di Claudia Zonghetti, curatrice di
Anton Čechov, Alla deliziosa creatura che mi ha graffiato il naso, Milano, Henry Beyle, 2017
Non c’è cura per la curiosità. Lo diceva Dorothy Parker ed è cosa molto vera, per fortuna.
Questo piccolo libro è un libro per curiosi.
Non per chi ama frugare tra la biancheria degli scrittori, per carità, ma per chi si diverte a vederli anche in pantofole, quando la postura, l’imago letteraria infila la vestaglia e si concede qualche attimo di respiro, e quando l’arguzia può trovare sfogo in una disinvoltura amabile e puntuta insieme.
Scegliere fra diverse centinaia di dediche le trenta qui raccolte è stato uno spasso. Perché, e soprattutto, uno spasso è stato leggere le annotazioni che le accompagnano nelle Opere complete in trenta volumi di Anton Čechov e, insieme, cercare in rete notizie, immagini e aneddoti riguardo ad amici e incontri d’infanzia, presenze occasionali e durature nella vita dello scrittore, amiche di qualche mese o di una vita intera, passioni taciute e sbandierate. Ho perso (perso? guadagnato!) giornate intere a raggomitolare il filo dei ricordi e a saltabeccare da un compagno di ginnasio al ciabattino di Taganrog, alla vicina di casa, alla giovane attrice adorante, alla brontolona decana delle scene russe (decana a soli quarant’anni – che smacco, povera Kleopatra Karatygina!)…
Tanto che poi ho chiesto (ed entusiasticamente ottenuto da un curioso incurabile come Vincenzo Campo) di affiancare a ogni dedica qualche riga di “introduzione” alla scena e ai personaggi che vedeva coinvolti. In questo modo le settantadue bottiglie di birra che si scolò Marija Drozdova a Melichovo, le burrasche sentimentali di Levitan, le ironiche prescrizioni ad Aleksandra Selivanova hanno trovato una sorta di salottino in cui accomodarsi compiaciute.
Anche la traduzione delle dediche è stata meno scontata del previsto, lo confesso, e a un paio almeno ho dovuto rinunciare per dei giochi di parole che avrebbero perso tutto il loro smalto nel balbettio sbeccato della (mia, almeno) traduzione.
Un esempio. Perché ogni tanto è bene parlare anche delle bandiere bianche che si è costretti a sventolare. A cavallo fra il 1884 e il 1885 Čechov donò una copia del Revisore (o Ispettore generale) di Nikolaj Gogol’ a Elizaveta Markova (Sacharova) scrivendole Brezentuju na dobruju pamjat’. Se na dobruju pamjat’ può essere reso serenamente con le variazioni sul tema di “in ricordo”, quel brezentuju è un gioco nato dalla confusione fra brezent (tela catramata, telone) e prezent (dono, omaggio). Durante una passeggiata moscovita, Nelly Markova (sorella di Elizaveta) si era trovata a passare accanto a un negozio con l’enorme insegna Brezenty e si era platealmente stizzita per l’incuria e l’ignoranza del negoziante, lamentandosene a gran voce con amici e conoscenti. Da quello stesso pomeriggio e per qualche giorno di seguito, Čechov inondò casa Markov di mazzi di fiori, cioccolatini, frutta e libri, ognuno con il medesimo bigliettino: «Un mio brezente». Purtroppo, però, la comicità dell’effetto viene qui totalmente persa: lasciarlo in questo modo farebbe pensare a un semplice vizio di pronuncia, banale se non scortese, laddove spiegare a lato il motivo del sicuro sorriso dei Markov non restituirebbe a noi il piacere immediato della battuta. Al posto della risata avremmo la spiegazione del perché non si è, invece, riso. Dunque – e purtroppo – si è costretti a girare pagina.
Neanche le altre dediche sono state scevre di insidie. Non è stato sempre cosa di un attimo ricreare il tono ironico, ma mai oltre la misura di Čechov, il suo equilibrio stabilissimo fra gioco e compostezza. Credo di avere trovato una chiave decorosa giocando – io pure – prima con il lessico e poi con l’ordine delle parole, illeziosendo talvolta la resa per non cancellare la patina del tempo, ma anche e specialmente per esaltare il sorrisetto che vedevo sbucare da sotto ai baffi dello scrittore mentre si divertiva a far felici i suoi estimatori.
Ma di quanto è finito sulla carta
che siano i lettori a giudicare.