La Premio Nobel, Balzac, la Sardegna e la «Biblioteca romantica»

GRAZIA DELEDDA TRADUTTRICE DI EUGÉNIE GRANDET

di Mario Marchetti

Era destino s’incontrassero

Un filo carsico lega Balzac e Deledda. Grazia Deledda, a quanto si sa, tradusse un unico libro, il balzachiano Eugénie Grandet per la «Biblioteca romantica» diretta per Mondadori da G. A. Borgese, che apparve nel 1930 col titolo di Eugenia Grandet. E così Balzac fece un assai inusuale, per l’epoca, viaggio in Sardegna nella primavera del 1838. Cosa li spinse a queste scelte sorprendenti?

Il viaggio in Sardegna di Balzac

Balzac amava l’Italia, ma l’Italia soprattutto stendhaliana, la Milano del Teatro alla Scala con i suoi eleganti salotti (uno per tutti, quello della contessa Maffei) in grado, fino a poco tempo prima, di dare i punti a Parigi in fatto di moda e di chic (ai tempi del Primo Impero si irrideva agli abiti parigini chiamandoli «cenci»). Ma perché la Sardegna? Fu un sogno di rapido arricchimento a condurlo nell’isola, un sogno romanzesco, squisitamente balzachiano, e come tutti i suoi altri votato al fallimento. Il nostro, incalzato dai creditori, così illustra il progetto alla madre (da Genova, 22 aprile 1838):

Maintenant je puis vous raconter l’objet principal de mon voyage. J’ai tout à la fois raison et tort. L’année dernière, à cette époque, à Gênes même, un négociant me dit que l’incurie de la Sardaigne était si grande, qu’il y avait, aux environs d’exploitations des mines d’argent, de montagnes de scories qui contenaient le plomb de rebut dont on avait retiré l’argent; aussitôt je lui dis de m’envoyer à Paris un échantillon de ces scories et que je reviendrais, tout essai fait, demander à Turin l’autorisation d’exploiter ces tas avec lui. Un an se passe, mon homme ne m’envoie rien. Voici quel était mon raisonnement: les Romains et les métallurgistes du moyen âge étaient si ignorants en docimasie, que nécessairement ces scories devaient et doivent encore contenir une grande quantité d’argent. Or un grand chimiste de mes amis possède un secret pour retirer l’or et l’argent, de quelque manière et en quelque proportions qu’il soit mêlé à d’autres matières, sans grand frais. Ainsi je pouvais avoir tout l’argent des scories (Balzac 1876, 406).

Ora posso raccontarvi lo scopo principale del mio viaggio. Ho insieme ragione e torto. L’anno scorso, a quest’epoca, qui a Genova, un commerciante mi disse che l’incuria della Sardegna era tanto grande che, attorno alle coltivazioni delle miniere d’argento, c’erano montagne di scorie che contenevano il piombo di scarto da cui era stato estratto l’argento; gli dissi subito di inviarmene a Parigi un campione e che, una volta eseguito il saggio, sarei tornato per chiedere a Torino l’autorizzazione di sfruttare questi depositi insieme a lui. Ecco qual era il mio ragionamento: i romani e i metallurgisti del medioevo erano così ignoranti in docimasia che necessariamente le scorie dovevano e debbono ancora contenere una grande quantità di argento. Si dà il caso che un grande chimico amico mio possegga un segreto per estrarre senza grande spesa l’oro e l’argento, comunque sia mescolato ad altre materie. E così potevo avere tutto quell’argento  (traduzione mia)

C’è tutto Balzac in questa lettera, c’è il suo realismo visionario (di cui riparleremo), c’è il suo desiderio di ricchezza e, come sottotesto, ci sono i sui eterni tentativi di sfuggire ai creditori. In proposito, troviamo due confessioni rivelatrici in Eugenia Grandet (proprio nella traduzione di Grazia Deledda). L’una a pag. 117: «Vi è mai individuo che non abbia desideri, o vi è desiderio che possa soddisfarsi senza denaro?» ‒ dove si istituisce un nesso indissolubile tra desiderio e denaro, ma dove a primeggiare è la potenza del desiderio che non può dispiegarsi senza lo strumento del denaro (atteggiamento esattamente speculare a quello del bonhomme Grandet per il quale è l’oro a primeggiare e anzi a coincidere totalmente col desiderio); L’altra a pag. 168:«il creditore è una specie di maniaco. Pronto oggi a transigere, giura domani di mandare tutto a ferro e fuoco e poi torna a calmarsi… e poi a fine mese è addirittura risoluto nell’esecuzione. Il carnefice!» ‒ inserto chiaramente ispirato alle sue rocambolesche traversie economiche, che talvolta cercava di risolvere citando il malcapitato creditore di turno nei suoi romanzi (offrendogli, insomma, l’immortalità), come il sarto parigino Jean Buisson, ricordato in Eugénie Grandet come fornitore del vanesio cugino Charles di cui Eugénie si innamora.

A noi, qui, interessa soprattutto l’immagine dell’isola che emerge dall’epistolario, sostanzialmente da un paio di lettere (chi volesse saperne di più può utilmente leggere l’agile Voyage en Sardaigne, a cura di Corrado Piana, Editoriale Documenta, Cargeghe, SS, 2010). A madame Hanska, da Alghero, l’8 aprile 1838, scrive: L’Afrique commence ici: j’aperçois une population déguenillée, toute nue, bronzée comme des Éthiopiens (Balzac 1876, 404: L’Africa comincia qui: vedo gente cenciosa, tutta nuda, abbronzata come etiopi – traduzione mia).

E poi alla madre, da Cagliari, il 17 aprile successivo:

Je viens de faire toute la Sardaigne et j’ai vu des choses comme on raconte des Hurons et de la Polynésie. Un royaume entier désert, de vrais sauvages, aucune culture, des savanes de palmiers ou de cistes, partout des chèvres qui broutent tous les bourgeons e tiennent tous les végéteaux à hauteur de la ceinture. J’ai fait de dix-sept à dix-huit heures de cheval, ‒ moi qui en avais perdu tout à fait l’habitude et qui n’avais pas monté à cheval depuis plus de quatre ans! ‒ sans rencontrer d’habitation. J’ai traversé une forêt vierge penché sur le cou de mon cheval sous peine de la vie; car, pour la traverser, il fallait marcher dans un cours d’eau, couvert d’un berceau de plantes grimpantes et de branches qui m’auraient éborgné, cassé les dents, emporté la tête. C’est des chênes verts gigantesques, des arbres à liège, des lauriers, des bruyères de trente pieds de hauteur. Rien à manger. À peine arrivé au but de mon expédition, il m’a fallu songer a revenir, et, sans prendre de repos, je me suis remis à cheval pour aller d’Alghiero à Sassari, où j’ai trouvé une diligence établie depuis deux mois qui m’a conduit ici. Il y a dans le port un bateau à vapeur pour Gênes; mais, comme le mauvais temps est survenu, il me faut rester deux jours à Cagliari. De Sassari ici, j’ai traversé toute la Sairdegne par son milieu: elle est la même partout. Il y a un canton où les habitants font un horrible pain en réduisant les glands du chêne vert en farine qu’ils mêlent avec de l’argile, et cela à deux pas de la belle Italie. Hommes et femmes vont nus avec un lambeau de toile, un haillon troué, pour couvrir leur nudité. J’ai vu des amas de créatures en troupeau au soleil, le long des murs de terre de leur tanières, le jour de Pâques. Aucune habitation n’a de cheminée, on fait le feu au milieu du logis, tapissé de suie. Les femmes passent leur journée à moudre et à pétrir leur pain de glands et d’argile; les hommes gardent les chévres et les troupeaux, et tout le sol est en friche dans le pays le plus fertile du monde. Au milieu de cette profonde et incroyable misère, il y a des villages qui ont de costumes d’une étonnante richesse (Balzac 1876, 404-5).

Mi sono appena fatta tutta la Sardegna e ho visto cose quali se ne raccontano degli Uroni e della Polinesia. Un intero reame deserto, di veri selvaggi, nessuna cultura, savane di palmizi o di cisti, da ogni parte capre che brucano i germogli e erbe ad altezza della vita. Ho fatto da diciassette a diciotto ore a cavallo ‒ io che ne avevo perso completamene l’abitudine e che da più di quattro anni non monto a cavallo! ‒ senza incontrare abitazioni. Ho attraversato una foresta vergine chino sul collo del cavallo a rischio di morire; per attraversarla bisognava procedere in un corso d’acqua, coperto da una galleria di piante rampicanti e di rami che potevano accecarmi, spezzarmi i denti, portarmi via la testa. Sono querce verdi gigantesche, sugheri, lauri, eriche di trenta piedi d’altezza. Niente da mangiare. Appena arrivato alla meta della mia spedizione, ho dovuto pensare al ritorno e, senza potermi prendere un momento di riposo, mi sono rimesso a cavallo per recarmi da Alghero a Sassari, dove ho trovato una diligenza fissata già da due mesi che mi ha portato qui. Nel porto c’è un battello a vapore per Genova; ma, per il cattivo tempo, mi tocca restare due giorni a Cagliari. Da Sassari a qui, ho attraversato tutta la Sardegna per l’interno: è la stessa ovunque. C’è una zona dove gli abitanti fanno un pane orribile riducendo a farina le ghiande di quercia verde e mischiandola con l’argilla, e questo a due passi dalla bella Italia. Uomini e donne vanno nudi con un lembo di tela, uno straccetto lacero, per coprire le nudità. Il giorno di Pasqua, ho visto prendere il sole lungo i muri di terra dei loro covili crocchi di creature ammassate. Non si usa il camino, si fa il fuoco al centro dell’abituro nero di fuliggine. Le donne passano il tempo a macinare e a impastare il pane di ghiande e argilla; gli uomini sorvegliano le capre e le greggi, e tutto il terreno è incolto nel paese più fertile del mondo. In mezzo a questa profonda e incredibile miseria, ci sono villaggi che hanno costumi di straordinaria ricchezza (traduzione mia).

Meta della spedizione era l’Argentiera, un luogo di suggestiva bellezza ‒ ancora in funzione come miniera fino all’inizio degli anni sessanta del secolo scorso ‒ non a caso scelto spesso come scenario cinematografico, in particolare per la parte finale del non dimenticato Chiedo asilo di Marco Ferreri. Ma di questa suggestione non c’è nulla in Balzac. Né in queste sue lettere c’è nulla del rapinoso pittoresco che i suoi contemporanei Gautier e Mérimée cercarono e trovarono in Spagna e in Corsica. Come non c’è nulla del lirismo paesaggistico di Grazia Deledda. L’occhio di Balzac è o, meglio, vorrebbe essere quello dell’exploiteur borghese. Ma per fortuna nostra anche in questo è romanzesco e il suo affare non va a buon fine. Il quadro che ci offre della Sardegna è immaginifico, efficace, ma non certo realisticamente preciso. Le sue spatolate paiono più frutto di letture divorate nell’adolescenza che non di un’attenta osservazione della realtà (anche se non mancano dettagli preziosi). C’è un atteggiamento salgariano, o, per rimanere alle letture che potrebbe aver fatto, ci sono la Louisiana di Chateaubriand, le foreste vergini di Bernardin de Saint-Pierre, l’Africa di Defoe (The Life, Adventures and Piracies of the Famous Captain Singleton). Se coglie realia esatti come i focolari al centro delle abitazioni (di cui ci parla anche Deledda in Cosima ‒ «un focolare centrale, segnato da quattro liste di pietra» ‒ erroneamente preso, si veda Farnetti 2010, per caminetto in molte versioni straniere: sappiamo quanto sia scabrosa la questione di capire, prima, e di rendere, poi,i realia di altre culture!) o lo splendore dei costumi, vede anche cose che non ci sono (le savanes de palmiers o le bruyères de trente pieds de hauteur); e certamente le vesti erano misere e spesso stracciate, ma è difficile pensare che i sardi una cinquantina di anni prima della fanciullezza di Grazia Deledda usassero andare nudi. Adottando un termine oggi in voga nel campo delle distopie, Balzac vede una realtà aumentata con l’occhio della mente. D’altronde, questo genere di distorsione era comune a molti visitatori stranieri della Sardegna, come ha rilevato ironicamente Sergio Atzeni (1999).

E chissà che qualche lontana eco di questa vicenda non abbia influenzato Grazia Deledda nella sua scelta di accettare di occuparsi di Eugénie Grandet per la «Biblioteca romantica»: lo ricordiamo, l’unico testo da lei tradotto. Ma soffermiamoci ancora un momento sul carattere della narrativa di Balzac per cogliere cosa possa aver attratto Grazia Deledda nell’impresa.

Il romanzesco visionario in Balzac e in Deledda

È nota l’ammirazione di Baudelaire per Balzac, come è nota l’acutezza del suo giudizio. Nel suo saggio su Madame Bovary, scrive: Balzac, ce prodigieux météore qui couvrira notre pays d’un nuage de gloire, comme un orient bizarre et exceptionnel, comme une aurore polaire inondante le désert glacé de ses lumières féeriques… (Baudelaire 1961, 649: «Balzac, questa prodigiosa meteora che coprirà il nostro paese con una nuvola di gloria, come un oriente bizzarro ed eccezionale, come un’aurora polare che inondi il deserto ghiacciato con le sue luci favolose…» – Montesano 2012, 835).

E nel primo saggio su Théophile Gautier: Balzac, grand, terrible, complexe aussi, figure le monstre d’une civilisation, et toutes ses luttes, ses ambitions et ses fureurs. («Baudelaire 1961, 689: Balzac, grande, terribile e complesso, immenso, raffigura il mostro di una civiltà e tutte le sue lotte, le sue ambizioni e i suoi furori» – Montesano 2012, 867). Ma soprattutto, ecco, sempre nel medesimo saggio, il pezzo che ci interessa:

Si Balzac a fait de ce genre roturier [le roman de moeurs] une chose admirable, toujours curieuse et souvent sublime, c’est parce qu’il y a jeté tout son être. J’ai mainte fois été étonné que la grande gloire de Balzac fût de passer pour un observateur; il m’avait toujours semblé que son principal mérite était d’être visionnaire, et visionnaire passionné. Tous ses personnages sont doués de l’ardeur vitale dont il était animé lui-même. Toutes ses fictions sont aussi profondément colorées que les rêves. Depuis lo sommet de l’aristocracie jusqu’aux bas-fonds de la plèbe, tous les acteurs de sa Comédie sont plus âpres à la vie, plus actif et rusés dans la lutte, plus patients dans le malheur, plus goulus dans la juissance, plus angéliques dans le dévouement, que la comédie du vrai monde ne nous le montre. Bref, chacun, chez Balzac, mêmes les portières, a du génie… De cet étonnante disposition naturelle sont résultés des merveilles. Mais cette disposition se définit généralement: les défauts de Balzac. Pour mieux parler, c’est justement là ses qualités (Baudelaire 1961, 692).

Se Balzac ha fatto di questo genere plebeo [il romanzo di costume] una cosa ammirevole, sempre curiosa e sublime, è perché vi ha gettato tutto il suo essere. Molte volte mi sono stupito che la grande gloria di Balzac fosse quella di passare per un osservatore; mi era sempre sembrato che il suo merito principale fosse quello di essere visionario, e visionario appassionato. Tutti i suoi personaggi sono dotati dell’ardore vitale da cui era animato lui stesso. Tutte le sue finzioni sono colorate altrettanto profondamente dei sogni. Dalla cima dell’aristocrazia fino ai bassifondi della plebe, tutti gli attori della sua Commedia sono più cupidi di vita, più attivi e astuti nella lotta, più pazienti nella sventura, più avidi nel godimento, più angelici nella devozione, di quanto non ce li mostri la commedia del mondo vero. In breve, in Balzac, tutti, anche le portinaie, hanno del genio… Da questa stupefacente disposizione naturale sono venute fuori delle meraviglie. Ma di solito questa sua disposizione la si definisce: i difetti di Balzac. Per dirla con maggior precisione, proprio lì sono le sue qualità (Montesano 2012, 871).

Tutto ciò ha perfetto riscontro in Eugénie Grandet: monsieur Grandet è un avaro parossistico, Eugénie e la madre sono spiritualmente sublimi, Nanon è la serva caninamente devota al padrone (malgrado i continui battibecchi), i Cruchot e i De Grassins sono protervamente tesi a mettere le mani sulla favolosa dote di Eugénie, il cugino Charles è fatuo, cinico e arrivista com’era di prammatica un giovane di belle speranze nell’ottocentesca Parigi-Babilonia (così la definisce ironicamente l’astuto abate Cruchot), dove diventa esperto in quel droit parisien di cui si parla nel Père Goriot.

Ma il punto che più rinvia alla visionarietà è l’ammontare sbalorditivo ‒ come quello delle terre e dei castelli del marchese di Carabas nel Gatto con gli stivali ‒ della ricchezza accumulata dall’ex bottaio Grandet, cosa che venne pedantemente eccepita da molti critici di Balzac, cui si aggiunge il risvolto fiabesco della stanza segreta in cui Grandet custodisce e contempla il suo oro e i suoi sacchi di denaro prima di imparare a investirli finanziariamente: vero caveau del tesoro nel cuore della malinconica casa in cui si svolgono gli avvenimenti. Questi e altri aspetti non del tutto realisticamente plausibili della trama, e talora anche incongrui, nulla tolgono, anzi !, alla potenza dell’opera e alla sua perspicacia descrittiva di un’epoca e di un ambiente. Bisogna dire che le grandi opere letterarie, grazie a dio, non si attengono a regole da scuola di scrittura. Tutti i personaggi sono poi immersi, come nota sempre Baudelaire, nei loro sogni, per tutti o quasi, di ricchezza, per qualcuno, o meglio per qualcuna, d’amore.

E proprio simile visionarietà accomuna Balzac a Deledda, certamente in scala assai diversa: dai grandi spazi della società francese al microcosmo sardo o, per meglio dire, nuorese e barbaricino. Aspetto questo che è stato riconosciuto da uno dei più attenti critici della scrittrice, Vittorio Spinazzola che ha curato per «I Meridiani» Mondadori il volume Romanzi sardi, uscito nel 1981. E qui apriamo una parentesi per accennare rapidamente alla sfortuna critica di Grazia Deledda, salvo poche ma sempre caute eccezioni (Emilio Cecchi, Antonio Baldini), cui si accompagnò in vita una notevole fortuna di pubblico, tanto che la scrittrice, con l’aiuto di un marito-agente letterario avantilettera, Palmiro Madesani, poté mantenere agiatamente la propria famiglia. Anche questo suo innovativo ménage famigliare fu oggetto di strali: Pirandello, come si sa o come si dice, vi si ispirò per un ironico romanzo del 1911, Suo marito.

Il personaggio di Deledda è stato però in tempi recenti attentamente riconsiderato dagli studi di genere: in particolare si raccomanda Dedola 2016. Ma di recente se ne è occupato anche Marcello Fois col suo «romanzo in forma di teatro» Quasi Grazia, andato in scena con Michela Murgia nelle vesti della protagonista a Nuoro nell’ottobre 2017 e che continua a girare sui palcoscenici italiani. «La mia idea, direi la mia ossessione, era che di questa donna, tanto importante per la cultura letteraria del nostro Paese, bisognasse rappresentare la carne. Come se fosse assolutamente necessario non fermarsi a una rievocazione semplicemente letteraria, quanto di una rappresentazione vivente», così Marcello Fois ha motivato le ragioni che l’hanno spinto a scrivere il libro (http://teatromassimocagliari). Ma Deledda scrittrice attende ancora una piena valorizzazione critica esente da pregiudizi e snobismi, ormai lontani come siamo dalle battaglie letterarie d’altri tempi (rondiste, crociane o neoavanguardiste, per citarne qualcuna) e che la faccia entrare a pieno titolo in un possibile canone della nostra narrativa. Le accuse che le venivano fatte da più parti (Croce, Serra, Pancrazi) erano di questo tenore: è «regionalista», il suo italiano è «incerto», la sua scrittura è «illetterata», è «istintiva», non pienamente «consapevole sul piano intellettuale». L’accusa, sotto traccia ‒ e in tal caso direi, sì, priva di consapevolezza ‒, pare quella di essere donna. Ancora nel 1971 Natalino Sapegno, nella prefazione al volume Romanzi e novelle, prima uscita di Deledda nei «Meridiani», scriveva:

Sta di fatto che quest’arte nasceva da un movimento istintivo, e seguitò fino all’ultimo ad essere eccitata e regolata da un istinto, da una sorta di confusa ma prepotente vocazione, con scarsissimi sostegni culturali. Di qui… [una] garanzia di autenticità, ma di qui anche la sostanziale estraneità della sua tematica […] una poetica remota e quasi anacronistica (Sapegno 1971, XII).

Anacronismo? Se mai vicinanza all’antinaturalismo di Selma Lagerlöf e a un certo filone decadentista-vitalista suo contemporaneo, che va dalla Figlia di Iorio (1904) di D’Annunzio a Bodas de sangre (1933) di Lorca, toccando Lawrence, che non a caso ne apprezzò (sempre nei limiti di una presunta istintualità della scrittrice) il romanzo La madre, del 1920), per la versione inglese del quale scrisse l’introduzione (Lawrence 1928).

Nella citata prefazione Spinazzola parla per Deledda di «vitalismo visionario», portando ad esempio Cosima (comparso, a cura di Antonio Baldini, col titolo Cosima, quasi Grazia sulla «Nuova Antologia» nel settembre 1936, un mese dopo la morte della scrittrice), romanzo-testamento dai tratti autobiografici, nel quale «il cronachismo esistenziale trascolora in sogno metafisico». Vitalismo visionario e non realismo visionario, come si potrebbe invece dire per Balzac. Certo, perché l’interesse di Deledda si concentra essenzialmente sulla forza dell’eros (e, di risulta, sui conflitti che ne conseguono), mentre l’aspetto sociale o folclorico fa da cornice, sia pur necessaria e ineludibile. Ma anche in lei tutto è portato all’estremo, tutto è aumentato: la fedeltà inconcussa del servo Efix per le dame Pintor in Canne al vento (1913), l’inane superbia aristocratica di Noemi Pintor, la snervata sensualità di Elias Portolu come quella di Giacinto, il nipote delle dame Pintor venuto da lontano, il risoluto orgoglio femminile di Marianna Sirca, il rigoroso codice famigliare della vecchia matriarca nell’Incendio dell’oliveto (1917), la devozione per il figlio Paulo, parroco di Aar ‒ una Macondo sarda, secondo Marcello Fois ‒ nella Madre (1920). E anche in lei i personaggi sognano: il denaro facile, l’amore, un’irraggiungibile spiritualità, ma soprattutto vivono in una perenne atmosfera onirica, come Elias Portolu, come Giacinto, come Efix ‒ in particolare quando decide di vivere di carità vagabondando per la Sardegna ‒ che fa loro vedere il mondo attraverso il prisma della loro fluttuante interiorità.

Infine ‒ e qui si segna un netto distacco tra i due, che pur hanno messo entrambi in toto se stessi nei loro libri ‒ Balzac visse anche romanzescamente la sua vita tra amori viaggi e imprese economiche velleitarie, mentre Deledda si nascose dietro un’esibita maschera di perbenismo.

E a Roma, dopo il fulgore della giovinezza, mi costruii una casa mia dove vivo tranquilla col mio compagno di vita ad ascoltare le ardenti parole dei miei figli giovani. Ho avuto tutte le cose che una donna può chiedere al suo destino, ma grande sopra ogni fortuna la fede nella vita e in Dio

disse nel discorso per il ricevimento del Nobel per l’anno 1926 pronunciato a Stoccolma il 10 dicembre 1927. Deledda era, però, una donna, e una donna della piccola borghesia italiana, e forse per questo, volendosi garantire piena libertà artistica, dovette, tra fine Ottocento e fascismo, attenersi a un rigido paradigma di comportamento. Ma di quali tumulti fosse capace la sua anima lo sappiamo dal ricco epistolario giovanile, come illustra con partecipe acribia il saggio di Rossana Dedola.

Le scelte della «Biblioteca romantica» e l’enfasi sulla traduzione

La traduzione deleddiana si colloca nel quadro del boom traduttorio che l’editoria italiana vide tra la fine degli anni venti e gli anni trenta del secolo scorso (Marchetti 2014). In questo l’iniziativa della mondadoriana «Biblioteca romantica» che Borgese ideò e diresse fino al 1938 spicca per eleganza e rigore (Cattaneo 2010). Lo stesso cosmopolita G. A. Borgese ‒ critico letterario, giornalista e docente universitario a Torino e Milano, dal 1931 in autoesilio negli Stati Uniti, prima a Berkeley, poi allo Smith College (MA) e infine all’Università di Chicago ‒ descrisse il suo progetto in un opuscolo del 1930. L’idea è di mettere in piedi «una raccolta di capolavori romantici e stranieri in veste italiana e classica» (Borgese 1930, 21), in tutto una cinquantina volumi. Naturalmente la scelta non poteva essere esauriente e rischiava di essere soggettiva, e Borgese ne è ben consapevole, ma doveva comunque rispondere a certi requisiti ‒ doveva trattarsi di opere narrative di fama e valore acclarati, possibilmente romanzi ‒ e tener conto delle risorse in campo:

Per esempio: perché non sono inclusi tra gli inglesi né Scott [in realtà nel 1934, al numero XXXI, comparirà Waverley nella versione di Corrado Alvaro] né Thackeray? perché di Defoe è data Lady Roxana e non Robinson Crusoe? perché di Dostoievski non figurano i Karamazof? Alcune volte parve difficile trovare chi sapesse ripetere il ritmo di uno stile antiquato; altre volte fummo esitanti davanti a differenze di gusto che hanno ormai fatto scialba per noi l’immaginazione di scrittori a loro tempo popolari e famosi; ed altre volte a parità d’interesse, abbiamo preferito un’opera meno nota ad altra già divulgata in Italia; ed altre infine l’affinità elettiva fra il traduttore e l’opera, la speranza di una traduzione egregia, ci ha fatto adottare l’opera a cui andavano le simpatie del desiderato traduttore (Borgese 1930, 24-25).

Così più in là ci rivela la difficoltà incontrata con Madame Bovary, opera che era parsa inespugnabile, tra i tanti, allo stesso Ferdinando Martini ‒ letterato, uomo politico ministro della P.I. e delle Colonie, governatore dell’Eritrea… e traduttore, inoltre, di Stendhal e di Zola ‒, per poi finire nelle mani del fine poeta e francesista Diego Valeri e comparire, nel 1936, al numero XXXIX della collana. Non furono insomma poche le difficoltà per trovare l’opera giusta per il traduttore giusto. Sottolineiamo che si tratta della prima volta che si dà tanto esplicita importanza al profilo del traduttore, il cui nome, sempre per la prima volta, campeggia sul frontespizio con una dignità tipografica di poco inferiore a quella dell’autore. Ma chi sono i traduttori della «Biblioteca romantica»? Diamo pure per scontati i numi tutelari Ugo Foscolo, col suo sterniano Viaggio sentimentale (su cui vedi Mattana 2016) e Giovanni Berchet col suo schilleriano Visionario (abbinati nello stesso ventesimo volume della collana). Per il resto Borgese volle individuarli tra gli autori più celebrati del momento, ma anche tra più giovani e ancora ignoti cultori di letterature straniere,

cercando per ogni opera chi a parer nostro la potesse rendere più vivamente; e spesse volte, per questo o quello scrittore italiano particolarmente ammirabile o stimabile, cercando l’opera straniera ch’egli potesse più affettuosamente sentire e più volentieri rivivere […] In complesso si potrà dire che un insieme di forze letterarie come quelle che abbiamo avuto la fortuna di adunare intorno a questa impresa, non s’è visto di frequente né da noi né altrove (Borgese 1930, 29-30).

E a quali criteri dovrebbe corrispondere una buona traduzione? Borgese condivide la posizione di Alfredo Panzini, secondo il quale «La parola di un linguaggio ha una sua anima intraducibile: bisogna sostituirla con altra equivalente parola, perciò il traduttore deve essere un dotto e insieme un artista, e non basta: conviene disponga di moltissima pazienza…» (Borgese 1930, 27); e quella del prestigioso classicista Ettore Romagnoli, che affermava:

mancano tuttora [1926] raccolte sistematiche di buone versioni da scrittori stranieri. Ottima quella iniziata da Manacorda [la «Biblioteca sansoniana straniera»]; ma come sussidio alla lettura dei testi. Le raccolte che dico io dovrebbero sostituire i testi per chi non ne conosce la lingua; e dovrebbero perciò essere condotte con criteri prevalentemente artistici (Borgese 1930, 27-28).

Su questo punto, e cioè sull’autonomia rispetto all’originale del testo tradotto, tale da porlo come testo a sé stante nella lingua d’arrivo, Borgese è particolarmente d’accordo, e l’esempio massimo in proposito è, per lui, Il viaggio sentimentale nella trasposizione di Foscolo. Fare traduzioni secondo questa prospettiva e pubblicarne è un dovere di civiltà. Elenca quindi una serie di norme a cui i traduttori della collana occorre si attengano, e cioè: tradurre direttamente dall’originale, adottando la migliore edizione; tradurre integralmente, senza tagli né arbitrii; avvalersi di una lingua italiana piana e corrente senza sfoggi arcaici o vernacoli, unica garanzia questa perché l’impresa sia durevole; non affidare il lavoro a terzi, siano essi amici o famigliari, convalidandolo poi con la propria autorità; non intromettersi fra l’opera e i suoi lettori, rinunciando perciò alle note e, in generale, evitando di invadere il campo del testo col proprio ingegno critico; si ammette solo una nota informativa relegata in fondo al volume.

Nella «Biblioteca romantica» numerose sono soprattutto le traduzioni dal francese (18 volumi su 50), e questo non solo per l’eccellenza di questa narrativa nell’età moderna, ma perché, come spiega Borgese, i nostri letterati

d’alta fama seppero tradizionalmente il latino, a cui ebbero e hanno il costume d’aggiungere, o qualche volta di sostituire, il francese; mentre di altre lingue moderne furono e sono, di solito, mediocremente esperti. Volendoli collaboratori dovemmo in molti casi proporre o accettare un romanzo di lingua francese (Borgese 1930, 35).

e così, malgrado il parere di molti, secondo cui tradurre testi dal francese sarebbe stato inutile vista la diffusa conoscenza di questo idioma nel nostro paese, la loro rappresentanza nella collana è la più folta. E Borgese ironicamente aggiunge: gli italiani «s’immaginano di leggere Chateaubriand come lo strimpellatore si immagina di eseguire Chopin. Il buon traduttore li affranca da questo equivoco» (Borgese 1930, 34).

Tra i nomi più noti dell’epoca furono coinvolti, oltre al citato Ferdinando Martini e Borgese stesso, Alfredo Panzini, Marino Moretti, Aldo Palazzeschi, Massimo Bontempelli, Francesco Pastonchi, Angiolo Silvio Novaro, Corrado Alvaro, Riccardo Bacchelli, Diego Valeri, il giustamente oggi dimenticato Lucio D’Ambra, praticamente quasi l’intero gotha letterario italiano dell’epoca. Da non dimenticare l’ormai affermato mediatore con la cultura anglosassone, soprattutto irlandese, Carlo Linati, che si era già sperimentato con Joyce. E tra i giovani intellettuali e traduttori agli esordi si possono citare Rinaldo Küfferle, Enrico Piceni, Giacomo Prampolini, Mario Praz, Elio Vittorini. Ma praticamente tutti i traduttori e tutti gli estensori delle note finali erano figure di ampia e riconosciuta competenza.

E le donne?

Le donne nella «Biblioteca romantica»

Ci interessano, in questo discorso. in particolare le traduttrici e le curatrici. Ma è emblematico notare che le autrici prese in considerazione per la collana sono ben poche, soltanto 3 su 53 autori complessivi (tre volumi vedono infatti accoppiamenti di due autori ciascuno): Jane Austen, Madame de Lafayette, George Eliot. Insomma non c’è partita. Ma erano problemi che non ci si poneva ancora, per non dire che nell’arco di tempo considerato dalla collana, sostanzialmente l’Ottocento con qualche ridotta puntata nei due secoli precedenti, la presenza femminile non era ancora emersa significativamente in letteratura se non in certa misura in Inghilterra e nella Francia dei salotti aristocratici prerivoluzionari. Ma veniamo alle traduttrici coinvolte. Sono cinque: Grazia Deledda, Ada Negri, Sibilla Aleramo, Lavinia Mazzucchetti.

La grande germanista Lavinia Mazzucchetti, l’unica a non essere né narratrice né poetessa, tradusse di Adalbert Stifter Der Hagestolz (1848: Lo scapolo), Brigitta (1843) e Der Waldsteig (1845: Il sentiero nel bosco), per il XXXV volume della «Biblioteca romantica», uscito nel 1935 col titolo Lo scapolo e altri racconti, uno dei pochi volumi che fanno eccezione alla regola del privilegiamento della forma romanzo. Deledda, Negri e Aleramo fanno parte del quintetto imperiale delle scrittrici italiane dell’epoca. All’appello mancano Matilde Serao ‒ antagonista in pectore di Deledda per la candidatura al Nobel ‒, che era già morta nel 1927, e la musa del maturo Carducci, Annie Vivanti, di lingua madre inglese, alla quale in effetti venne commissionata da Borgese la traduzione di Tess of the D’Ubervilles di Thomas Hardy, ma non se ne fece niente: chissà se in questo non abbia a un certo punto giocato il fatto che fosse ebrea e di natali inglesi. Ada Negri, poetessa di grande popolarità e anche lei concorrente ufficiale al Nobel in alternativa a Deledda, tradusse e curò con garbo Manon Lescaut di Prévost (volume XII della collana, 1930). Di lei Borgese dice: «Nel tradurre questo testo immortale, Ada Negri, prosatrice e poeta, è stata pari a se stessa» (Borgese 1930, 77). Sibilla Aleramo, autrice del più importante e seminale romanzo al femminile del primo Novecento, Una donna (1906), si occupò di Madame de La Fayette (volume XXXIV, 1934), ma nella nota finale scrisse «Riconoscenza e solidarietà m’hanno fatto scegliere La Principessa di Clèves quando mi si è chiesto quale romanzo volessi tradurre per la Collezione romantica. Avrei forse preferito, per maggiore affinità spirituale, un volume di George Sand» (Aleramo 1934, 221).

E arriviamo a Grazia Deledda che, insignita recentemente del Premio Nobel, non poteva non essere interpellata. Borgese l’apprezzava e ne aveva riconosciuto il valore per tempo, pur nel solito quadro riduttivo della critica del tempo. In una recensione al Nostro padrone, romanzo del 1910 (precedente quindi, fatta esclusione per Elias Portolu che è del 1903, alle opere più significative di Deledda, Canne al vento, Marianna Sirca, L’incendio nell’oliveto, La madre), aveva scritto:

A Grazia Deledda bisogna subito riconoscere una qualità, che è la qualità elementare della sua arte, ma che pure manca ad alcuni fra i romanzieri più gloriosi: ella ha il dono del racconto, che è una ricchezza istintiva, come l’entusiasmo del lirico e l’eloquenza del prosatore: una ricchezza che non si conquista con la fatica e che non si regala a nessuno. Grazia Deledda è una narratrice di razza, come una vecchia contadina (Borgese 1911, 95).

Borgese aveva elaborato per lei la fortunata formula di «epopea del vicinato»:

È un’epopea in prosa, ma prosa agile, mossa, ricca di spunti drammatici e descrittivi, satura di un certo terrore soprannaturale, tra fatalistico ed ortodosso; ed è costituita da innumerevoli rapsodie cui quasi ogni giorno si aggiunge una nuova avventura, un nuovo delitto, una nuova fola di superstizione mistica. Ciascheduno conosce i fatti e i detti dei suoi conterranei […] La memoria […] è tenacissima nell’ordinare le genealogie locali e nel seguire la successione di delitto e castigo (Borgese 1911, 96).

Il conferimento del Nobel, comunque, aveva fatto lievitare le azioni di Grazia Deledda: era quindi opportuno coinvolgerla. Non risulta conservato un carteggio Deledda/Borgese relativo alla traduzione di Eugénie Grandet. Ma disponiamo del giudizio di Borgese sul risultato dell’impresa: «Grazia Deledda ha superato le gravi difficoltà che una traduzione di questo romanzo offriva. La grande scrittrice è rimasta fedele alle asprezze, alle ingenuità, e soprattutto allo spirito dolce e crudele che il genio francese ha messo in questo incomparabile libro» (Borgese 1930, pp. 69-70).

Né Deledda, diversamente da Ada Negri e Sibilla Aleramo, redasse una nota finale per il romanzo con sue osservazioni e giudizi. La nota al testo venne affidata (come altre della collana) ad Attilio Borgognoni, autore di testi scolastici per l’insegnamento della lingua francese, noto soprattutto per un testo sull’alpinismo, Scalatori (Hoepli, Milano 1939), curato in tandem con Giovanni Titta Rosa. Sarebbe stato, dopo la guerra – mi dicono amici che l’hanno conosciuto – direttore della prima Scuola interpreti e traduttori di Milano, in via Silvio Pellico, fondata da Silvio Baridon. Anch’egli offre un giudizio sulla traduzione: «Difficile era conservare allo stile del romanzo, talora corrotto tal’altra rosato, veiné de toutes les teintes, le sue qualità originali. Grazia Deledda, con questa traduzione ha superato la grave e faticosa responsabilità, con la competenza filologica, con l’alto senso d’arte che ogni lettore può da sé apprezzare» (Borgognoni 1930, 245).

Non sono mancate voci secondo cui, in realtà, il libro fosse stato tradotto dal figlio di Grazia, Sardus Madesani, e non dall’“illetterata” Deledda. Certamente Sardus si occupò di cose francesi, come testimoniano due suoi interessanti saggi, Note sugli epistolari amorosi di Foscolo e Mirabeau e Un amico della natura: J.H.H. Fabre, pubblicati rispettivamente nel 1926 e nel 1927 sulla «Nuova Antologia», la rivista su cui comparvero tanti romanzi della madre. E nel 1934 pubblicò, tra i «Quaderni di poesia di Emo Cavalieri» di Como, anche una raccolta di racconti, Notte d’estate del cireneo e un romanzo, La gazza, entrambi, però, di modesta tenuta narrativa, tali da non far presumere in lui le doti del traduttore letterario.

Un’affinità elettiva: Grazia Deledda e Eugénie Grandet

Come abbiamo visto Borgese si preoccupò, soprattutto per i nomi più celebri, di scegliere testi da tradurre che fossero in sintonia con la loro personalità artistica. Cosa poté spingere Grazia Deledda a scegliere Eugénie Grandet o ad accettarne la proposta da parte del direttore della collana? Abbiamo già indicato nell’allure visionaria della rappresentazione della realtà un tratto che avvicina, pur nelle differenze, Deledda a Balzac come narratori. Ci siamo anche chiesti, forse un po’ oziosamente, se echi del viaggio in Sardegna di Balzac non fossero giunti in qualche modo alle orecchie di Deledda incuriosendola nei confronti di quest’avventura e del suo straordinario protagonista. Non lo sappiamo, e difficilmente Deledda poté aver accesso alla Correspondance di Balzac pubblicata da Calmann Lévy nel 1876, ma neppure lo si può escludere. Si tratta in ogni caso di una bizzarra combinazione di eventi: un peregrino viaggio di Balzac in Sardegna e una peregrina traduzione balzachiana di Deledda.

Ma possiamo invece interrogarci utilmente su cosa poté attrarre la scrittrice in Eugénie Grandet. Di certo, innanzitutto, la situazione base: una giovane donna che conduce una vita avara di luce e di affetti come prigioniera in una casa ben inchiavardata in una silenziosa e fatiscente cittadina ‒ Saumur ‒, sottoposta a rigidi canoni di comportamento. È una situazione analoga a quella vissuta da Deledda stessa adolescente e giovane a Nuoro, la sua Saumur, nella dimora famigliare, ed è anche la situazione che caratterizza tante sue eroine: un sentore di provincia, di paese chiusi e fuori del tempo. Grazia ne evase scrivendo racconti e inviando lettere al mondo. Eugenia (usiamo di qui in poi i nomi nella versione deleddiana) viene risvegliata a se stessa dall’arrivo inatteso da Parigi del cugino Carlo: un folgorante elemento esterno che l’abbacina facendole compiere atti ardimentosi e fin allora impensati, come entrare di nascosto nella camera del cugino dormiente per osservarlo o disubbidire al padre nel suo punto più nevralgico facendo dono a Carlo, in partenza per le Indie, delle monete d’oro e d’argento del suo douzain. Carlo – con la sua vestaglia di seta verde, le sue unghie rosee, i suoi guanti sottili, la sua capigliatura inanellata – è tutto ciò che non è Saumur, è l’apertura di un orizzonte sconfinato su un mondo nuovo. È un sogno di liberazione incarnato. Analogamente il ritorno di Elias Portolu nell’isola dal continente (dove aveva scontato qualche anno di carcere) sconvolge l’esistenza di Maria Maddalena, fidanzata del fratello di Elias, così come l’arrivo, sempre dal continente, di Giacinto, nipote delle dame Pintor, ridesta i sensi soffocati della superba zia Noemi. Qui il significante dei nuovi orizzonti e della libertà è il continente, e i due giovani che ne sono portatori appaiono ineluttabilmente seducenti pur nella loro palese debolezza. Per la stessa Deledda il miraggio di Roma fu la stella polare che ne guidò le azioni fino al matrimonio con Palmiro Madesani. Aggiungiamo ancora il caso di Marianna Sirca affascinata dal bandito Simone Sole (nomen omen): qui l’alterità non è geografica, bensì sociale, ma l’effetto è il medesimo. Nelle donne di Deledda la forza dell’eros si dispiega, però, con maggior evidenza. Stupendo è il passo in cui Marianna Sirca ormai trentenne, fa la scoperta del proprio corpo di fronte allo specchio:

Vide, sopra le gambe lunghe e lisce, le piccole ginocchia pallide e lucide come due frutti di marmo levigato; e vi posò su il cavo delle mani; poi si curvò a calzare le scarpe. Le trecce disfatte le scivolarono come serpentelli neri dagli omeri cadenti al petto bianco venato di viola; le rigettò indietro con una mano mentre con l’altra stette un po’ ad accarezzarsi il piede arcuato (Deledda 1981, 813).

Ma anche in Balzac, che pur non fa che ribadire la sublimità e la purezza dell’amore di Eugenia (cadendo in un classico stereotipo romantico maschile), ci sono momenti di carsico ‒ si potrebbe dire “sublime” ‒ erotismo: Elle respirait avec délices les parfums exhalés par cette chevalure si brillante, si gracieusement bouclée. Elle aurait voulu pouvoir toucher la peau satinée des ces jolis gants fins (Balzac 1961, 47); che Deledda (1930, 53) traduce: «Con vera delizia ella aspirava i profumi esalanti da quella splendida capigliatura inanellata con tanta grazia; dentro di sé provava una voglia acuta di toccare la pelle bianca di quei guanti». Oppure:

Vous avez une bien jolie bague, dit Eugènie; est-ce mal de vous demander à la voir?
Charles tendit la main en défaisant son anneau et Eigénie rougit en effleurant du bout de ses doigts les ongles roses de son cousin
(Balzac 1961, 93)

Avete un bellissimo anello ‒ disse Eugenia ‒ vi dispiace che lo osservi? ‒ Carlo tese la mano sfilandolo, e la fanciulla arrossì nello sfiorare con la punta delle dita le unghie rosee del cugino (Deledda 1930, 95).

Il desiderio di toccare il cugino viene deviato, nella scrittura balzachiana e nella coscienza di Eugenia, sugli oggetti che egli indossa e uno sfioramento è in grado di dare le vertigini, come lo sguardo di Simone Sole è la scintilla che dà fuoco alla femminilità di Marianna Sirca. Con mezzi minimi si ottengono effetti straordinari: come non ricordare ‒ facendo una rapida incursione nell’amato, da Deledda, Flaubert e nel genere maschile ‒ il turbamento di Charles Bovary di fronte a Emma che si succhia il sangue del dito che si è punta cucendo?

Tra il mondo di Eugenia, per interposto Balzac, e l’universo fantastico di Deledda le affinità sono davvero tante. Anche il matrimonio finale di Eugenia con il signore di Bonfons ‒ atto che fa di lei una moglie (e poi una vedova) agli occhi del mondo, rendendone la posizione mondanamente accettabile e riscattando l’ereditiera dall’ambiguo e inferiorizzante status di zitella ‒ trova perfetta rispondenza nei personaggi femminili di Deledda, in Noemi Pintor come in Marianna Sirca come in Maria Maddalena. Il matrimonio segna, per la donna, insieme all’accantonamento dei sogni, il suo inserimento a pieno titolo nella struttura sociale. E d’altronde Grazia Deledda ne sapeva qualcosa, pur se presentò sempre la propria unione con Palmiro Madesani come felice coronamento dei suoi desideri.

La versione di Grazia Deledda: qualche sparsa osservazione

Una prosa moderna, scorrevole, «senza sfoggi arcaici o vernacoli», come richiesto da Borgese: sicuramente l’obiettivo è stato raggiunto. Lo stesso non si può dire di tutte le peraltro sensibili versioni comaparse nella «Biblioteca romantica». Nell’Atala di Chateaubriand tradotto dal modernista (e accademico d’Italia) Massimo Bontempelli, ad esempio, compaiono sovente, forse con l’intento di impreziosire, termini ed espressioni in accezioni letterarie o in forme obsolete: in un paio di pagine soltanto troviamo «a piè dei monti», «si adergono», «romita», «verzura», «vanirvi», «bicorne», il dantesco «vallee», «biancofioriti», «in sommo ai», «dômi» (Bontempelli 1931, 10-11). Il che, bisogna però dire, non va a scapito dell’ammaliante descrizione della selvaggia Luisiana (come si scriveva un tempo e scrive Bontempelli) settecentesca. Occorre dire che Deledda era avvantaggiata dalla sua scrittura “semplice” (all’epoca una sorta di accusa da parte dei critici) che le ha permesso di superare gli anni indenne, comunque decisamente meglio di tanti scrittori a lei contemporanei. Basti vedere gli incipit, così privi di enfasi e di orpelli, di Elias Portolu (1903)

Giorni lieti si avvicinavano per la famiglia Portolu, di Nuoro. Agli ultimi di aprile doveva ritornare il figlio Elias, che scontava una condanna in un penitenziario del continente; poi doveva sposarsi Pietro, il maggiore dei tre giovani Portolu (Deledda 1971, 7)

o di Marianna Sirca (1915):

Marianna Sirca, dopo la morte di un suo ricco zio prete, del quale aveva ereditato il patrimonio, eraandata a passare alcuni giorni in campagna, in una piccola casa colonica che possedeva nella Serra di Nuoro, in mezzo a boschi di soveri (Deledda 1981, 767).

Non inganni il «soveri» per «sugheri»: si tratta infatti di una variante regionale diffusa in Sardegna. Ugualmente Deledda aveva una buona pratica del dialogo, ampiamente utilizzato nel corpo delle sue narrazioni, in particolare in Elias Portolu e in Canne al vento. E sappiamo come negli autori italiani del passato spesso il dialogo fosse un punto debole, mancando di naturalezza. Il dialogato spesso brusco e diretto tra i personaggi di Deledda (si pensi agli scambi di battute tra Noemi Pintor e il servo Efix) le è stato di grande aiuto nel trovare le voci per Grandet padre e la serva Nannina (traduzione non felicissima per l’originale Nanon). Deledda si permette anche, certamente, qualche ritocco, aggiungendo o togliendo qui una parola o un’espressione e là un’altra, venendo in certa misura meno alla consegna della perfetta conformità all’originale. In genere si tratta di sveltimenti o, qualche volta, di interventi facilitatori della lettura. Il ritmo e lo spirito dell’originale, però, sono sempre mantenuti, e se si legge solo la traduzione tutto suona perfettamente naturale. Facciamo un esempio. Il cugino Carlo ha da poco saputo della rovina finanziaria e della morte del padre:

Nanon vint cogner au mur pour inviter son maître à descendre, le dîner était servi. Sous la voûte et à la dernière marche de l’escalier, Grandet disait en lui-même: “Puisque je toucherai mes intérêts à huit, je ferai cette affaire. En deux ans, j’aurai quinze cent mille francs que je retirerai de Paris en bon or.”
‒ Eh! Bien, où donc est mon neveu?
Il dit qu’il ne veut pas manger, répondit Nanon. Ça n’est pas sain.
‒ Autant d’économisé, lui repliqua son maître.
‒ Dame,
voui, dit-elle.
‒ Bah! Il ne pleurera pas toujours.
La faim chase le loup hors du bois (Balzac 1961, 108).

Di sotto intanto si serviva il pranzo, e la domestica venne a picchiare contro il muro per avvisarlo. Nello scendere egli pensava ancora:
‒ Arriviamo all’otto per cento d’interesse, quindi vi è convenienza nell’affare, e in due anni è un milione e mezzo di franchi che mi vengono, tutti in oro sonante… E così ‒ chiese forte ‒ dov’è mio nipote?
‒ Dice che non vuol mangiare, rispose Nannina. ‒ Non è una bella cosa, questa!
‒ Tanto di risparmiato ‒ replicò il padre.
‒ Perbacco! ‒ osservò l’altra.
‒ La fame caccia anche i lupi dal bosco. (Deledda 1930, 110)

È evidente lo sveltimento ‒ una vera e propria accelerazione ‒ operato da Deledda con una serie di tagli: Sous la voûte et à la dernière marche de l’escalier è sintetizzato in «Nello scendere»; Il ne pleurera pas toujours è espunto. Viene aggiunto «chiese forte», per sottolineare il passaggio dalla rimuginazione interna di Grandet alle parole rivolte alla «domestica», termine azzeccato in sostituzione di «Nanon». E così è buona la resa di bon or con «oro sonante». Dame, restituito con «perbacco» si attaglia al carattere mascolino di Nannina/Nanon. Peccato che la sfumatura di dame, voui non sia esattamente questa; o, almeno, si sarebbe dovuto aggiungere un «è vero» a «perbacco». Il tono rude e senza smancerie delle parole tra padrone e serva, resta, se addirittura non ne esce addirittura rafforzato. Simile tecnica è sistematicamente seguita in tutta la traduzione.

Riportiamo ancora lo stralcio di uno dei tanti abituali battibecchi tra Grandet e Nannina/Nanon, da cui emerge come Deledda non fosse affatto inibita ad avvalersi di espressioni tipiche del parlato quotidiano nella scrittura. Siamo un po’ prima dell’episodio precedente:

Ha! çà, Nanon, je ne t’ai jamais vue comme ça. Qu’est-ce qui te passe donc par la tête? Es-tu la maîtresse ici? Tu n’auras que six morceaux de sucre.
‒ Eh! bien, votre neveu, avec quoi donc qu’il sucrera son café?
‒ Avec deux morceaux, je m’en passerai, moi.
‒ Vous vous passerez de sucre, à votre âge! J’aimerai mieux vous en acheter de ma poche
‒ Mêle-toi de ce qui te regarde
(Balzac 1961, 77)

Ah, perbacco, Nannina, non t’ho mai vista così. Che ti gira? Sei la padrona?… Non ti do più di sei pezzi di zucchero.
‒ E allora con cosa vostro nipote addolcirà il suo caffè?
‒ Con due pezzi di zucchero; ne farò a meno io.
‒ Voi, fare a meno dello zucchero… alla vostra età?… Preferirei andarvene a comprare di tasca mia
‒ Impicciati nei fatti tuoi (Deledda 1930, 80).

Dunque tranquillamente Deledda ricorre a «Che ti gira?» per Qu’est-ce qui te passe donc par la tête? senza ricorrere ‒ come fanno altri ‒ a un lezioso e toscaneggiante «Che ti frulla per il capo?», e così ricorre per Mêle-toi a un colorito «Impicciati» anziché a un anodino «Occupati». E bene fa a trasformare il futuro di Tu n’auras nel presente «Non ti do», più naturale nell’italiano (si dice infatti, ad esempio, «Vengo da te domani» e non «Verrò da te domani», «Ci vado domani» e non «Ci andrò domani»). Così ome fa bene, nello specifico contesto, a trasformare l’espressione idiomatica francese il vient comme marée en carême (Balzac 1961, 120; alla lettera «cade come il pesce in quaresima») in «giunge come il cacio sui maccheroni» (Deledda 1930, 121), pur se rimane sempre aperto il dibattito tra familiarizzazione e calco estraniante, ma culturalmente significativo. E analogamente Deledda opera in svariati altri casi.

Ma anche in altri registri Deledda trova una grana di scrittura efficace. Riportiamo un passo paesaggistico, come tanti se ne trovano nei suoi romanzi ‒ dove rappresentano un controcanto continuo alla narrazione, un’ipostasi degli stati d’animo ‒, meno invece in quelli di Balzac. Qui non appaiono tagli (tranne nell’espressione autumnes naturels) o sveltimenti, ed è notevole la delicatezza del lessico e la pacatezza del ritmo:

Un jour pur et le beau soleil des autumnes naturels aux rives de la Loire commençaient à dissiper le glacis imprimé par la nuit aux pittoresques objets, aux murs, aux plantes qui meublaient ce jardin et la cour.
Eugénie trouva des charmes tout nouveaux dans l’aspect de ces choses si ordinaires pour elle. Mille pensées confuses naissaient dans son âme, et y croissaient à mesure que croissaient au-dehors les rayons du soleil. Elle eut enfin ce mouvement de plaisir vague, inexplicable, qui enveloppe l’être moral, comme un nuage envelopperait l’être physique. Ses réflexions s’accordaient avec les détails de ce singulier paysage, et les harmonies de son cœur firent alliance avec les harmonies de la nature (Balzac 1961, 71).

Una giornata limpida e il lieto sole d’autunno in riva alla Loira venivano man mano dissipando quella specie di velatura che la notte aveva distesa sopra gli oggetti pittoreschi, sui muri, sulle piante del giardino e del cortile. Eugenia sentì un fascino tutto nuovo in quelle cose che fino allora le erano rimaste indifferenti. Mille pensieri confusi le sorsero nell’anima, e crescevano a misura che i raggi del sole diventavano più vividi: finché un moto di piacere la scosse, vago, inesplicabile, un piacere che ne avvolgeva l’essere morale, come una nuvola avvolgerebbe l’essere fisico. I suoi pensieri erano in perfetto accordo con i particolari dello splendido paesaggio, e le armonie del cuore finirono con l’unirsi a quelle della natura (Deledda 1930, 75).

In definitiva molte luci e qualche ombra in questo unicum di Deledda. Tra le ombre, oltre quelle già indicate, qualche imprecisione nella resa dei realia, compensata da altri realia che erano evidentemente ben fissi nella sua memoria, come «portoni», «battenti», «usci», «imposte», «chiavarde», «inferriate», «pozzi», «carrucole», tutti oggetti che rinviavano alle abitazioni nuoresi e alla sua casa di famiglia. Già l’uso preciso di questi termini è una spia dell’appartenenza di questa traduzione proprio a Grazia Deledda. Ma ci sono altre spie in tal senso, disseminate nel testo. L’uso frequente dell’aggettivo «inconscio» (compare almeno quattro volte e precisamente alle pp. 113, 114, 153 e 163 di Deledda 1930), di uso, allora, molto recente e senza alcuna corrispondenza nel testo francese, ci rimanda inevitabilmente a Cosima, dove Deledda fa più di una volta (quattro volte anche qui) riferimento all’elemento subcosciente che corrispondeva evidentemente a un suo profondo sentire: «adesso, nel sogno, si spiegava d’un tratto molte cose; lo stesso senso di vertigine, dello spalancarsi e richiudersi rapidissimo di un mondo anteriore, subcosciente» (Deledda 1971, 810). E non dimentichiamo che la serva dei Deledda, ricordata in Cosima, si chiamava Nanna ovvero Nannedda in sardo. La scelta un po’ infelice di Nannina per Nanon (che non rende certo l’idea di una gigantessa qual è la serva nella descrizione di Balzac) trova così una spiegazione nel ricordo di questa amata presenza della sua infanzia e della sua giovinezza. E, infine, nel brano immediatamente successivo a quello sopra citato compare in Balzac l’espressione gorge de pigeons che viene tradotta (anziché con “gola di piccioni”) con «petti di colomba». Come non ricordare l’appellativo «colomba» usato tanto volte da zio Portolu per indicare affettuosamente una donna, specie se giovane e bella?

Quand le soleil atteignit un pan de mur, d’où tombaient des Cheveux de Venus aux feuilles […] à couleurs changeantes comme la gorge des pigeons (Balzac 1961, 72).

Quando il sole raggiunse un angolo del muro, di dove si protendevano le piante di capelvenere dalle foglie […] a colori cangianti, simili a petti di colomba (Deledda 1930, 75).

La lingua che parliamo e che scriviamo è involontariamente significativa, e può rivelare segreti.

Bibliografia

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– 1971: Grazia Deledda, Romanzi e novelle, a cura di Natalino Sapegno, Milano, Mondadori

– 1981: Grazia Deledda, Romanzi sardi, a cura di Vittorio Spinazzola, Milano, Mondadori

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Mattana 2016: Alessio Mattana, «Ad amare una volta un po’ meglio tutti gli altri mortali», in «tradurre. Pratiche teorie strumenti», n. 11 (autunno 2016) (https://rivistatradurre.it/2016/11/ad-amare-una-volta-un-po-meglio-tutti-gli-altri-mortali/)

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