La recensione / 3 – L’italiano plurale e il sostrato comune

di Massimo Fanfani

A proposito di: Mariarosa Bricchi, La lingua è un’orchestra. Piccola grammatica italiana per traduttori (e scriventi), Milano, il Saggiatore, 2018, pp. 272, € 22,00

Con questo volume Mariarosa Bricchi si è proposta di delineare una «grammatica italiana per traduttori», ovvero «quello che grammatica, linguistica del testo, lessicografia, letteratura italiana possono fare per chi scrive, in particolare per i traduttori, e per i loro editor». In verità l’opera non è diretta solo ai traduttori e agli editor, ma considera anche

CM/quello che i traduttori possono fare per la grammatica italiana: conoscerla, rispettarla, trasgredirla, forzarne, se opportuno, i limiti (è un diritto sacrosanto degli utenti). Soprattutto, passeggiarci dentro con consapevolezza, farne un uso non solo corretto o volutamente eslege, ma responsabile (p. 15)./CM

E di conseguenza il libro è utile e interessante per tutti, sia perché tutti siamo influenzati forse più dagli scrittori tradotti che da quelli nostrani, sia perché, in quanto scriventi, siamo tutti in certo modo compagni dei traduttori.

Va subito detto che non si tratta di una vera e propria grammatica, ma di un’intelligente e appassionata riflessione su aspetti e problemi della grammatica, e più in generale dell’italiano contemporaneo, che emergono più evidenti nella prassi traduttiva (per rintracciare i vari argomenti diventa quindi indispensabile l’indice finale). E proprio per aver posto al centro la traduzione il volume della Bricchi si differenzia dai tanti analoghi che sono apparsi negli ultimi tempi, alcuni dovuti a noti linguisti, come la Prima lezione di grammatica (Laterza, 2005) di Luca Serianni, L’italiano in un imbuto (Einaudi, 2010) di Gian Luigi Beccaria, Come cambia la lingua (il Mulino, 2012) di Lorenzo Renzi, la Grammatica dell’italiano adulto (il Mulino, 2015) di Vittorio Coletti, la Lezione d’italiano (Mondadori, 2016) di Francesco Sabatini, L’italiano è meraviglioso (Rizzoli, 2018) di Claudio Marazzini.

La Bricchi è una studiosa di valore che ha al suo attivo diversi libri importanti: un’indagine sul lessico arcaico e letterario nei romanzi dell’Ottocento (La roca trombazza, Edizioni dell’Orso, 2000), un’analisi della lingua di Giorgio Manganelli (Manganelli e la menzogna, Interlinea, 2002), uno studio su Manzoni saggista (Grammatica del buio, Centro nazionale di studi manzoniani, 2017), un’edizione critica di un testo di Curzio Malaparte (Il buonuomo Lenin, Adelphi, 2018). Ma svolge anche attività di redattrice letteraria per alcune case editrici e, in particolare, per la Rizzoli Libri, dove per la BUR ha diretto la collana di «Classici stranieri» e ideato la serie di «Scrittori contemporanei original». Inoltre tiene corsi in editing e traduzione per diversi master e scuole di specializzazione.

Le riflessioni di questo volume nascono quindi, oltre che da una solida preparazione linguistico-filologica, dall’esperienza nel campo dell’editing delle traduzioni letterarie e dalla pratica dell’insegnamento nei master e nei corsi di perfezionamento. Che il volume abbia un tono pacatamente didascalico e sia prevalentemente orientato sui problemi dell’italiano dei traduttori è evidente già dall’esemplificazione che esso presenta, ricavata in gran parte da casi concreti individuati e vagliati personalmente dall’autrice.

La struttura de La lingua è un’orchestra è articolata in tre parti. La prima, più ampia, tratteggia in sei capitoli un quadro complessivo delle tante questioni dell’italiano scritto che al giorno d’oggi sono sul tappeto, soffermandosi sui nodi più rilevanti e sugli strumenti e le strategie per affrontarli. A parte l’ultimo capitolo (che è la rielaborazione di un saggio sull’uso debordante del congiuntivo nelle completive, Congiuntivite e scrupoli editoriali, apparso nel volume Editori e filologi. Per una filologia editoriale, a cura di Paola Italia e Giorgio Pinotti, Roma, Bulzoni, 2014), la trattazione si snoda in modo discorsivo e scorrevole, partendo da una descrizione della ricca varietà di codici e di registri propria dell’italiano, per poi concentrarsi soprattutto sulla costruzione dell’architettura sintattica, sulle opportunità offerte dalla collocazione delle parole (il terzo capitolo s’intitola non a caso Dire di più con le stesse parole), sulla ricca tavolozza lessicale che occorre saper sfruttare appieno.

A questo proposito si presenta assai ricco di stimoli il capitolo sui principali strumenti lessicografici (Vocabolari, senza i quali la vita perde colore), nel quale si mostra come potersene servire nel modo più proficuo per soppesare valore e storia di ogni espressione, per cogliere sfumature e usi differenti dei cosiddetti “sinonimi”, per guardare avanti con le parole antiche, escogitandone di nuove e producendo nuova scrittura: «Inventare le parole è un’avventura disponibile per tutti. Lo fanno, senza rendersene conto, i bambini; e gli adulti quando imparano una lingua nuova. Lo fanno, consapevolmente, quelli che sanno sfruttare “il senso del nonsenso” (così lo chiamava Alfonso Gatto)» (pp. 114-115). Di carattere opposto il capitolo successivo, dove si prende di mira il «parlare affettato», quello che Italo Calvino aveva chiamato l’«antilingua». Qui la Bricchi, invece di elencare la solita lista di luoghi comuni o di scorrettezze e sprecisioni del burocratese, fa parlare alcuni scrittori – Pontiggia, Savinio, Manganelli, Magrelli e, appunto, Calvino – che nelle loro pagine hanno puntato il dito su questo o quel caso di mancanza di gusto o di ridicola involuzione del linguaggio legnoso dell’amministrazione e della modernità tecnocratica.

A questa ampia prima parte seguono, sotto l’etichetta Ai margini, una decina di capitoletti su problemi specifici sia della grammatica (l’uso dei trattini, la punteggiatura, ecc.) sia del «traduttorese». E poi un’appendice finale in cui la Bricchi ci introduce nel mondo della redazione editoriale, spiegando come redigere una scheda di lettura. Sulle prime potrebbe sembrare che tale appendice esuli un po’ dal resto, e invece è forse la parte più curiosa e attraente del volume, una sorta di gran fuoco d’artificio finale, perché la Bricchi, nell’additare elementi, caratteristiche e stile tipici di una scheda editoriale, si serve delle schede di lettura dovute a scrittori e intellettuali di vaglia che hanno lavorato per i maggiori editori italiani: Calvino, Manganelli, Caproni, Vittorini, Gallo, Garboli, Pontiggia. In questo modo non solo vengono proposte e illustrate una serie di schede esemplari, ma si passano in rassegna alcune interessanti vicende editoriali. E per giunta non si tralasciano le istruttive e divertenti parodie di schede di lettura che Umberto Eco consegnò a uno dei più gustosi capitoli del suo Diario minimo.

Se dunque il volume della Bricchi offre un ricco insieme di temi e di considerazioni intorno alla lingua, alla grammatica e alla traduzione, temi presentati sempre in modo intelligente e avvincente, ci sono dei punti, sia su questioni di carattere generale che su fatti minuti, che non convincono appieno. Ad esempio, l’insistere sull’«italiano plurale» non è certo sbagliato e già Leopardi, come ricorda la stessa Bricchi, aveva notato nello Zibaldone che «La lingua italiana è piuttosto un complesso di lingue che una lingua sola, potendo tanto variare secondo i vari soggetti, e stili, e caratteri degli scrittori ecc., che quei diversi stili paiono quasi diverse lingue». Ma se effettivamente «la lingua è un’orchestra» fatta di tanti strumenti e di tanti diversi strumentisti, quando l’orchestra suona quel che conta è l’accordo su un “la” condiviso da tutti e l’armonica e concorde concertazione dell’insieme. Così ogni scrittore avrà pure il suo idioletto e il suo stile, addirittura variabile al variare di contesti interlocutori e argomenti, ma ciò che conta è il terreno comune che condivide e su cui c’è accordo con gli altri scrittori e parlanti, un terreno assai ampio e consistente che, per quanto riguarda la grammatica, copre quasi tutto ciò che occorre considerare. Proprio perciò, specie trattando di grammatica, converrebbe puntare su tale terreno comune, costituito dall’intersezione dei vari idioletti, e lasciar da parte le varietà o gli scarti individuali. L’idea dell’«italiano plurale» o dei vari «italiani» è affascinante, ma è solo un paradosso e come tutti i paradossi andrebbe presa con le molle. Un farmacista e un falegname ignorano l’uno la maggior parte dei termini che usa l’altro, eppure quando parlano insieme parlano la stessa lingua e s’intendono benissimo; e un romanziere non scrive certo come un ragioniere, ma niente impedisce all’uno di comprendere a fondo quel che scrive l’altro. Così, se si osserva l’uso della lingua nella sua concreta realtà, gli attuali problemi dell’italiano non nascono tanto dalla sua plurivocità e varietà di registri, quanto dai punti critici che presenta quella sua larga base su cui tutti poggiano i piedi. Le incertezze, le oscillazioni, le sciatterie che si riscontrano sempre più fitte nello scritto contemporaneo, purtroppo anche in quello dei traduttori, nascono proprio qui, da quei nodi più intricati dell’italiano comune a cui non si presta più la dovuta attenzione e che oggi, con la diffusione della scrittura elettronica, si sono accresciuti e moltiplicati.

Per venire agli aspetti più minuti, ne segnalo solo uno dalle prime pagine, dove si afferma che il «novissima», che figura nel titolo di una Novissima grammatica del 1941, rivelerebbe «un’attardata ma solida osservanza manzoniana». Come si sa, per la teoria manzoniana, fondata sul fiorentino dell’uso, il dittongo «uo» andava bandito e quindi si sarebbe dovuto dire «bono», «novo», «ovo». Ma «novissimo» veniva impiegato senza dittongo da quasi tutti, anche da chi era antimanzoniano, perché la vocale è atona e quindi non dittonga, come avviene in «novità», «novello», «moviamo», «sonata», ecc. E se alla fine è prevalsa la forma «nuovissimo», la variante priva di dittongo compare talvolta anche oggi, specie quando si voglia dare alla scrittura un tono più fine e letterario. (Sempre a proposito di dittonghi, a p. 12 forse si dovrebbe avvertire il lettore di oggi che ciò che Daniello Bartoli vorrebbe raccogliere da grammatiche e vocabolari per dar vita a nuovi libri, ovvero «mele d’uno stesso sapore», non sono «mele» bensì «miele»).