ma troviamo anche «paf» e «shhh», «be’», «beh», «ehi», «eh», «embe’» e il prolungamento del suono «nooo»).

Passando alle scelte lessicali vere e proprie, non sono infrequenti i verbi con clitico cristallizzato del tipo «battermela» e «smettila», come pure gli alterati; a titolo di esempio troviamo: «blocchettini», «chiacchieratina», «cricchette», «litigatina», «localetto», «papino», «quarticello» (nel senso di 15 minuti), l’improbabile «ragazzinetta», «sottanine», «vocettina», ma anche «benone», «faccione», «vigliaccone», il quantificatore («un) tantinello». Tra i genericismi si segnala «tizio»; tra le scelte di registro familiare «trincare», «macinini» per automobili (peraltro usato impropriamente: «macinini inglesi che vanno a duecentocinquanta»).

Queste scelte si posizionano a cavallo tra la varietà orale e l’italiano dell’uso medio, mentre il giovanilese viene veicolato da neologismi come il ben noto (De Mauro 1992, 189) «gettonare», coniugato in vari tempi e persone nel senso di «chiamare al telefono» e, forse, «penarsi» col significato di “pentirsi” («cominciavo a penarmi, per così dire, di averle detto di chiamarmi Rudolf Schmidt»), a cui si aggiungono l’uso frequente di «asso» per indicare una persona eccezionale (oggi probabilmente diremmo «figo») e l’anglicismo (ormai disusato) «ganga». Tra le parole imbarazzanti, Corrige! segnala volgarismi e insulti come «boia» (anche come elativo in comparativa: «cigola come un boia»), «boiata», «cazzo», «cesso», «chiappe», «chiappette», «ciccione», «cornuto», «cretino», «fottere», «fottio», «fottuto» o «fottutissimo», «merda» e «merdoso», «pisciata» e «pisciare», «puttana», «rincretinito», «scemo», «schifo» (ma, differenza di Motti, sempre usato come sostantivo, mentre l’aggettivo è «schifoso» o anche «schifosissimo»), «scorreggia», «strafottere», «tette». Emergono però anche eufemismi come «didietro» e «popoino», e la voce dotta «pederastia».

I regionalismi possono essere ascritti al lessico giovanile sia in quanto tali (purché non dominante, in quanto conservatore, il dialetto è uno dei serbatoi lessicali), sia in quanto spesso ascrivibili al filone disfemistico. Da questo punto di vista il giovane Holden di Darca risulta, se non proprio romano («burino», «caciara», «frescaccia» e «frescone», «peciona» e «pizzardone», «puzzone» e «puzzonata», «zozze», «zozzerie» e «zozzona» in luogo di «sozzone») per lo meno centro-meridionale: «cafone» e «cafonissime», «incocciare» per «incontrare» qualcuno, «pedalino», «schiaffare», «scocciare», «scocciatissima» e «scocciatura», «slentare» per «allentare», l’originale «fetenzeria» in luogo del napoletano «fetenzia», ma anche «fetente» e «inguaiarsi» (mentre è centrosettentrionale «brozzoloso» per «bitorzoluto»). Tuttavia, il sedicenne ritratto da Darca ricorre anche a toscanismi («berciare», «grullo», probabilmente anche «bellino» come sinonimo di «carino») e presenta oscillazioni verso i registri alti che, dato il contesto in cui emergono, non possono essere attribuiti al riuso scherzoso tipico dei giovani, specie se scolarizzati. Voci letterarie o ricercate comprendono «bistorta», «cocce» per «bucce» o «gusci», «fantolino», aggiungerei anche «pedicelloso» per «brufoloso» o «foruncoloso», «vitaiolo»per viveur.

Passando all’amore dei giovani per le lingue straniere, in questa traduzione Holden dimostra una certa famigliarità con il francese (galoches, morgue, nécessaire, nonchalant, première, purée, tassì), mentre l’inglese emerge per influsso del testo di partenza nella grafia (doberman viene reso con una sola n come in Salinger, mentre Motti e Colombo correggono in dobermann), nei prestiti non adattati (bacon e tap-dance, mentre cents, cocktails e sports mantengono la s del plurale), e nelle traduzioni più o meno letterali: «latte maltato», l’epiteto «collilunghi» rende rubbernecks, «fischiatore» corrisponde a whistler e «acchiappatore» a catcher. Al testo di partenza è possibile ricondurre anche la notevole frequenza di avverbi in mente (cfr. Tabella 6), tra cui «dannatamente», «dispettosamente», «puerilmente», «schifosamente», «sfacciatamente», «spaventosamente» ecc.

Per concludere con le caratteristiche grafematiche, la famigliarità con il francese è confermata dagli accenti circonflessi nella presentazione di una delle cantanti del Wicker Bar: «E adesso vorremmo dârvi la nôstra interpretaziône di Vuly Vu Fransè. È la stôria di una piccolina bambinêtta franscese che viene in una città grande grande prôprio come New Yôrk e s’innamôra di un piccolo bambinêtto di Brooklìn. Speriâmo che vi piacerà».

L’attenzione agli accenti si estende anche all’italiano («abbandònati», «do», «méttono», «pèrdono»), mentre tra le scelte grafiche peculiari si segnalano «alcoolizzato», «diecina», «decapottabile», «liquorizia», «psicoanalizzare», «Shangai» (come Motti, mentre Colombo scrive «Shanghai»), «sinussi» e «sinussite» (sinus trouble), «valige» (come in Motti) e «sésame», a suo tempo già segnalato da Guandalini 2014 («Pavolini traduceva “sésame”, per dare una connotazione biblico-letteraria al sogno di Holden»).

3.2. Motti

La versione di Motti è quella che produce il minor numero di segnalazioni da parte del software per l’analisi lessicale. Per quanto concerne la mimesi del parlato, l’accento francese è affidato principalmente alla segnalazione grafica della fricativa uvulare: «È la istorria di una piccola rragazza franscese che arrrriva di una grrande scittà, prroprrio come New Yorrk, e diviene amorrosa di un piccolo rragazzo di Brruklin».

A parte il raddoppiamento fonosintattico nell’univerbato «pallavvolo», la resa della velocità d’eloquio si affida all’apocope verbale («sparar», «veder» ecc.) e alle interruzioni («idio…», «intell…» o «intellig…»). Tra le forme “sospette” segnalate da Corrige! si annovera qualche esclamativo («be’», «ehi»), ma il tratto più significativo è probabilmente la presenza di pleonasmi pronominali («a lui gli dispiace», «a lei le bastano», «a me mi faceva sempre girar le scatole»). Gli alterati non riconosciuti da Treetagger sia in Motti («vestitino», «valigione», «tipaccio», «tavolinetto», «genitorucoli» ecc.) che in Colombo sono oltre quattro volte più numerosi che in Darca, principalmente a causa degli aggettivi superlativi in -issimo («simpaticissimo», «seccantissimo», l’improbabile«mediocrissimo», «arrabbiatissimo» ecc.) che veicolano l’enfasi espressiva del parlato in generale e della varietà giovanile in particolare. Tra le varie forme, spiccano per numerosità «ragazzino/a»(45 occorrenze se si contano anche «ragazzetto/a», ma troviamo anche il letterario «giovinotto»), i non comuni «sgrugnone» (accanto a «cazzottone») e «schiappini», il colloquiale «scassone» per “automobile in cattive condizioni”, l’eufemistico «sederino», lo stereotipo «momentino». Pochi, rispetto a Darca, gli avverbi in mente e i verbi pronominali.

Gli accenni al giovanilese si limitano a voci informali come l’aggettivo «barbosi» (sempre che possa essere considerato giovanile), l’espressione fissa «comesichiama», il composto «fratello-spugna», l’uso aggettivale del participio«sborniato» («ero sborniato») e «sfessato» (probabilmente nell’accezione poco comune di «sciocco»); tra i regionalismi: «manfrine» e il meridionalismo «casamicciola». Si può aggiungere l’aggettivo «spompato», mentre più dubbia (almeno oggi) pare l’attribuzione al giovanilese di colloquialismi come «ghingheri» (anche nel derivato «inghingherati», a cui si aggiunge il sinonimo non comune «infronzolare»), l’eufemistico (per quanto rafforzato dal prefisso) «strainfischiarsene», per non parlare del famosissimo «vattelapesca».

Anche le parole segnalate come “imbarazzanti”, lo sono talvolta più per il riferimento alla sfera sessuale («capezzoli», «pomiciare» e «pomiciata») o a concetti poco piacevoli («pidocchiosi», «scaracchio», «sputare») che per il valore disfemistico (cfr. le osservazioni di Zagni 2014). Si segnalano comunque «boiata», «bordello», «bottarella», «cafone», «ciucco» per «ubriaco», «cretino» e «cretinata», «culone» (ma più frequente è «didietro» come parte anatomica), il neologismo «a culoverso» (cioè “in modo sbagliato”), «immandrillito», «merdate», «porco» e «porcata» (ormai tranquillamente entrato nel lessico politico della Seconda Repubblica), «puttana», «racchiona», «rincretinito», «scemo», «schifo» (nella gran parte dei casi come aggettivo e, dunque, un toscanismo), «schifoso», «scorreggia», «sputtanarsi», «stantuffata» (che Motti rivendica come una sua coniazione, come riportato in Sofri 1999), «stramaledetto», «stronzo» e «troietta». Per concludere, accanto ai ricercati «scontorto» e «portamantelli», ai toscanismi «spicinio», «spengere», «sollucchero» (e probabilmente anche la congiunzione «sicché», assente nelle altre due traduzioni), registriamo l’anglicismo lift per “addetto all’ascensore” e la variante «bruffolo» (e «bruffoletto»).

3.3. Colombo

Colombo opta principalmente per lo scempiamento delle geminate nella resa dell’accento francese («È la storia di una picola ragaza franscese chi arriva in una gronde scita, proprio come Nu Iorc, e si inamora di un picolo ragazo di Bruclin») e per il resto affida la resa dell’oralità, come i suoi predecessori, a forme apocopate e qualche esclamazione («ah», «be’», «boh», «santiddio», «sssh!», «vabbè») e interruzioni («intelli…», «pagi…»). Numerosi, come in Motti, gli alterati, tra cui segnaliamo gli stereotipi «qualcosina» e «pochino», oltre all’ormai lessicalizzato «frecciatina» e all’invecchiato (a mio parere) «marpioncello», e gli aggettivi di grado superlativo (anche con basi non gradabili, come in «nessunissima», e con cumulo di suffissi, come in «caldissimissimo» e «santissimissimo»), formati talvolta tramite prefissoidi («straconvinto»).

Più interessanti la formazione di sostantivi e aggettivi in ata («asciugamanate sulle chiappe», «la suonavano molto jazzata», il quantificatore informale «vagonata», a cui si aggiungono «scatarrata» e l’alterato «toccatina», segnalati tra le parole potenzialmente imbarazzanti insieme a «stronzate») e i genericismi come «tipa» e il già citato «tizio». Tra le parole segnalate dal software come sconosciute o potenzialmente marcate per registro troviamo «eglefino» (cfr. Nadotti e Colombo 2014), i popolarismi regionali «panza» e «panzone», i colloquialismi «sganciare» (nel senso di «dare», «concedere») e «fiondarsi» (per «precipitarsi»).

Tuttavia, con 76 forme segnalate da Corrige!, Colombo sembra prendere le distanze dalla svolta eufemistica e censoria impressa da Motti (51 forme imbarazzanti, contro le 59 di Darca) e fa le seguenti aggiunte ai volgarismi già utilizzati dai predecessori: «arrapato», «cacasotto», «cacca», «casino», «cazzeggiare» (un anacronismo, come notato in Nadotti e Colombo 2014, essendo entrato in italiano nel 1980), «cialtrone», «coglione», «culetto», «fregarsene» e «fregare», «imbecilli», «incasinato», «mezzasega», «pappone», «racchia», rincoglionito, rompiballe, scaccolarsi, scompisciarsi, scopata, sculettare, sputare, «stronzetto», «vaffanculo» e «zoccola».

3.4. Confronto con il subcorpus di riferimento «originali»

Per comodità di esposizione, rimando ad altra occasione il resoconto dettagliato dei dati sul lessico di ciascuno dei tre testi italiani considerati, limitandomi a qualche breve osservazione sulle peculiarità individuali mentre illustro le principali analogie e differenze nel confronto con il subcorpus delle traduzioni. Per cominciare dalla tendenza più nettamente percepibile, non è una sorpresa che la classificazione delle particolarità lessicali con Corrige! individui immediatamente la maggiore frequenza di parole imbarazzanti nei testi italiani: Ali ne conta 157, Libertini 142 e solo Jack si ferma a 70 (ma è anche il testo più breve: cfr. Tabella 2). D’altro canto, è stato già abbondantemente notato l’uso parsimonioso dei volgarismi da parte di Holden Caulfield, il quale cita la più nota delle four-letter-words solo in riferimento a scritte sui muri.

La sfera sessuale fa, per così dire, la parte del leone: per esempio in Ali si spazia dai preliminari («arrapante» e «arrapato», «flirtare», «palpeggiare», «pomiciare», «rizzarsi», «slinguare»e «slinguazzare», «titillare»), all’atto vero e proprio («fottere», «impalare», «inculare» e «sverginare», «chiavata», «inculata», «scopata») con riferimenti plurimi agli organi sessuali (che però possono essere utilizzati anche come esclamazioni o insulti: «cazzacci», «cazzo», «cazzone», «chiappe», «coglione», «culetto» e «culo», «fica», «figa» e «fighetta», «passera», «tetta»), alle preferenze («frocio», «lesbicacce») e pratiche sessuali («pippa», «pompini»). La proliferazione sinonimica non rifugge dal lessico più appropriato («autoerotiche», «erezione», «glande», «natiche», «sodomizzare» e «sodomia», «profilattici» – anche il marchionimo «hatù») con evidenti richiami allo pseudotecnicismo medico e psicanalitico («la musica pop è un equivalente masturbatorio»; cfr. Arcangeli 2007, 29-30), oppure attingendo al repertorio regionale (in questo caso prevalentemente romano o centromeridionale: «fregna», «ciorgna», «mignotta», «sise», «sorchella», «zinne», «la zompa [scil. «scopa»] – a questo modo») o ancora affidandosi alla neologia creativa («figapelosa», «mezzovergine», «orgasmico», «orgasmometro», «succhiavergini»).

Senza scendere in dettaglio, considerazioni analoghe possono essere fatte per gli insulti e altri disfemismi di estrazione scatologica, con la consueta proliferazione di alterati («cicciona», «panzone», «ruffianissimo», «scoreggione»), derivati («incazzarsi», «smerdare», «sputtanare», ma anche «coglioneria» e «svacco») soprattutto in –ata («cazzata», «puttanate», «stroiazzata», «stronzat»e) e composti («paraculo», «rompicoglioni»).

Più interessanti le esclamazioni che, a parte i volgarismi («bella merda, signorina Antonia») e gli usuali «bah», «be’», «boh», «ahi», «ehm» (oltre al romano «aho»; cfr. Arcangeli 2007, 31) comprendono alcuni intercalari comuni nell’oralità, come «dai» e «guarda», utili a gestire l’interazione con l’interlocutore in situazioni dialogiche. I riferimenti alla divinità («diomio» e «diosanto»), già abbondantemente presenti nelle versioni di The Catcher in the Rye, arrivano fino alla blasfemia in Libertini.

Passando quindi al testo di Tondelli, un’occhiata anche cursoria al campo semantico del consumo di droga dimostra subito una creatività lessicale quasi incontenibile (cfr. anche la ricca analisi svolta in Arcangeli 2007, cap 3): a «strafatto», «spinellare» e «strippare» (e derivati), già presenti in Ali, si aggiungono «cilum», «el-es-di», «fumamenti», «fumerie», «haschisch», «infumanato», «marja», «oppiata», «oppiomani», «pipata» e «spino», con l’aggiunta dei riferimenti agli internazionalismi propri della subcultura giovanile postsessantottina («beatnik», «fricchettino», «freakettino» e «freaks», «hippetto») e allo sballo alcoolico di dimensione provinciale, per cui si diventa «imbriachi» in «bettolone» a forza di «bicchierozzi», di «berlucchini», «fernet», «martini», «vermouth» e «vodke». Per ragioni di spazio mi limito ai primi esempi in ordine alfabetico della ricca messe di realizzazioni fonosimboliche («aahh», «aaargh», «ahhndrea», «avventuraaaa», «bbello», «bleah», «buum», «fiuuh», «disgrazziato», «dling»), esclamazioni («evvieni», «fattiforza», «diomio», «diosanto», per tacere delle bestemmie) e fatismi («ciaociao», «caromio»), internazionalismi («drinkaccio») e regionalismi (stavolta in prevalenza di origine settentrionale: «belin», «busona», «cancheri», «crapa», «maroni», «putél»), univerbati, composti e derivati («acidoso», «antibambinetti» [scil. «anticoncezionali»], «bellagente», «bellavita», «bellaroba», «bellefatto», «bellefighe», «bellefoto», ma anche «bruttafiga», «bruttaria», «bruttiporci», «bruttofesso» ecc.) e del riuso scherzoso di cultismi («favellare»).

Per concludere, i dati estratti dal software indicano che la pur marcata inventiva lessicale di Brizzi, nel confronto con gli altri romanzi risulta depurata dei riferimenti più espliciti a blasfemia, sesso, droga e scatologia e si basa sullo sfruttamento insistito di una gamma ristretta di strategie: la k della contestazione («autoinkulati», «kranio», «elettriko», «inkazzato», «inkulato», «kazzo», «kristo», «skazzati»), rese grafiche della pronuncia («biah-n-n-n-ca», «bluginx», «figura dde merda», «diobbuòno», «gràzzie», «scólta» [scil. «ascolta»), dialettismi, soprattutto bolognesi o settentrionali («guzzare», «rusco», «sbandèrno», «zorra», ma anche tramite la resa della pronuncia: «sturiellèt», «ziovanòtto», «zente»). Abbondano i riferimenti a vestiario e accessori, anche tramite marchionimi («bomber», «anfibiata», «goretex», «jollinvicta», «doctor martens», «park» e «pantacalze», oggi credo sostituito da «leggings», a dimostrare la natura transeunte sia del giovanilese che del lessico della moda), musica («albechiare», «demotape», «discotecaro», «pogare»), fenomeno che l’analisi del lessico più frequente aveva già evidenziato (ma in maniera forse meno marcata) in tutti i testi italiani, a partire da Ali: marchionimi, nomi di gruppi, cantanti, canzoni e generi musicali, riferimenti alla (sub)cultura di massa, dai fumetti alla paraletteratura e alla letteratura “alta”, alla televisione (cfr. Arcangeli 2007, 27-28). Accanto a forestierismi e pseudotali (non solo anglicismi: «mutter», «lumpen», «bourgeoisie», «puerco»), in Jack compaiono cultismi, toscanismi, latinismi e pseudotali («compitus», «decurie», «erubescenti», «giulebbe», «segaiolus», «transumava», «giovine», «giuoco»), segnali della creatività linguistica di chi conduce gli studi liceali.

4. Conclusioni e prospettive di ricerca

Non tutti sono concordi sui meriti della nuova traduzione di The Catcher in the Rye (per es. Premi 2014), come ci sono buone ragioni per rivalutare la versione di Darca (Gabici 2009) o per storcere il naso di fronte alle libertà che si è presa Adriana Motti. Tuttavia, dare un giudizio sulla qualità complessiva della resa in italiano del romanzo di Salinger non rientra tra gli obiettivi di questo studio, né sarebbe ragionevole arrischiarsi in una simile operazione basandosi solamente sulle misurazioni automatiche e le analisi lessicali qui presentate: giustamente, precedenti valutazioni di più ampio respiro hanno di volta in volta fatto riferimento a criteri più estesi (e, se vogliamo, meno stringenti) quali il “ritmo” del testo o lo scavo nella psicologia dei personaggi.

I dati che ho illustrato danno un’immagine indubbiamente molto parziale dell’assetto linguistico sia delle tre traduzioni che dei tre testi italiani analizzati: operazioni ulteriori di confronto lessicale (per es. l’individuazione del lessico esclusivo o più rappresentativo di ciascun testo: si pensi all’uso fàtico di «vecchio» sia nel Giovane Holden che in Jack) possono avventurarsi anche sul livello morfosintattico (per es. lo studio dei segmenti ripetuti, prevedibilmente molto proficuo per valutare la presenza ossessiva dei tic linguistici di Holden Caulfield), fino a comprendere fenomeni considerati tipici dei registri bassi dell’italiano, come la variazione dell’ordine dei costituenti della frase o impieghi innovativi del sistema pronominale e verbale.

Per ragioni di spazio, rimando ad altra occasione simili approfondimenti. Per il momento, ci si può accontentare di una risposta – seppur interlocutoria – al quesito posto in apertura: l’italiano utilizzato da Holden Caulfield è paragonabile a quello messo in bocca ai suoi coetanei italiani da scrittori anch’essi italiani? La risposta sembra proprio essere no.

Al netto dell’effetto della distanza temporale sui temi trattati (per cui, semplificando al massimo, nel trinomio sesso, droga e rock and roll, i secondi due vengono sostituiti da alcol e jazz), rispetto al modello proposto dagli autori italiani considerati l’italiano giovanile di Holden risulta eccessivamente parco nell’uso di volgarismi e disfemismi, quasi scevro dell’elemento diatopico (se si eccettua la vaga coloritura centromeridionale di Darca), poverissimo di sinonimi e varianti lessicali. Certo, ci si può domandare se il cambio di prospettiva determinato dall’evoluzione linguistica nel nostro Paese (per es. l’oralizzazione e l’abbassamento generalizzato dei registri notati da Antonelli 2011) non abbia contribuito a disinnescare gran parte della dirompente carica innovativa del romanzo di Salinger. Per altro verso ci si potrebbe inoltre chiedere se alla fine Salinger non riesca con maggior successo nell’intento mimetico, laddove gli autori italiani si affidano invece a una stilizzazione più “artistica”: per es. Arcangeli (2007, 64) nota che il parlato di Tondelli non si affida «ai modi meccanici […] di una invertebrata coazione a ripetere […] bensì a quelli probabilistici e “visionari” […] di una camaleontica e sgusciante scrittura emotiva».

Tuttavia, mi pare che ciò che viene meno nelle traduzioni sia in gran parte la riproposizione dell’intento ludico, che pure dovrebbe essere il motore primo dei fenomeni caratterizzanti il giovanilese: l’istinto di ribellione che linguisticamente emerge come calembour, gioco di parole, distorsione e manipolazione del repertorio tradizionale (sia esso standard o caratterizzato localmente) che, tramite la violazione delle regole, si esaurisce nella sua stessa realizzazione, in uno sberleffo. Non avendo preso in considerazione il testo originale, in questo momento non sono in grado di stabilire se è lo Holden Caulfield di Salinger (che pure si impegna con una certa insistenza nel rimescolamento creativo delle categorie morfologiche, del tipo vomity-looking, o nella riproduzione grafica del parlato, per es. Where’dja get that hat? Wuddaya wanna make me do-cut my goddam head off? Coupla minutes ecc.) oppure esclusivamente lo Holden Caulfield dei traduttori italiani a occupare una posizione linguisticamente eccentrica. Rimane il fatto che il protagonista di the Catcher in the Rye sembra comunque destinato a restare ancora una volta solo.

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