La recensione / 1 – L’auto-biographia literaria di un poeta, narratore, traduttologo

di Franco Nasi

A proposito di: Franco Buffoni, Con il testo a fronte. Indagine sul tradurre e l’essere tradotti, Interlinea, Novara, 2016.

Il corposo volume Con il testo a fronte. Indagine sul tradurre e l’essere tradotti, di Franco Buffoni, viene riproposto, a quasi dieci anni distanza, in una nuova edizione significativamente accresciuta (si passa da 21 capitoli a 34 capitoli).

Buffoni, come testimoniato anche nella lunga intervista apparsa nel numero 10 di «tradurre», è stato uno dei protagonisti della traduttologia in Italia almeno a partire dal convegno su La traduzione del testo poetico da lui organizzato all’Università di Bergamo nel 1988, anche grazie alla direzione dinamica e militante del semestrale «Testo a fronte» che dal 1989 è punto di riferimento imprescindibile per chi si occupa di teoria della traduzione letteraria. Un’autorità dunque nell’ambito degli studi sulla traduzione. Ma Buffoni non è solo teorico competente e traduttore raffinato, come dimostrano le sue versioni, fra le altre, dei Poeti romantici inglesi (Bompiani 1990) e i quaderni di traduzione Songs of Spring (1999) e Una piccola tabacchiera (2012) entrambi editi da Marcos y Marcos. Alle doti di studioso, in particolare di letteratura inglese e comparata, ha affiancato da sempre una incessante attività di scrittore di romanzi, racconti e teatro, di critico e di poeta (oltre all’Oscar Mondadori che raccoglie le Poesie 1975-2012, mi piace segnalare l’intenso romanzo in versi Jucci, Mondadori 2014).

Con il testo a fronte risente splendidamente di queste doti dell’autore: la scrittura è sempre fresca e incisiva, e accompagna il lettore in una specie di auto-biographia literaria o zibaldone a tema in cui l’autore si racconta attraverso le proprie esperienze di lettore, teorico, poeta alle prese con i diversi problemi del tradurre. Il risultato è un libro autorevole dal quale appare manifesta sia la passione del poeta per la parola e le sue trasformazioni nelle varie lingue, sia la competenza puntuale, ma mai pedante e “scolastica” dello studioso.

Molti dei capitoli sono ripresi da articoli apparsi su riviste, in particolare «Testo a fronte», o da libri di cui sono stati introduzione, ma non ci sono note bibliografiche che segnalino dove sono apparsi per la prima volta. Se il libro dovesse essere “valutato” da qualche commissario per un concorso accademico o da un peer reviewer dell’ANVUR presterebbe per questo il fianco a qualche critica; ma, ed è chiaro, Buffoni non ha scritto questo libro per l’esperto pedante che vuole verificare prima di tutto se il proprio nome compare almeno nell’indice dei nomi o in bibliografia. Buffoni scrive, grazie a Dio, per un «lettore colto e appassionato» (come si legge in quarta di copertina), un lettore interessato a imparare qualcosa di più su che cosa c’è sotto una traduzione letteraria, quali sono le implicazioni etiche ed estetiche dell’atto traduttivo, che cosa vuol dire trasferire un testo da una cultura a un’altra, da un secolo a un altro, o pensare poeticamente a una traduzione.

Con uno stile colloquiale e con un tono spesso narrativo, Buffoni ricostruisce alcuni incontri chiave che hanno segnato il suo percorso di formazione traduttologico. Innanzi tutto la lettura di Dopo Babele di George Steiner che, secondo l’autore, ha «formalizzato la prima grande ribellione internazionale ai dogmatismi della linguistica teorica» e che ha visto, prima di altri, che «tradurre poesia o prosa poetica non significa trasferire le parole di una lingua in quelle equivalenti di un’altra, bensì rivivere l’atto creativo che ha informato l’originale. E che prima di essere un esercizio formale, la traduzione è un’esperienza esistenziale» (p. 21). E poi il lavoro di “apprendistato” alla scuola di poetica e retorica di Emilio Mattioli, grazie al quale e insieme al quale pone in primo piano, come elementi essenziali nella riflessione sul tradurre, la questione del ritmo (via Meschonnic), del movimento dei testi di partenza e di arrivo (via Apel), e della traduzione come incontro di poetiche fra il poeta tradotto e il poeta che traduce (e qui è fondamentale per lui il riferimento all’estetica neofenomenologica di Anceschi). E oltre a Steiner e a Mattioli, Blanchot, Kristeva, Berman, Ladmiral, Levý, Folena, Maria Corti… Sono alcuni degli autori che permettono a Buffoni di fondare la sua Teoria soft della traduzione letteraria (si veda l’articolo di Buffoni apparso con questo titolo in Il traduttore visibile, a cura di Teresina Zemella e Sandra M. Talone, Mup, Parma, 2015, pp. 13-27) su cinque concetti importanti per la comprensione dell’atto traduttivo: ritmo, movimento, intertestualità, poetica, avantesto; concetti per Buffoni necessari per superare le sterili contrapposizioni come «fedele/infedele, fedele alla lettera/fedele allo spirito, ut orator/ut interpres, traduction des professeurs /traduction des poetes» (p. 11), che hanno accompagnato la storia della riflessione su tradurre. Alla descrizione di una traduttologia che sia “a-normativa”, libera dalle imposizioni restrittive della semantica, ma nello stesso tempo attenta alle varianti dei testi di partenza, alla genesi delle opere, alle ragioni della poesia, sono dedicati in particolare i primi capitoli del libro; ma questo approccio “esistenziale” alla traduzione prende significato e forza nella narrazione e in analisi di esperienze traduttive, che portano a rivedere continuamente e in modo critico e avveduto le scelte operate dai traduttori. Scrive Buffoni: «In traduttologia non è possibile essere normativi. Non si può affermare: “qui si deve tradurre così”, perché è la complessità dell’esperienza di un uomo, di un artista, di un traduttore che in toto risulta in gioco. L’importante è che – complessivamente – la traduzione che in quel particolare giorno si è compiuta sia coerente, risponda a un ritmo autentico, possegga una intonazione profonda. Esiste un momento nella storia del mondo esterno e un momento della storia personale di ciascuno di noi, che si sovrappongono, fino a coincidere: poi quel momento passa e si deve ricreare una nuova coincidenza. Questo è il flusso della vita e il tradurre nella sua accezione più ampia è il nostro vivere e quindi il nostro comunicare» (p. 209).

L’esercizio di analisi critica di una versione poetica, di cui il libro è ricchissimo, diventa pertanto anche l’occasione per incontrare il traduttore, per entrare nella sua poetica, cioè sia nel suo «modo tecnico» di operare sia nella sua visione del mondo, nella «moralità e negli ideali» (p. 78). Si leggono così medaglioni dedicati a grandi traduttori come Margherita Guidacci, Edoardo Sanguineti, Luciano Bianciardi, Allen Mandelbaum, già presenti nella prima edizione del libro, ai quali si aggiungono ora pagine piene di simpatia e ammirazione rivolte a Juan R. Wilcock, Vittorio Sereni, Fernanda Pivano, Pietro Marchesani…

Un libro come questo, che parla di traduzione come «incontro poietico tra la poesia del traduttore e la poetica del tradotto» (p. 251), che analizza con puntiglio le scelte metrico-ritmiche dei diversi atti traduttivi, per di più scritto da un poeta-traduttore, non può non calarsi nella vita stessa della poesia in Italia negli ultimi decenni, prendendo partito, in modo molto esplicito, rispetto ad alcune esperienze poetiche: sottolineando la vivacità di voci poetiche a volte appartate ma originali e profonde, come quella di Marco Caporali, a volte ingiustamente trascurate, come quella di Emanuel Carnevali, oppure prendendo le distanze dal marinettismo della neoavanguardia o del mitomodernismo.

D’altronde, ed è questo un punto rilevante in un nuovo capitolo dal titolo Lingue traduzione e conoscenza, la traduzione è esplicitamente vista anche come un grimaldello privilegiato per entrare in sé, per conoscere se stessi, per prendere consapevolezza del proprio modo di essere, di scrivere, di comunicare. Scrive Buffoni:

<CM>Ricorrendo al termine consapevolezza intendo affermare che le metodologie di apprendimento delle lingue straniere vòlte alla cosiddetta full immersion nel contesto linguistico “altro”, se da un lato possono produrre rapide «infarinature», metodologicamente comportano proprio il contrario di ciò che intendono per acquisizione di consapevolezza. Acquisire consapevolezza significa accedere in primis alla civiltà culturale che ha prodotto l’“altra” lingua, dunque alla sua storia. E mentre tale processo di apprendimento consapevole è in corso, mentre si crede di star apprendendo un’altra lingua e di conoscere un’altra cultura, in realtà si sta ragionando “per contrasto” sulla propria lingua e sulla propria cultura (p. 31).</CM>

La traduzione dunque, e si ritorna a Steiner, come esperienza esistenziale, come modo per acquisire consapevolezza di sé e dell’altro; un’esperienza tanto più proficua quanto più avviene come traduzione che Buffoni definisce «di rispetto», quando «tutti gli elementi dell’originale appaiono resi con la correttezza della discrezione da un poeta che decide di realizzare l’incontro “poietico” con il poeta e il testo che sta traducendo» (p. 61)

P.S.: Se si volesse essere pignoli, pensando così di apparire recensori integerrimi e non troppo di parte, si potrebbero elencare qui alcune sviste presenti nel libro. A pagina 63, ad esempio, si rimanda al sesto capitolo su Keats, che però nella nuova edizione è diventato l’undicesimo; oppure a pagina 11 si legge che «il modo di presentare gli autori stranieri negli Stati Uniti» è «tradizionalmente source-oriented», quando, anche alla luce degli scritti di Lawrence Venuti, penso che l’autore intendesse target-oriented; così come il presunto ottonario «Sulle prime automobili» citato a pagina 116 sembra essere più convenientemente, nel contesto metrico, un settenario sdrucciolo. Ma tutto questo sarebbe degno di uno di quei valutatori ministeriali di cui si diceva all’inizio. Sarebbe infatti assai più semplice scrivere direttamente a Buffoni e segnalargli queste possibile sviste per una auspicabile terza edizione del libro, anziché ammorbare i lettori della recensione che di sicuro non sono interessati a queste pedanterie. In verità questo post scriptum serve solo per confessare che anch’io, come i più narcisisti dei valutatori, sono andato a vedere se il mio nome fosse per caso nell’indice dei nomi. Non c’era. Ma c’era Paolo Nasi. Accidenti: quasi… Non lo conosco, ho pensato. Ma poi ho visto che a pagina 272 Buffoni parlava proprio di me, e che chi ha redatto l’indice ha semplicemente sbagliato a trascrivere il mio nome. Svista minore. Meglio Paolo che niente. Rincuorato, ho steso questa recensione, che concludo raccomandando la lettura di questo libro utile e piacevole.