I docenti / La lezione di traduzione

di Daniele Petruccioli

Sono trentasei, demotivati, stanchi, non hanno nessun interesse per quello che stai per dirgli, si sono affacciati perché pare che a portoghese non bocciano mica, oppure perché gli sembra importante, nel loro corso di studi, ampliare gli orizzonti il più possibile, certo però che se invece di questo inutile corso di traduzione dei soliti testi letterari avessero messo qualcosa più sull’informatico, o sulla mediazione culturale… Oppure sono quattro, motivatissimi, entusiasti, innamorati, sanno benissimo quello che hanno scelto, lo vogliono fin da ragazzini, hanno letto, studiato e praticato la traduzione a vari livelli, e si sono fatti idee molto precise di che cos’è, del perché la amano e di come non vada mai tradita… O ancora sono dodici, né carne né pesce, o meglio tutte le carni e tutti i pesci mescolati insieme e già hanno cominciato a litigare: dal giovane chirurgo plastico che deve andare a fare la specializzazione in Brasile alla redattrice precaria incerta fra stipendio e creatività, da quello convinto che ci debba essere una risposta univoca a tutto fino alla froufrou misticheggiante che l’unica certezza che vuole è un posto dove servano seitan nelle vicinanze, il resto è karma…

Ti aspettano in un’aula universitaria fatiscente o molto bene equipaggiata, in una saletta da ufficio o in una sala conferenze, in un albergo, in una biblioteca, a volte perfino in una redazione. Non importa. Mentre ti affacci da quella porta, sei comunque in preda al terrore. Che gli dirai?

Hai due ore, sei ore, ventiquattro, trentanove, sessanta ore per farli a pezzi, per decostruirli da cima a fondo, per smantellare tutto quello che hanno faticosamente assemblato in una vita di studi, di miti, di modo di vedere la realtà. Teoricamente anche per dar loro i mezzi con cui ricostruire tutto secondo un sistema diverso, più ampio, molto risonante e soprattutto che in realtà non butta via niente. Si tratta solo di ricollocare. Ma è una cosa faticosa, e già sai che anche sessanta ore saranno pochissime, insufficienti, perciò tendenzialmente, se va bene, al massimo ti fermerai alla fase distruttiva. Ecco perché alla fine ti odieranno. E avranno tutte le ragioni.

Eppure lo fai. Lo fai perché hai firmato un contratto, perché hai bisogno di lavorare, ma anche perché ci credi, sai che questo passaggio di sguardo, che non è mai avvenuto se non per osmosi, è necessario strapparlo al sottosuolo. Sai che c’è un linguaggio che permette di lavorare sulla realtà come su una serie di trame da guardare e ritessere salvando gli occhi e il tessuto, e che questo linguaggio deve pur essere condivisibile in qualche modo anche come strumento, anziché solo come risultato. È qualcosa di molto più importante e vasto che non la semplice trasmissione di una serie di tecniche che agevolino il commercio della letteratura. Se quel linguaggio comune si trovasse, avremmo la possibilità di comprendere e descrivere meglio la realtà, quindi anche gli altri, senza paura di perdere noi stessi. La letteratura c’entra solo perché questo linguaggio sei convinto che vada ricercato nella forma più atavica di comunicazione fra esseri umani: il raccontarsi storie.

C’è stato un tempo in cui hai provato a partire da noi. Portavi testi italiani. All’inizio, ambizioso, avevi cominciato addirittura con Gadda. Il brano delle ville nella Cognizione del dolore. Lo usavi per la punteggiatura («Un battito di mani a ogni virgola, un calcio a terra per due punti punto e virgola e trattino, due calci per ogni punto – forza, tutti insieme!»), ma funzionava solo con i più giovani o con i più giocosi, e c’era sempre quella con il sopracciglio alzato che si rifiutava di rendersi ridicola facendo vergognare tutti gli altri e mandando tutto all’aria. Lo usavi per gli alterativi, per la sintassi, per la variatio, per il ritmo, ma erano troppe cose tutte insieme e il risultato era una confusione infame con conseguente noia e rinuncia a seguirti – sacrosanta – della maggior parte di loro. Allora hai provato a usare cose più… univoche, cibi meno ricchi, hai provato che so, con Calvino e la sua misura… Macché. Tautologicamente, non c’è grande testo che non abbia dentro tutti gli elementi che fanno un testo grande: per restringere il campo avresti dovuto usare il genere (in senso puro) e lì si entra in un altro universo, solo apparentemente più circoscrivibile, perché quando si parla di stilemi non si può non parlare di rapporto con la tradizione propria e altrui, e quindi alla fin fine di traduzione, ma in astratto. In astratto, sì, e solo apparentemente in modo paradossale, proprio perché l’esemplificazione è circoscritta e ogni allargamento del concetto esulerà fatalmente dal testo. E tu non vuoi esulare dal testo. Non vuoi parlare in astratto. Sarebbe disonesto. Di conseguenza, di nuovo solo apparentemente in modo paradossale, sarebbe disonesto parlare di realia, di proverbi, perfino di contrainte, che hanno l’unico vantaggio di essere casi particolari tranquillizzanti perché passibili di soluzioni ad hoc e non di un cambio di sguardo in chi traduce, e dunque vengono buoni per evitare il problema vero. Che è quello, allo stesso tempo più pratico e più generale, del riconoscere il testo come un universo con regole da riscoprire ogni volta, e del saper riconoscere di conseguenza qualsiasi nostra certezza alla fin fine come uno stilema, ovvero come una convenzione cristallizzata fra momenti storici e modi di descrivere il mondo che si incista nel nostro sistema affettivo. Perciò, l’unico modo per uscire da queste ristrettezze è strapparci di dosso quelle cisti cristallizzate e usarle, ancora sanguinanti, per descrivere una realtà altrui, avulsa da noi, ma trasfusa di stilemi (o brandelli sanguinanti di linguacultura) nostri. In altre parole, trovare un’interpretazione – parziale, personalissima e mai definitiva, ebbene sì – unica però, in continua relazione dialettica e affettiva col testo – insisto, il lato emotivo non è eludibile, nel processo –, a saper fare da faro per poter scegliere di volta in volta qualcosa che è al contempo granitico e fallace. Come facevano a non odiarti? È naturale. Proveranno sempre a renderti inoffensivo, con ogni mezzo. E i più virulenti saranno proprio i più devoti dell’arte traduttoria.

Cominceranno rivendicando un’altra tradizione. È il primo mezzo, il più sicuro, e nove volte su dieci funziona. Loro non leggono. È una perdita di tempo, leggere. Ci sono cose più importanti. E nuove. E vaste. Al limite, se proprio proprio, un audiolibro ogni tanto. Oppure, per i convintissimi, solo quell’autore, quel genere, quella letteratura lì. «Abbasso il Milan, viva Coppi». E sorridi. E loro niente. E poi una un po’ impietosita, o uno molto sarcastico, sorride e ti fa: «Ahhhh, era una citazione!» Quando sei in buona, anziché impelagarti in spiegazioni imbarazzanti, ti lanci in una disquisizione sul chissà perché ti viene da pensare che il sorriso sia pietoso nel caso di una donna e sarcastico nel caso di un uomo, ma poi alzi gli occhi, li guardi guardarti, e ringrazi san Gerolamo – ebbene sì – per quegli esempi che hai sempre di scorta sui realia e i culturemi del profondo Nordeste brasiliano.

Più in là, però, ricomincerai a parlare di linguaggi, di personaggi, di oggetti, di andamenti, che sono pur sempre fatti di parole, cioè si dispongono secondo relazioni morfosintattiche, che come il mondo di Matrix hanno (di nuovo, tautologicamente) una grammatica, composta di regole inderogabili, o ambivalenti, o aggirabili, o addirittura che si possono infrangere, a seconda di dove si parte e dove si vuole arrivare – che però non dipende da noi, ma da una roba che esiste già e che possiamo convenzionalmente anche chiamare testo. Cercherai di spiegare le varie possibili relazioni espressive fra lessici diversi, e come le parole in posizioni diverse provocano effetti diversi, a volte anche piuttosto distanti fra loro. Cercherai di tirar fuori le loro varietà regionali e i loro lessici familiari come strumento di passaggio per una migliore comprensione o come mezzo per levigare un certo tipo di asperità. Con loro, metterai insieme i vari campi semantici delle parole chiave, e scioglierete facilissimamente il falso problema delle ripetizioni inserendo queste parole chiave in una gerarchia che dipenda da un’interpretazione forte. Moltiplicherete le possibilità trovandovi improvvisamente di fronte alla necessità – e alla responsabilità – di una scelta. Ma ci sarà comunque sempre quello che scuoterà la testa mormorando: «Io però continuo a non vedere che differenza c’è», e quella che insisterà perché le spieghi come mai, se il dizionario bilingue dà come traducente «soggettista», tu ti ostini a dire che in questo caso «sceneggiatrice» è meglio. E saranno altre ore di discussione. Su qualcosa che non c’entra niente. Ma è normale, fa meno paura. Lo capisci. È così anche per te. Ogni volta.

Alla fine, quando il tempo sarà troppo poco, capitolerai. Tirerai fuori quel testo di due ragazze che fanno un viaggio in macchina, o quell’altro pieno di turpiloquio, o una scena di sesso, o di omicidio, di antica saggezza, d’amore, qualsiasi cosa ti sembra attagliarsi alla somma delle loro personalità (avete perso tanto tempo insieme, ormai, che vi conoscete un po’). Di solito ci azzecchi, loro si animano, e mentre si divertono a ricostruire quell’unica situazione che li ha incuriositi, commossi, divertiti o intrigati, provi a insinuare un vago accenno qua e là che ogni fenomeno, a guardarlo con questi occhi, a impegnarsi per tradurlo, può suscitare lo stesso entusiasmo, perché l’importante non è l’azione, ma il processo, non la realtà, ma lo sguardo, che incredibilmente la modifica.

Ma tanto lo sai già, che è tutto inutile.

E di solito questo è per l’appunto il momento, quasi alla fine, sempre quando ormai non c’è più tempo, in cui qualcosa, una domanda, una mezza frase, un traducente, un piccolo dibattito fra loro, ti farà pensare a sprazzi che invece non è vero, non sono così ostili. Non sei così incapace. E questo ti disorienterà, perché chissà se è stato ancora soltanto per osmosi. Però non si sa mai.

E quindi prendi fiato, ti fai coraggio, ed entri.