Bollire il latte (o il bambino?)

PICCOLA GUIDA AI MANUALI DI TRADUZIONE

di Norman Gobetti

If the baby doesn’t thrive on raw milk, boil it (Newmark 1981, 181)

Se il bambino non cresce bene col latte crudo, fatelo bollire (Newmark 1994, 306)

1.

In un’intervista pubblicata in questo stesso numero di «tradurre», alla domanda di quale fosse il metodo di insegnamento seguito nei pionieristici laboratori di traduzione da lei tenuti negli anni ottanta, Barbara Lanati risponde: «Era come se ci fosse una grande piscina, e poi ci dovevamo buttare tutti e cercare di arrivare dall’altra parte» (Lanati 2018). Per secoli, e fino a non molto tempo fa, era così che si imparava a tradurre: buttandosi in acqua e nuotando.

All’incirca in quello stesso periodo il linguista Antonio Bonino, autore di quello che è stato forse il primo manuale di traduzione mai pubblicato in Italia, Il traduttore. Fondamenti per una scienza della traduzione. Vol. 1, lamentava: «Non è ammesso fare il medico senza una lunga preparazione teorico-pratica. L’architetto ha bisogno di cinque anni di studio accademico e qualunque mestiere presuppone un apprendistato: perfino un cane poliziotto deve sottostare a un lungo e paziente addestramento. Invece la maggior parte dei traduttori sono ancora dilettanti improvvisati» (Bonino 1980, 14). La soluzione prospettata dall’autore era che gli aspiranti traduttori (novelli cani poliziotto?) s’impratichissero prima nello studio della linguistica, sola disciplina capace di dotarli degli strumenti indispensabili ad affrontare la professione in modo consapevole.

La strada era stata aperta, e oggi la bibliografia (soprattutto di impronta linguistica) sulla traduzione è sterminata, e va sempre più arricchendosi. Solo in Italia, ogni anno escono decine di nuovi libri che per un verso o per l’altro parlano di traduzione: saggi teorici, panoramiche storiche, riflessioni autobiografiche, riedizioni di classici, atti di convegni, approfondimenti su singoli autori o singoli aspetti. In questo ricchissimo panorama non mancano i volumi animati da un intento didattico, che si propongono quindi, se non di insegnare a tradurre – ben pochi autori ardiscono a tanto –, quanto meno di fornire indicazioni e strumenti che possano, come ha scritto Paola Faini, «rappresentare un aiuto per chi sceglie di dedicarsi all’esigente ma appassionante impegno della traduzione» (Faini 2004, 199). I libri che qui definisco «manuali di traduzione» sono questi ultimi, ma si tratta evidentemente di una definizione alquanto vaga, che si presta agli usi più svariati, come attestano fra gli altri i casi del Manuale del traduttore di Giacomo Leopardi a cura da Bruno Osimo e Federica Bartesaghi, che è un florilegio di annotazioni tratte dallo Zibaldone e commentate dai due curatori, e di Shakespeare come vi piace. Manuale di traduzione di Luca Fontana, che è un’edizione commentata di tre traduzioni shakespeariane realizzate dall’autore.

Questa produzione editoriale così nutrita è però un fatto piuttosto recente. In un articolo uscito su questa rivista, Rossella Bernascone ricordava come, ancora alla fine degli anni ottanta, per chi esordiva come traduttore ci fossero solo «due puntelli a disposizione, Giorgio I e Giorgio II: Teoria e storia della traduzione di Georges Mounin e After Babel di George Steiner» (Bernascone 2016). E in effetti, all’epoca, non soltanto a pochi passava per la testa che fosse necessario (o anche solo opportuno) insegnare a tradurre, ma per il senso comune la traduzione stessa non era un argomento su cui valesse la pena spendere tante parole, se non per ripetere luoghi comuni triti e ritriti sul traduttore traditore e la bella infedele.

Il cambiamento però era in corso, e aveva avuto inizio proprio negli anni ottanta (dopo quello di Antonio Bonino, erano usciti i libri di Armando Beati, Enrico Catani, Emanuele Calò, Mariolina Bertini, Franco Giacone, Rosanna Masiola e altri; si veda la bibliografia in calce a questo articolo), ma una vera accelerazione si ebbe solo a partire dai primi anni novanta. Nel 1993 uscirono ben sei libri che si potrebbero, almeno in senso lato, definire manuali di traduzione: due volumi tradotti – Il manuale del traduttore letterario di Friedmar Apel e La traduzione. Teorie e pratica di Susan Bassnett –, un’antologia; La teoria della traduzione nella storia a cura di Siri Nergaard (cui sarebbe seguito due anni dopo, a cura della stessa Nergaard, Teorie contemporanee della traduzione); e tre monografie scritte appositamente per gli studenti italiani: Per tradurre. Teoria e pratica della traduzione di Bruna Di Sabato, La pratica della traduzione. Dal francese in italiano e dall’italiano in francese di Josiane Podeur, e Il Russo: l’ABC della traduzione di Julia Dobrovolskaja.

Seguirono negli anni successivi altre versioni dall’inglese di libri poi molto adottati nei corsi di traduzione: Tradurre l’inglese di Tim Parks, Teorie della traduzione di Edwin Gentzler, L’invisibilità del traduttore di Lawrence Venuti; e altri volumi di autori italiani, fra cui, nel 1998, la prima edizione di quella che resta una delle guide alla traduzione più lette e citate dagli studenti: Il manuale del traduttore di Bruno Osimo. Si giunse così alle soglie degli anni duemila, quando, in concomitanza col moltiplicarsi a dismisura dei luoghi in cui la traduzione veniva insegnata, la produzione in questo settore si fece imponente e sempre più variegata.

2.

Leggendo e confrontando fra loro i numerosi manuali oggi disponibili, quel che più salta all’occhio è proprio la molteplicità degli approcci, sintomo, credo, del carattere ancora oggi embrionale delle riflessioni sulla didattica della traduzione. All’inizio del suo Per tradurre, Bruna Di Sabato premetteva: «Ho intrapreso la mia riflessione sulla teoria e sulla pratica della traduzione con scarse nozioni di didattica delle lingue, come d’altro canto tanti colleghi che, come me, si sono formati in un corso di laurea in Lingue e Letterature straniere: ispirandomi, quindi, il più delle volte, solo alla mia personale esperienza» (Di Sabato 1993, 9), un’affermazione che probabilmente molti altri autori di manuali di traduzione potrebbero sottoscrivere, dato che ancora oggi non soltanto non esiste un’idea condivisa di come si dovrebbe insegnare a tradurre, ma non c’è neanche un consenso diffuso sul fatto che insegnare a tradurre sia possibile.

Quel che nessuno negherebbe, però, è che la teoria non basta. Già Peter Newmark affermava: Translation theory […] cannot make a bad translator into a good one. It cannot make a student intelligent or sensitive (Newmark 1981, 36; «La teoria della traduzione […] non può trasformare un cattivo traduttore in uno bravo. Non può rendere intelligente sensibile uno studente» Newmark 1994, 74). E in tempi più recenti Massimiliano Morini rifletteva: «Per diventare (buoni) traduttori […] non c’è altra via che quella del tradurre quotidiano. Tuttavia, c’è modo di sveltire il processo di apprendimento, e di migliorare la qualità di quell’apprendimento, attraverso l’uso di esempi traduttivi, l’esplicitazione di condizionamenti e strategie, la previsione degli errori e la presentazione di procedure e strumenti» (Morini 2007, 9).

Dunque, come in qualunque altro mestiere, anche a tradurre evidentemente si impara traducendo; perciò, una volta resi edotti gli studenti in merito alla storia e agli ultimi sviluppi della teoria della traduzione, quasi tutti i manuali cercano di entrare nel vivo della faccenda affrontando questioni pratiche, un duplice approccio evidente nei titoli e sottotitoli di molti volumi, da Teoria e pratica della traduzione di Enrico Catani a La traduzione. Teorie e pratica di Susan Bassnett, da La traduzione: problemi e metodi. Teoria e pratica di un lavoro difficile e di incompresa responsabilità di Peter Newmark a Per tradurre. Teoria e pratica della traduzione di Bruna Di Sabato, da Tradurre. Dalla teoria alla pratica di Paola Faini a Tradurre l’inglese. Manuale teorico e pratico di Massimiliano Morini, da Teoria e pratica della traduzione di Michela Canepari a La traduzione dallo spagnolo. Teoria e pratica di Matteo Lefèvre.

Ma se le ricognizioni teoriche, più o meno esaurienti, più o meno partigiane, non presentano particolari criticità metodologiche, quando si scende (o si sale) sul piano della pratica entrano in gioco alcuni problemi spinosi. Innanzitutto, anche se un manuale adotta un approccio generalista, nella pratica tradurre significa tradurre da lingue specifiche. E se esistono casi, come quello dell’influente Dire quasi la stessa cosa di Umberto Eco, che brillano per un mirabile plurilinguismo (Eco si muove, in molteplici direzioni, fra italiano, francese, inglese, tedesco, spagnolo e catalano), perlopiù i manuali si limitano, spesso senza dichiararlo nel titolo, a un’unica accoppiata linguistica, che, come ci si potrebbe aspettare, è di solito quella inglese-italiano (ma esistono eccezioni: La traduzione letteraria di Lorenza Rega e Manuale del traduttore di Barbara Ivancic, ad esempio, si occupano soprattutto di tedesco e italiano). E la faccenda si complica ulteriormente quando il manuale è esso stesso una traduzione, e quindi gli esempi presentati dall’autore devono essere ritradotti dal traduttore del manuale o sostituiti con altri, «riferiti alla cultura italiana» (cfr. Bandini 2003, 181), operazione che talvolta finisce per creare grovigli metatraduttivi quasi inestricabili.

C’è poi il problema del genere dei testi da tradurre. La professione del traduttore, come oggi l’offerta formativa disponibile in Italia sembra avere ben chiaro, tocca molti settori differenti, e di questa realtà molti manuali cercano di tener conto. Così, accanto a libri che si occupano, in modo più o meno esplicito, solo di letteratura (è il caso ad esempio, nonostante i titoli quanto mai generalizzanti, di Tradurre di Paola Faini e La traduzione di Massimiliano Morini), ne esistono altri che (come già faceva il classico Teoria e storia della traduzione di Georges Mounin) passano in rassegna svariati generi, o che si concentrano su ambiti diversi da quello propriamente letterario. E naturalmente esistono manuali che fin dal titolo dichiarano di occuparsi solo di un tipo specifico di traduzione (la manualistica è abbondante anche negli ambiti della traduzione tecnica, dell’interpretariato e del doppiaggio, di cui in questo articolo non mi occupo).

Inoltre, parlare della traduzione nei suoi aspetti pratici significa non solo entrare nel merito del corpo a corpo con testi specifici, ma anche affrontare i lati più concreti del mestiere del traduttore, dagli strumenti a disposizione all’inquadramento giuridico, dal trattamento economico alle strategie autoimprenditoriali. Sono aspetti che la maggior parte dei manuali tende a trascurare, anche se esistono importanti eccezioni, fra cui il Manuale di traduzione di Stefano Arduini e Ubaldo Stecconi, che intrecciano in modo sofisticato e appassionato la riflessione teorica al proposito di fornire indicazioni concrete che permettano di orientarsi in un mercato del lavoro sempre più infido e complesso (e anche di modificarlo riscattando i traduttori dalla loro tradizionale sudditanza). Un simile interesse per la professione nella sua concretezza anche economica anima i recenti L’interprete e il traduttore: un lavoro e una passione di Lorenzo Paoli (che è un self-help book prodigo di consigli di marketing e networking), Incatenati alla tastiera. Manuale di sopravvivenza per traduttori di Olivia Crosio e Il vademecum del traduttore. Idee e strumenti per una nuova figura di traduttore: organizzazione, revisione, redazione di Andrea Di Gregorio.

3.

Se però, come si è detto, a fare i traduttori si impara traducendo, i manuali non possono sottrarsi alla responsabilità di far fare in qualche modo esperienza della traduzione agli studenti. Di conseguenza, nella maggior parte dei casi a un’introduzione teorico-metodologica seguono esercizi di un tipo o dell’altro da svolgere su testi specifici.

Il sistema più diffuso, anche sulla scorta di esempi illustri come quelli di George Steiner, Tim Parks e Umberto Eco, consiste nell’analizzare brani tratti da traduzioni già esistenti, magari mettendo a confronto più versioni italiane di uno stesso brano. Talvolta, e sono i casi più interessanti, i brani analizzati provengono da traduzioni opera dell’autore del volume, e ci si trova così di fronte a una specie di ibrido fra i manuali propriamente detti e i testi di riflessione autobiografica dei traduttori sul proprio lavoro. È quanto fanno Massimiliano Morini in La traduzione. Teorie. Strumenti. Pratiche e Franca Cavagnoli in diversi suoi libri (nonché, ovviamente, Eco in Dire quasi la stessa cosa, che dedica molto spazio anche alle traduzioni dei libri dell’autore stesso in altre lingue).

Un altro metodo consiste nel proporre brani da tradurre annotati e commentati, come in Teoria e pratica della traduzione di Enrico Catani, uno dei primi manuali pubblicati in Italia (che però si concentra, come all’epoca era prassi comune nell’accademia, sulla traduzione dall’italiano all’inglese), o in Tradurre dall’inglese di Stefano Manferlotti e Avviamento alla traduzione inglese-italiano italiano-inglese di Mary Louise Wardle, che di fatto sono antologie di brani letterari con brevi introduzioni metodologiche, o anche in Tradurre lo spagnolo di Matteo Lefèvre e Tommaso Testaverde, che propone testi non solo letterari (dalla Costituzione spagnola del 1978 a una pagina di un volume di gastroenterologia, da un elzeviro di Javier Marías al prologo dei Cuentos morales di Clarín).

Molti manuali, fra cui quelli di Antonio Bonino, Enrico Catani, Peter Newmark e Paola Faini, organizzano la materia in base alle particolari problematiche traduttive che emergono nel passaggio fra due lingue specifiche: dall’ordine delle parole all’uso dei tempi verbali, dalla punteggiatura ai realia, dalle ambiguità sintattiche (ne è un esempio, in Newmark, la frase da cui trae il suo titolo questo articolo) alle metafore, dalle frasi fatte ai giochi di parole, dal livello fonologico a quello ritmico-melodico. Più ambizioso è il tentativo di prendere per mano lo studente orientandolo nella traduzione di un testo. Bruna Di Sabato, in Per tradurre, parte ad esempio dalla puntuale disamina di alcune «differenze tra inglese e italiano» per proporre dodici unità didattiche, ognuna delle quali presenta un brano di carattere giornalistico o saggistico da analizzare o tradurre seguendo passo passo le indicazioni fornite. Gli autori di L’arte dei dragomanni fanno invece seguire alla consueta panoramica storico-teorica e ad alcune indicazioni metodologiche generali quindici testi in inglese appartenenti a generi diversi, che vengono minuziosamente analizzati frase per frase allo scopo di individuare le difficoltà traduttive e suggerire possibili rese. Ogni brano è poi seguito da una «possibile traduzione» e da alcune indicazioni per un ripasso grammaticale.

Ma il tentativo più audace e articolato di orientare lo studente alla comprensione e traduzione dei testi (letterari e non) è senza dubbio quello compiuto da Bruno Osimo in una serie di manuali pubblicati nell’arco di un ventennio, in cui viene messo a punto in modo sempre più dettagliato un metodo che si propone di «radicare la parte pratica in un contesto teorico ben preciso, per evitare di dare l’impressione che la traduzione sia un mestiere che si può apprendere anche solo per imitazione, come l’andare in bicicletta» (Osimo 2007, XI). Opponendosi strenuamente alla «concezione idealizzata del traduttore come animo di una sensibilità speciale che, senza fare troppi studi o ricerche, “sente” qual è la soluzione giusta: la concezione mistica del traduttore-medium» (Osimo 2004, 35), questi manuali si concentrano in modo minuzioso sulla scientificità del linguaggio utilizzato, un linguaggio di derivazione semiotica che dovrebbe mettere al riparo da confusioni e insensatezze (non a caso ogni volume è corredato da corposissimi glossari che occupano decine e decine di pagine).

In La traduzione saggistica dall’inglese, che fra tutti i suoi manuali è quello di carattere più pratico, Osimo scompone il processo traduttivo in una ben precisa serie di operazioni, che lo studente è invitato a compiere con diligenza: analisi linguistica, analisi culturale, elaborazione mentale, individuazione del lettore modello, individuazione della dominante, prima stesura e infine revisione (ovvero raffronto, lettura, controllo redazionale). Dopodiché, con ammirevole dedizione pedagogica, l’autore affronta (e fa affrontare allo studente) sette testi da tradurre, applicando scrupolosamente il metodo proposto. Ne risulta uno dei pochissimi casi di un manuale che cerca davvero di far sperimentare qualcosa di simile a un laboratorio di traduzione.

Il problema però, almeno ai miei occhi, è che il metodo proposto appare lontanissimo dall’operato dei traduttori nel mondo reale, anche perché alcune delle indicazioni fornite sarebbero molto ardue da mettere in pratica. Parlando del «lettore modello», ad esempio, Osimo afferma: «È necessario che [il] testo completato sia convogliato a un ipotetico lettore, trovando l’equilibrio ottimale tra eccesso di ridondanza ed eccesso di residuo comunicativo. Tale calcolo si basa sulla cultura del lettore modello. Non basta sapere che il lettore è, per esempio, italiano (anziché giapponese, inglese, ecc.); occorre anche conoscere le sue competenze e conoscenze. Bisogna sapere se ha studiato, e cosa ha studiato, se ha fatto esperienze e in quali campi. In altre parole, occorre conoscere la sua enciclopedia» (Osimo 2007, 10). Ma quale traduttore può affermare di conoscere in questi termini un ipotetico «lettore modello»? Oppure, parlando della «dominante»: «Quando si riformula il prototesto nel metatesto, nell’impossibilità di riprodurre tutto, occorre stilare una “classifica” degli aspetti testuali in ordine gerarchico, cominciando da quello che si ritiene essenziale convogliare al lettore modello (la dominante), continuando via via con quelli importanti ma meno essenziali (le sottodominanti), fino a quelli che si devono sacrificare perché risultano impossibili da trasferire (il residuo traduttivo) nella cultura del lettore modello» (11). Ma esistono davvero traduttori che, nel lavorare sui testi, stilino una tale «classifica»? E in ogni caso, sarebbe davvero produttivo farlo?

4.

Il caso estremo dei libri di Osimo fa emergere in modo particolarmente vivido quello che mi sembra l’aspetto più problematico di gran parte dell’odierna produzione manualistica, ovvero la grande distanza che continua a permanere fra l’immagine della traduzione che emerge dalle pagine di molti manuali e l’esperienza reale dei traduttori; e questo malgrado le intenzioni e gli sforzi degli autori. È come se gli aspetti del mestiere che più mettono a dura prova i traduttori nel confronto quotidiano coi testi avessero qualcosa di sfuggente, fossero restii a lasciarsi fissare nero su bianco. Inoltre, per chi ha esperienza reale di traduzione (e qui parlo in particolare della traduzione letteraria), è difficile, di fronte a certe affermazione, non provare un senso di soffocamento. Come ha scritto Barbara Ivancic, «se i criteri teorici, che altro non dovrebbero essere che delle proposte descrittive per avvicinarsi al fenomeno della traduzione, assumono valore prescrittivo, lo spazio di cui si ha bisogno per tradurre subisce una forte riduzione» (Ivančić 2016, 9).

Certo, esiste ormai un accordo pressoché unanime sul fatto che, come scrive lo stesso Osimo, «superato l’approccio prescrittivo, nell’attuale scienza della traduzione non esistono più norme intese come leggi a cui obbedire» (2007, 243), ma di fatto, anche quando si cerca di adottare un approccio pragmatico contestualizzando ogni indicazione in una situazione testuale concreta, è molto raro che gli autori dei manuali non si lascino sfuggire diktat dal sapore dogmatico. Già Peter Newmark, dopo aver premesso: There is no such thing as a law of translation, since laws admit no exceptions, continuava: I now set up some rules of translation (Newmark 1981, 113; «Non esiste una vera e propria legge sulla traduzione, dal momento che le leggi non ammettono eccezioni. […] Stabilirò ora alcune regole di traduzione» Newmark 1994, 199).

Un esempio paradigmatico di questo persistente dogmatismo è la vexata quaestio della traduzione «orientata al lettore» o «orientata allo scrittore», che com’è noto trova la sua prima formulazione in un celebre passo di Friedrich Schleiermacher: «O il traduttore lascia il più possibile in pace lo scrittore e gli muove incontro il lettore, o lascia il più possibile in pace il lettore e gli muove incontro lo scrittore. Le due vie sono talmente diverse che, imboccatane una, si deve percorrerla fino in fondo con il maggiore rigore possibile; dal tentativo di percorrerle entrambe contemporaneamente non si possono attendere che risultati estremamente incerti, con il rischio di smarrire completamente sia lo scrittore che il lettore» (Schleiermacher 1993, 153). Il concetto fu ripreso nel primo dei classici della traduttologia novecentesca pubblicato in Italia, Teoria e storia della traduzione di Georges Mounin: «O si “italianizza” il testo, decidendo di trasmetterlo al lettore come se fosse un testo scritto direttamente in italiano da un italiano e per degli italiani dei nostri tempi, […] cioè si decide, come Goethe scrive, di condurre il testo verso il lettore. Oppure si cerca di estraniare il lettore italiano dal suo mondo, decidendo di fargli leggere il testo senza permettergli di dimenticare per un solo istante che si trova di fronte a un’altra lingua, a un altro secolo, a una civiltà diversa. E cioè, come Goethe scrive, si decide di condurre il lettore verso il testo. Di queste due fondamentali posizioni entrambe possono essere considerate legittime e lecite, secondo i casi. Il solo crimine letterario è quello di passare dall’una all’altra senza che l’originale giustifichi quel passaggio» (Mounin 1965, 140). Da allora questa idea è diventata una sorta di assioma spesso ribadito dai manuali di traduzione. Eppure qualunque traduttore sa benissimo che quello che Mounin definisce «un crimine letterario» viene commesso ogni giorno da chiunque faccia questo mestiere. Non esistono, credo, traduzioni esclusivamente di un tipo o dell’altro, sempre che tale dicotomia abbia davvero un senso.

Lo stesso vale per un altro dei principi che più gli studenti assimilano dai manuali, ovvero l’idea (espressa da Berman, Venuti e molti altri autori) che non si debba «normalizzare». Nelle parole di Umberto Eco: «In linea di principio, direi che il traduttore non deve proporsi di migliorare il testo. […] Se si traduce un’opera modesta mal scritta, che rimanga così, e che il lettore di destinazione sappia che cosa aveva fatto l’autore» (Eco 2003, 118). Certo, è un principio sacrosanto, peccato però che nella realtà le cose non siano così semplici. Come ha scritto Massimiliano Morini (che non a caso, oltre a essere un professore, è anche un traduttore esperto), «uno dei primi insegnamenti che i maestri di traduzione letteraria impartiscono ai loro allievi riguarda il rispetto del testo originale anche nelle sue ambiguità, difficoltà, brutture: tuttavia, ogni traduttore sa che a volte il desiderio di disambiguare, semplificare e abbellire è forte» (Morini 2007, 31), anche perché «il traduttore che lavora avendo in mente i suoi lettori sa che essi non gli concederanno la stessa disponibilità e indulgenza che si concedono a un autore: ciò che nel testo di partenza è licenza poetica rischia di passare per errore nel testo d’arrivo. Perciò il traduttore, posto di fronte a passi ambigui e complessi che gli richiederebbero una traduzione creativa, tenderà in molti casi a rifugiarsi in una versione più chiara, normalizzata e inoppugnabile» (35).

Che fare allora quando ci si trova davvero a tu per tu con un testo da tradurre? Dare una risposta univoca non è facile, e forse nemmeno possibile, e infatti spesso, quando arrivano ad affrontare questo genere di argomenti, gli autori dei manuali scrivono frasi che finiscono per ripiegarsi su se stesse, rischiando di apparire contraddittorie, o quantomeno di scarsa utilità. Si prendano ad esempio le affermazioni che seguono: «Come nella traduzione di qualsiasi testo, anche nella traduzione del titolo essere letterali è la scelta migliore, purché la letteralità della traduzione rispetti il senso del titolo in LP. Ma se si terrà d’occhio la funzione e il significato del titolo originale ci si renderà spesso conto del fatto che in realtà la traduzione letterale non soddisfa» (Di Sabato 1993, 71); Theoretically, the translator has to account for every portion and aspect of cognitive and pragmatic sense in the SL text. In fact, he is justified in pruning or eliminating redundancy in poorly written informational texts (Newmark 1981, 149; «In teoria il traduttore deve riprodurre ogni porzione e aspetto del senso cognitivo e pragmatico del testo in LP. In effetti è giustificato a sfrondare ed eliminare la ridondanza in testi informativi scritti male» Newmark 1994, 258); «Un intervento di modifica sulle strutture frastiche, benché in teoria accettabile, non dovrebbe arrivare al punto di alterare quelle che possono essere considerate le caratteristiche stilistiche di un determinato autore» (Faini 2004, 89).

Non c’è quindi da stupirsi se di solito gli studenti, trovandosi a dover dar conto delle scelte metodologiche compiute in base alle indicazioni ricevute dai manuali, cercano il conforto di una rassicurante ragionevolezza, di una sorta di aurea mediocritas buona per tutti gli usi, e parlano di approccio straniante ma non troppo, o addomesticante ma non troppo, di lettore modello mediamente colto e mediamente al corrente dell’argomento di cui si parla, di dominante non eccessivamente dominante, e via di questo passo. Del resto, lo stesso Eco, al termine del suo Dire quasi la stessa cosa, si appellava alla ragionevolezza, giungendo a conclusioni non troppo diverse: «Un traduttore […] si limita a porre delle lingue a confronto, e a negoziare soluzioni che non offendano il buon senso […]. Un traduttore, anziché porsi problemi ontologici o vagheggiare di lingue perfette, esercita un ragionevole poliglottismo, perché sa già che in un’altra lingua quella stessa cosa si dice così e così, e si comporta spesso d’istinto come fa ogni bilingue» (Eco 2003, 353). Sono parole con cui probabilmente la maggior parte dei traduttori concorderebbe, ma che in fin dei conti riportano la questione al punto di partenza.

5.

Io ho l’impressione, ma credo che molti degli autori di cui ho parlato sarebbero d’accordo, che nell’insegnare traduzione, soprattutto attraverso un manuale, si possa arrivare solo fino a un certo punto, e che la parte davvero difficile del mestiere cominci dopo quel punto. Uno dei molti libri di Osimo si intitola Propedeutica della traduzione. Ecco, forse è questo il titolo più appropriato per un manuale di traduzione. Si può fare della propedeutica, si può mettere in guardia da alcuni errori, si possono correggere alcuni pregiudizi, si possono proporre procedure e strumenti. Ma poi? Poi si tratta di tradurre davvero, ovvero di scrivere, ed è qui che viene il difficile.

Un possibile approccio alternativo all’insegnamento della traduzione letteraria lo si trova in un manuale che, nonostante il titolo, ha tutta l’aria di non esserlo, ovvero Shakespeare come vi piace. Manuale di traduzione, un volume in cui Luca Fontana ha raccolto tre sue traduzione shakespeariane – Doglie d’amor sprecate, La tragica storia di Amleto, principe di Danimarca e La famosa storia di Troilo e Cressida – dando conto delle ragioni delle scelte compiute. Perché definire «manuale di traduzione», tout court, un libro simile? Non perché illustri nei dettagli una metodologia, o fornisca indicazioni di carattere generale, o proponga esercizi da svolgere, ma perché fa capire, attraverso la sua stessa forma, il suo stesso linguaggio, oltre che attraverso quel che racconta e spiega, che cosa conta davvero per un traduttore letterario, ovvero la qualità della scrittura, una qualità che può nascere solo da una profonda, viscerale intimità con la letteratura, da una lunga storia d’amore con le parole (in questo caso, le parole del teatro), da una protratta, spasmodica attenzione ai suoni, ai ritmi, ai sensi, insomma alla vita del testo. Alla vita di quel che si legge e di quel che si scrive.

A me pare che la cosa più essenziale da insegnare a un aspirante traduttore sia proprio questa intimità, questa attenzione, questa lunga contemplazione da cui solo può nascere l’istinto per una creatività linguistica che non sia arbitrio ma fedeltà profonda. E questo lo si può insegnare solo per contagio, contaminando con la propria passione un, ebbene sì, «animo di una sensibilità speciale». Forse anche col latte crudo qualche bambino può crescere bene.

Riferimenti bibliografici

Bandini 2003: Genziana Bandini, Nota della traduttrice, in Susan Bassnett, La traduzione. Teorie e pratica, a cura di Daniela Portolano, Milano, Bompiani, pp. 181-2

Bernascone 2016: Rossella Bernascone, Dal diario di una traduttrice: Lost & Found, oggetti (e soggetti) smarriti, in «tradurre» n. 11 (autunno 2016) (https://rivistatradurre.it/2016/11/dal-diario-di-una-traduttrice-lost-found-oggetti-e-soggetti-smarriti/)

Bonino 1980: Antonio Bonino, Il traduttore. Fondamenti per una scienza della traduzione. Vol. 1, Torino, New Technical Press

Di Sabato 1993: Bruna Di Sabato, Per tradurre. Teoria e pratica della traduzione, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane

Eco 2003: Umberto Eco, Dire quasi la stessa cosa. Esperienze di traduzione, Milano, Bompiani

Faini 2004: Paola Faini, Tradurre. Dalla teoria alla pratica, Roma, Carocci

Ivancic 2016: Barbara Ivancic, Manuale del traduttore, Milano, Editrice Bibliografica

Lanati 2018: Norman Gobetti, intervista a Barbara Lanati, Quando a tradurre si insegnava di nascosto, in «tradurre» n. 15 (autunno 2018), ossia questo stesso numero

Morini 2007: Massimiliano Morini, La traduzione. Teorie. Strumenti. Pratiche, con due contributi di Renata Londero e Giulio Mozzi, Milano, Sironi

Mounin 1965: Georges Mounin, Teoria e storia della traduzione, Torino, Einaudi (traduzione di Stefania Morganti da un originale scritto appositamente per l’edizione italiana)

Newmark 1981: Peter Newmark, Approaches to Translation, Oxford, Pergamon, 1981

– 1994: Peter Newmark, La traduzione: problemi e metodi, Garzanti (traduzione di Flavia Frangini da Newmark 1981)

Osimo 2004: Bruno Osimo, Manuale del traduttore. Guida pratica con glossario, Milano, Hoepli

– 2007: Bruno Osimo, La traduzione saggistica dall’inglese. Guida pratica con versioni guidate e glossario, Milano, Hoepli

Schleiermacher 1993: Friedrich Schleiermacher, Sui diversi metodi del tradurre, (traduzione di Giovanni Moretto di Über die verschiedenen Methoden des Übersetzens, 1813) in La teoria della traduzione nella storia, a cura di Siri Nergaard, Milano, Bompiani, 1993

Manuali di traduzione et similia disponibili in italiano

(in ordine cronologico di prima pubblicazione in Italia)

1965

Georges Mounin, Teoria e storia della traduzione, Torino, Einaudi (traduzione di Stefania Morganti da un originale scritto appositamente per l’edizione italiana)

1980

Antonio Bonino, Il traduttore. Fondamenti per una scienza della traduzione. Vol. 1, Torino, New Technical Press (nuova edizione Vol. 1 e Vol. 2, Druento, Alessio, 1988-89)

1983

Armando Beati, Come tradurre, Milano, IULM (nuova edizione 1985)

Enrico Catani, Teoria e pratica della traduzione. Guida alla traduzione inglese, Urbino, QuattroVenti

1984

Emanuele Calò, Manuale del traduttore, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1984

George Steiner, Dopo Babele. Aspetti del linguaggio e della traduzione, Sansoni (traduzione di Ruggero Bianchi da After Babel, Oxford University Press, 1975) (nuova edizione riveduta e ampliata, con nuove traduzioni di Claude Béguin, Milano, Garzanti, 1994)

1985

La pratica del tradurre. Modelli ed esercizi di traduzione dal francese in italiano, a cura di Mariolina Bertini e Franco Giacone, Torino, Meyner

1987

Rosanna Masiola Rosini, Questioni traduttive, Pasian di Prato, Campanotto

1988

Stefano Manferlotti, Tradurre dall’inglese. Avviamento alla traduzione letteraria, Firenze, La Nuova Italia Scientifica (nuova edizione Napoli, Liguori, 1996)

Peter Newmark, La traduzione: problemi e metodi, Milano, Garzanti (nuova traduzione di Flavia Frangini da Newmark 1981)

1989

Armando Beati, Teoria e pratica della traduzione nella didattica della lingua inglese, Milano, Arcipelago

1992

Rosèlia Irti, Tradurre senza tradire. Guida alla traduzione da e in inglese: percorsi guidati attraverso testi letterari, giornalistici, professionali per evitare le trappole più comuni, Firenze, Sansoni

1993

Friedmar Apel, Il manuale del traduttore letterario, Milano, Guerini (traduzione di Gabriella Rovagnati da Literarische Übersetzung, Stuttgart, Metzler, 1983)

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Bruno Osimo, Manuale di traduzione di Jurij Lotman, Milano, Blonk