di Vincenzo Barca
Scrivo da un bordo.
Bordo dell’età: ho compiuto 68 anni e ho mal di schiena. Dicono che si possa esercitare il mestiere finché i neuroni ce la fanno a gestire la necessaria catasta di dati. Narra la leggenda di un traduttore ormai decrepito che, dal divano dal quale più non si muoveva, continuava a dettare ai suoi discepoli il testo che scaturiva dalla sua mente superallenata. Ma non vorrei ridurmi così. E non ho discepoli.
Bordo della lontananza: traduco sempre meno, e non solo per scelta. Le occasioni col tempo si sono rarefatte, i contatti con gli editori richiedono una continuità e un’ostinazione a cui spesso non corrisponde neppure un’educata risposta. E ci si allontana.
Nel frattempo altri interessi, che vengono da una vita precedente, sono riemersi ed esigono un tempo loro.
Si contrae lo spazio monacale, la disciplina delle due cartelle affiancate sullo schermo del computer, sorgente e foce, con in mezzo, virtuale, un intertesto che si fa e si disfa, fino a comporsi in una pagina che aspira a diventare definitiva.
Mi è stato chiesto, per questo contributo, di raccontare come sono diventato traduttore, in un’epoca in cui il mestiere non era ancora così definito, non esistevano corsi di laurea dedicati né tanto meno seminari, convegni e giornate zeppe di interventi e prodighe di consigli alle giovani leve disoccupate o sottoccupate.
Chi decideva, a volte anche per caso, di votare parte del suo tempo a questo lavoro, sapeva in anticipo che sarebbe diventato un’oscura pedina nella catena di produzione del libro. Il suo nome tutt’al più sarebbe comparso in caratteri appena decifrabili nel colophon e mai, assolutamente mai, lo si sarebbe citato in un articolo o in una recensione, quand’anche si fosse trattato di un capolavoro della letteratura universale trasposto nella nostra lingua.
In questo scenario (verso la fine degli anni ottanta, in epoca pre-internet), io ero un giovane psichiatra formatosi alla scuola di Basaglia, e sceso da Reggio Emilia a Viterbo, seguendo Giovanni Jervis, per partecipare a un esperimento di psichiatria territoriale in una provincia che divideva i suoi matti tra l’Ospedale Santa Maria della Pietà di Roma e il San Niccolò di Siena.
La legge 180 era appena entrata in vigore e si trattava di programmare l’uscita (e il rientro a casa) di un gran numero di persone, alcune delle quali rinchiuse da decenni in spazi che assomigliavano più a lazzaretti (il Santa Maria della Pietà era stato istituito da papa Paolo III nel 1548 per il ricovero dei folli) che a moderni reparti ospedalieri. Il motivo del loro internamento, perso in lontanissime anamnesi d’ingresso, spesso aveva poco a che fare con una diagnosi psichiatrica vera e propria. Ciononostante i degenti venivano sottoposti a terapie sedative potenti quanto incongrue, il cui scopo principale era quello di mantenere l’ordine e di assicurare la calma gestione dei padiglioni da parte di infermieri e medici.
Nei paesi del viterbese incontravamo perciò familiari riottosi, condòmini allarmati, forze dell’ordine e amministratori locali preoccupati per questi ritorni, e naturalmente visitavamo i pazienti nei manicomi, cercando, con brevi uscite e concilianti discorsi, di riavvicinarli al mondo di fuori, con cui avevano ormai perduto ogni contatto.
C’era qualcosa di azzardato in questo progetto, persino di utopico, e a volte spingevamo troppo sull’acceleratore: avevamo molta fede e l’entusiasmo ci faceva commettere molti errori, ma, con un occhio distante, il risultato complessivo di questo esperimento fu positivo e la maggior parte di queste persone poté riacquistare una forma di vita più dignitosa.
Dove si situa il punto di intersezione tra la psichiatria e la traduzione? Cerco di rintracciarlo andando a ritroso.
Nel mio curriculum infantile posso esibire la traduzione in calabrese di alcuni tormentoni estivi del tempo e una filastrocca in latino di mia composizione che recitavo all’arrivo della Seicento di mio padre, privilegiando la quinta declinazione. Il latino. Prima della riforma del 1962 (che feci in tempo a evitare), alle medie riempivamo quadernoni di analisi logica e grammaticale e già ci sollecitavano a tradurre nei due sensi. Nella versione ero particolarmente capace, e anche in quel francese rudimentale che balbettavano dalla cattedra i nostri professori – avvocati di paese incompetenti che una leggina aveva abilitato all’insegnamento della lingua straniera… E poi c’era l’albanese, la lingua segreta in cui comunicavano i miei compagni che venivano dai paesi arberesh dell’interno. E ovviamente il dialetto calabrese (variante parlata nel crotonese), perché si viveva comunque in un ambiente diglossico. Per quanto i miei si sforzassero di parlarci in italiano – mia madre era maestra elementare e mio padre, un socialista nenniano, credeva al primato della lingua nazionale –, intorno a noi era un fiorire di espressioni vernacolari colorite e affascinanti che interferivano allegramente con la lingua unitaria.
Non giocavo al dottore. In compenso avevo una serie di rituali (camminare senza calpestare le fughe tra le mattonelle del pavimento di casa, ripetere un movimento un certo numero di volte…) che, se uniti a un carattere decisamente solitario e introverso, configuravano con ogni probabilità una precoce tendenza al Doc (disturbo ossessivo compulsivo), così come descritto dai vari DSM (Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders).
La svolta che porta alla traduzione avviene però molto tempo dopo e ha a che fare proprio con il trasferimento a Viterbo. Ne è fautore inconsapevole un camionista portoghese, di cui colpevolmente non ricordo il nome. È il gennaio del 1980 e sull’Appennino nevica. Stiamo trasportando a Viterbo il mobilio di un’altra amica psichiatra, anche lei seguace di Jervis, che, essendo stata sposata, possedeva una casa come Dio comanda, con tanto di tavolo da pranzo e sedie, divano comodo e persino i pensili della cucina. Avevamo affittato un grande appartamento nel centro storico della città, dove avremmo abitato in quattro (io, due colleghe e il bambino treenne di una delle due). Cose che succedevano tra gli anni settanta e gli ottanta.
Il camionista aveva lasciato il Portogallo di Salazar e, ora che da qualche anno il paese era uscito dalla dittatura, considerava l’idea di farvi ritorno. Il Portogallo per me era un paese semisconosciuto, una specie di lunga spiaggia in fondo alla Spagna. Avevo seguito, come tanti giovani in quegli anni, le vicende delle guerre coloniali in Angola e Mozambico, e la rivoluzione dei garofani aveva occupato per un po’ i nostri telegiornali. Per il resto, conoscevo solo le canzoni di Amália Rodrigues, di cui un amico musicofilo possedeva i dischi: fado disperati dalle parole quasi incomprensibili.
Non è difficile immaginare come un esule possa presentare il paese dal quale è stato costretto a fuggire: un misto di risentimento e di rimpianto che disegnavano un luogo tra l’arcadico e il retrogrado, un paradiso povero, un tempo popolato da marinai che avevano varcato le frontiere del mondo conosciuto, finito in mano a un dittatore restio a ogni forma di modernità e difensore ostinato di un impero fuori del tempo.
Quell’estate partii per Lisbona e mi sorprese un paese di gente severa, distante anni luce dalla socialità esuberante dei mediterranei, che accomuna italiani, spagnoli e francesi del sud. Ma a prevalere, in questo incontro, non fu tanto l’aspetto antropologico, né quello politico o sociale, quanto la curiosità per la lingua. Se infatti mi era abbastanza facile la comprensione delle parole e il senso stesso di uno scritto, il parlato, nei dialoghi che orecchiavo per strada o nelle trasmissioni televisive, mi risultava quasi del tutto oscuro.
Tornato in Italia, feci due mosse di avvicinamento a questo idioma, che, pur condividendo con l’italiano la stessa origine, si era nascosto dietro una fonetica enigmatica, comprimendo le vocali ed esaltando un nasalismo tale da renderla quasi irriconoscibile alle orecchie dei cugini latini.
Mi iscrissi a uno dei corsi di lingua organizzati dall’ambasciata del Brasile a piazza Navona e un giorno mi presentai alla Sapienza, dove la cattedra di portoghese era in carico a Luciana Stegagno Picchio, grande filologa e donna di straordinaria intelligenza. Luciana, dopo una breve intervista, mi consegnò la Lettera a due psichiatri francesi di Fernando Pessoa con alcune delle poche poesie all’epoca esistenti in traduzione italiana e mi mandò in una stanzetta a leggere il tutto. Non sapevo niente di Pessoa, che era ancora un universo da scoprire per gli stessi portoghesi. Non ebbi nessuna folgorazione (Pessoa l’ho fin da allora trovato troppo algido e nevrotico per scatenarmi una passione), ma, con l’aiuto di quella Maestra, capii che avevo davanti un mondo e che la lingua portoghese era la chiave per accedervi.
L’estate successiva tornai a Lisbona, per frequentare un corso di lingua per stranieri. L’offerta era incredibilmente ricca: oltre alle lezioni di grammatica, avevamo nel pomeriggio un’ampia scelta di seminari: seguii un corso di poesia portoghese del Novecento tenuto da Joaquim Manuel Magalhães e, questa sì una folgorazione, un seminario sulle letterature africane di lingua portoghese, affidato a Manuel Ferreira, autore di una delle prime antologie di poeti africani lusofoni che circolavano dopo la rivoluzione dei garofani. Avevo conosciuto in treno (da Roma, in un lungo viaggio che, attraverso Barcellona e Madrid, ci aveva portati a Lisbona), la giovane lettrice di portoghese dell’Università di Bari, rimasta mia amica per sempre. Isabel aveva una casa piuttosto grande e mi ospitò per tutto il periodo del mio corso. Fu lei a farmi scoprire Jorge de Sena, uno scrittore esiliatosi al tempo della dittatura e autore di una vasta opera poetica, narrativa e saggistica. Cominciai, su un quadernetto e senza vocabolario, a misurarmi in prove di traduzione. A Roma, tramite un insegnante della facoltà di lingue a cui intanto mi ero iscritto, queste esercitazioni finirono nella redazione degli Editori Riuniti. Questa casa editrice, vicina al Pci, aveva inaugurato una collana di narrativa che comprendeva latinoamericani di fama (Bioy Casares, Asturias, Jorge Amado, Juan Rulfo) e molti russi, tra cui Pasternak, Trifonov, Marina Cvetaeva e Bulgakov. De Sena fu il secondo portoghese a entrarvi, dopo Il Delfino di José Cardoso Pires, tradotto da Rita Biscetti. Titolo del volume: La Gran Canaria e altri racconti. Prefazione (bellissima) di Luciana Stegagno Picchio, che era stata anche la mia editor e, in copertina, la riproduzione di un quadro di Tarsila do Amaral.
Cominciava così la mia carriera di traduttore, sempre a mezzo tempo, per tanti anni (da quel 1988) intento a leggere testi inediti in italiano, allora faticosamente reperibili e ora quasi sempre a portata di clic.
A distanza di trent’anni, rintraccio in questo rapporto con l’atto del tradurre un motore nevrotico, un’ansia risolta solo temporaneamente dalla consegna del testo all’editore. Temporaneamente, ma non completamente, perché resta sempre un residuo di insoddisfazione per una resa che avrebbe potuto essere migliore, più aderente, più compatta. Ritrovo quell’ansia ogni volta che, dovendo scegliere un aggettivo calzante, mi perdo nel mare della sinonimia, o mi rigiro nella testa un gioco di parole che nell’originale funziona tanto bene e nella mia lingua rimane zoppo, un vetro non più cristallino.
Dico vetro e penso alla fragilità della scrittura, a quell’equilibrio che il traduttore deve per forza rompere e saper ricostruire.
Tantalismo: non l’ho trovato sulla Treccani, ma esiste in inglese (tantalism: a teasing or tormenting by the hope or near approach of good which is not attainable) ed è parola attestata sia in spagnolo che in portoghese. Prima o poi verrà in mente agli estensori del DSM di includerlo tra le sindromi da curare; basterà che conoscano un po’ di traduttori. Spetterà poi ai sindacati fare una battaglia per inserirlo tra i disturbi psichici che danno diritto a una prestazione mutualistica. E concludo.