Quando a tradurre si insegnava di nascosto

INTERVISTA A BARBARA LANATI

di Norman Gobetti

Potrà sembrare strano, ma c’è stato un tempo, non troppo remoto, in cui insegnare traduzione non solo non era abituale, ma era un tabù. E c’è stato un tempo in cui alcune persone hanno cominciato a violare il tabù. Una di queste persone è stata Barbara Lanati, professore di Letteratura americana all’Università di Torino, che qui ci racconta la sua pionieristica esperienza didattica, e anche qualcosa del suo modo di intendere la traduzione.

Sono un po’ imbarazzata, ma sarò sincera: sono molto ignorante riguardo ai testi di traduttologia che sono stati pubblicati di recente, anche molto buoni, li ho visti… Ma sono studi quasi scientifici, teorici, che non appartengono alla mia generazione, e, devo dire, neanche al mio modo di lavorare. Io ho iniziato quasi per caso a tradurre, in seguito all’invito di Beniamino Placido, che aveva letto un mio saggio sulla poesia di Walt Whitman. Allora Beniamino Placido era consulente presso la casa editrice Savelli, e propose Emily Dickinson, e mi chiese di tradurla. Io mi sono sempre chiesta come mai avesse chiesto a me, che non avevo mai tradotto, ma soprattutto che avevo lavorato su un poeta così lontano, anche se contemporaneo e dello stesso paese di Emily Dickinson, di tradurre Emily Dickinson. Beniamino aveva pensato che il mio lavorare in profondità con uno studio quasi socio-filologico su Song of Myself di Whitman mi avrebbe aiutata a entrare nella poesia totalmente diversa di Emily Dickinson. Contro la «morbidità», demoticità del linguaggio del primo s’innalzava la voce della seconda, in componimenti minimali a volte ellittici e di difficile comprensione.

All’epoca, immagino, la traduzione letteraria veniva considerata semplicemente una parte della letteratura, non una disciplina a parte come oggi.

Sì. Non solo, ma quando cominciai a fare traduzione letteraria in gruppo, a lavorare in gruppo all’università, lo facemmo di nascosto, perché all’università traduzione letteraria non si faceva… A volte si traduceva dall’italiano all’inglese, perché sembrava più istruttivo, più utile per chi affrontasse lo studio della letteratura inglese e americana.

Quindi la traduzione, oltre a essere ovviamente una pratica che veniva fatta in editoria, era considerata parte della didattica della lingua. Cioè insegnare a tradurre per insegnare l’inglese.

Per insegnare l’inglese, esattamente questo. Infatti era visto di pessimo occhio il fatto che noi volessimo confrontarci con la traduzione letteraria partendo dall’inglese per arrivare in italiano, quindi il contrario di quello che si faceva di solito, e lo facevamo letteralmente di nascosto. Cioè, io aggiungevo delle ore in più al mio monte ore, perché quel lavoro mi appassionava. Amavo lavorare con gli studenti, con certi studenti che accettavano, anche loro senza trarne vantaggio. Ovviamente io li guardavo con occhio benevolo quando venivano a sostenere l’esame di letteratura, anche perché erano i più bravi, perché lavorando su certi testi dovevano necessariamente andare nelle profondità del messaggio di quei testi letterari. E lo avevano imparato durante i laboratori di traduzione.

Questo quando succedeva?

Ho cominciato nei primi anni ottanta a tenere laboratori di traduzione all’università, laboratori che chiamavamo «carbonari». Con grande successo, e con grande gioia di chi li aveva fatti con me, perché poi ne uscirono due volumi presso Einaudi: le poesie di Amy Lowell, su cui avevamo lavorato anche di sera (per non svegliare mio figlio si andava in una mansarda che avevo), e le lettere di Edgar Allan Poe. Quando raccontai cosa stessimo facendo a un editor dell’Einaudi, la sua reazione fu: «Dammele». Le guardò e poi mi contattò e mi disse: «Noi le vorremmo fare». E allora riunii tutte queste fanciulle, in quel caso erano tutte ragazze, che avevano lavorato, e le sorpresi: «Vi devo dare una notizia. Verranno pubblicate da Einaudi». Per loro fu una gioia incredibile, ma soprattutto stupore.

Puoi dirci alcuni nomi delle persone coinvolte in questi laboratori?

Sì, certo. Purtroppo non li ricordo tutti a memoria. Sono tutti scritti, perché nel frontespizio di ogni libro ho elencato le persone che ci hanno lavorato. Uno per esempio è Stefano Rosso, che insegna letteratura a Bergamo. L’altro è Roberto Cagliero, che insegna a Verona. E poi altre due che io, forse maleducatamente perché erano presenti altre traduttrici, in un convegno di traduzione tenuto qui a Torino definii «top model della traduzione letteraria»: Susanna Basso e Rossella Bernascone. Entrambe, tra l’altro, hanno dato alle stampe due libri molto belli, non strettamente teorici: uno è antologico, ABC della traduzione letteraria, e l’altro è un diario di traduzione, Sul tradurre. Il primo di Rossella Bernascone e il secondo di Susanna Basso.

Come si svolgevano questi laboratori? Concretamente, come lavoravate insieme, quante persone eravate, cosa succedeva?

Eravamo al massimo dodici, anche meno. Lavoravamo un po’ insieme su un testo, per esempio una poesia di Amy Lowell. Lavoravamo insieme in un’aula o nel mio studio in università. Poi a casa, o dove volevano, loro continuavano la traduzione, modificando quell’abbozzo che avevamo fatto insieme. Quindi ci ritrovavamo e riprendevamo il lavoro confrontando tutte le ipotesi e giungendo a un’unica versione. Cioè, il tutto era molto democratico, diciamo, era collettivo e democratico.

Quindi tutti lavoravate sullo stesso testo. E nel corso dell’anno quante volte vi vedevate?

Sì, tutti sullo stesso testo. I laboratori duravano magari tre o quattro mesi, una volta alla settimana.

Ricordo, quando all’università seguivo i tuoi corsi, di avere fatto una tantum un laboratorio tenuto da Rossella Bernascone in cui avevamo tradotto una canzone di Bob Dylan. Questo immagino sia uno stadio successivo.

Sì, Rossella si era già laureata. Tutt’e due, lei e Susanna, si sono laureate con bellissime tesi di traduzione, dopodiché io chiesi loro se, da “carbonari”, in modo gratuito, di nascosto eccetera, avrebbero voluto tenere dei seminari, cioè continuare il lavoro che avevamo fatto insieme. E mi sembra che per un po’ lo abbiano fatto con alcuni studenti. Rossella in seguito procedette oltre con i seminari. Io purtroppo non ho mai potuto né pagarle né riconoscerle ufficialmente, perché era tutto fatto in maniera nascosta, subdolamente “divertita”. Sarebbe piaciuto a Emily Dickinson.

E invece ricordi quando la traduzione ha cominciato a entrare nell’università in modo istituzionale? Non so se all’Università di Torino è poi stato attivato un corso di traduzione…

Che io sappia solo negli ultimi anni. Un precursore, che purtroppo non c’è più, è stato Angelo Morino, che faceva anche lui, con la sua assistente, dei seminari di traduzione letteraria.

A Torino c’era stata, ma fuori dall’Università, l’esperienza della scuola di Magda Olivetti, che ha svolto un ruolo molto importante; ne sono uscite diverse persone che poi hanno cominciato a lavorare.

Magda Olivetti era una stupenda virago. Era riuscita ad avere finanziamenti, forse da Bruxelles, da fondi europei. Quindi esistevano piccole borse di studio per i laureati che venivano accettati nei suoi corsi. Ovviamente lei era molto qualificata. Era già di per sé un’ottima traduttrice, che aveva lavorato soprattutto per Einaudi. Attirò personaggi come Ottavio Fatica, che a sua volta era già un grande traduttore. E Magrelli… Invitò varie persone che si erano misurate con la traduzione, oppure che avevano voglia di parlare di letteratura, di nutrire questi giovani che erano lì a imparare.

Da quello che racconti, mi sembra che il modo di insegnare traduzione che tu hai applicato in questi seminari “carbonari” fosse semplicemente un’esposizione intensiva al testo letterario, in profondità, in un clima laboratoriale, seminariale, di confronto, ecc. Non passava attraverso un insegnamento in qualche modo metodologico, strutturato da un metodo di traduzione.

Certamente. Era come se ci fosse una grande piscina, e poi ci dovevamo buttare tutti e cercare di arrivare dall’altra parte e fare i propri cinquanta metri, chi a rana, chi a dorso. E poi ritrovarci dall’altra parte. Non c’era nessuna distinzione, io lavoravo (nuotavo) con loro. Mettevo a disposizione quello che avevo imparato traducendo Emily Dickinson. Ricordo anche che nel ’93, dal «manifesto», mi intervistarono sulla traduzione, e io dissi quello che pensavo, e il titolo dell’articolo che uscì era: Quel lungo lavoro dietro un nome piccolo piccolo. Il nome piccolo piccolo era il traduttore. Solo in seguito si cominciò a dare un po’ più di spazio a quel nome, a metterlo in maggiore evidenza. Il sogno, ancora oggi perlopiù non realizzato, è quello di Dacia Maraini, che dichiarò: «Il nome del traduttore dovrebbe essere messo in copertina, col nome dell’autore». Perché è vero che una traduzione, per quanto sia bella, per quanto sia fedele, non è mai il testo di partenza, è un altro testo, un altro lavoro che necessariamente dev’essere firmato anche dal traduttore, perché il traduttore vi lavora talmente tanto che lo riscrive. Tradurre è anche questo: riscrivere indossando la lingua e lo stile dell’altro, o almeno sperando di riuscirvi. Mi viene in mente l’immagine di cui ha scritto Dürrenmatt nel suo Minotauro: chi traduce teme di essere un Minotauro che ingenuamente si specchia nel testo di partenza e in quello di arrivo, e tra i due crolla, vittima sia di Teseo sia di Arianna.

Anche se non ti sei mai posta in un atteggiamento teorico o di riflessione astratta su tuo lavoro di traduttrice, sapresti descrivere un metodo che usi nel tradurre? Per ogni libro ricominci da zero, oppure hai una serie di rituali, di operazioni fatte in un certo ordine, a cui ti sei affezionata nel corso del tempo?

Posso dirti come lavoro io, ma non faccio testo. Se mi chiedono di tradurre, come mi è capitato, Angela Carter, o Stevenson, Il dottor Jekyll & Mr Hyde, allora quello che faccio è applicare lo stesso principio che ho applicato a Emily Dickinson: leggo tutto quello che ha scritto l’autore e, se possibile, quello che è stato scritto su di lui o lei. Dopodiché, quando ho letto tutto, comincio la mia battaglia con l’autore, sapendo benissimo che ognuno ha problemi diversi. Per esempio, nel caso di Angela Carter è stato un doppio salto mortale, perché Angela Carter non scrive semplicemente in inglese. Una volta ha detto una cosa molto bella: «Mi sento così straniera a casa mia, mi sembra che il linguaggio in cui scrivo sia così mio e così poco “inglese”, che ho la sensazione di essere già “in traduzione” quando i miei libri sono pubblicati in Inghilterra». Certo, scrive in inglese perché è la sua madrelingua, tuttavia quello che fa è partire da testi medievali (lei si è laureata in studi medievali) oppure dalla fiaba, quindi già da un testo, e, tra virgolette, lo traduce secondo un andamento postmoderno, adottando un linguaggio contemporaneo. Ci sono dei bellissimi racconti di Carter che sono scritti in un ottimo inglese contemporaneo, ma provengono da un lontanissimo humus medioevale. Per cui, nel caso di Carter, anche lì ho dovuto, il più possibile, leggere i testi che lei aveva letto prima di scrivere quello che poi aveva scritto. Questo è un po’ il mio metodo. Quindi è faticoso, perché il metodo che uso è rastrellare tutto, sfogliare tutta la bibliografia possibile su e dell’autore, e poi mettermi al lavoro come un operaio: mi siedo al tavolo con dizionario dei sinonimi e contrari, dizionari di diversi periodi… tengo tutto, tutto davanti.

Lavori ancora coi dizionari cartacei o utilizzi dizionari online?

Cartacei, anche perché io traduco a penna; a biro o a matita, a seconda… E uso tutti i miei dizionari. Tra l’altro io difendo l’importanza dei cartacei e, in questo, credo sia d’accordo con me Susanna Basso, perché ad esempio, se devi tradurre un testo dell’Ottocento, per quanto tu voglia tradurlo, come nel caso del Dottor Jekyll e Mr Hyde, in un italiano contemporaneo, devi avere il dizionario dell’Ottocento, per essere sicuro che quella parola o quell’espressione o quella metafora che usi rispecchi il senso che aveva ai tempi di Stevenson…

Ascoltandoti, mi viene da pensare come il tuo modo di intendere la traduzione, di vivere la traduzione, sia tanto legato alla letteratura, allo studio della letteratura, alla letteratura alta per l’esperienza che hai avuto tu di traduttrice, e come oggi invece, tendenzialmente, anche il lavoro di chi traduce letteratura, tra virgolette, alta, o anche autori del passato, sia molto più schiacciato sul mestiere proprio del traduttore, quasi come se il mestiere del traduttore fosse qualcosa di separato dal mestiere dello studioso di letteratura, come se le due cose appartenessero a due ambiti diversi. Io, insegnando traduzione, ho sempre un po’ questa frustrazione: mi sembra di insegnare tante cose che però non sono mai il punto, e che il punto non lo si possa davvero insegnare, che il punto stia proprio nell’intimità con la letteratura, e questa è una cosa che uno, o si costruisce nella sua vita, o non si costruisce. Cosa ne pensi?

Sono completamente d’accordo. Poi, è ovvio, ci sono traduttori che conoscono il loro mestiere e riescono a raggiungere ottimi risultati pur essendo ignoranti di quello che sta dietro a un testo. Io ho sempre reputato che quello che conta di una traduzione è se funziona, cioè se “si fa leggere”. Per esempio, Fernanda Pivano è stata molto criticata perché ha fatto degli errori, anche perché certi vocabolari non esistevano ancora e lei lavorava anche sul supercontemporaneo, sulla beat generation. Si diceva: «Ha sbagliato questo. Qui non era quella droga lì, era quell’altra droga là». Ma la realtà è che tutti continuiamo a leggere i beat tradotti da Pivano, errori, se ci sono, compresi.

Spesso gli studenti, probabilmente anche per come vengono formati negli anni dell’Università, ragionano sulla traduzione in base a: «Questo si può fare, questo non si può fare; questo è giusto, questo è sbagliato». Hanno il terrore di fare qualcosa che non si può fare, di fare un errore. Mentre nella visione che ci stai dando tu il punto non è tanto: «Hai sbagliato questo, hai sbagliato quest’altro», ma se alla fine funziona o non funziona. Tu pensi che ci siano dei tabù, delle regole, delle norme generali in ambito traduttivo, oppure no?

Tabù da parte delle case editrici? O da parte degli editor?

No, qualcosa che il traduttore non può fare e non deve fare, che è necessariamente sbagliato nelle operazioni che può fare un traduttore. Quando insegno, gli studenti mi chiedono sempre: «Questo si può tradurre così?», e io dico sempre: «Tutto si può fare». Bisogna vedere il contesto, bisogna vedere la situazione…

Sono d’accordo con te. Non dev’esserci nessuna censura, nessun tabù. Ma è importante che lo studente, o il futuro traduttore, traduca e poi si legga come se leggesse la traduzione di un nemico. Io dico sempre a me stessa (ovvero a un’“altra” da me): «Voglio vedere cos’hai fatto, cos’hai combinato…». La tua traduzione è il tuo nemico. Poi però devi sempre tenere presente il consiglio di Buddha: «Arrivati sull’altra riva fateci arrivare gli altri».

E ora sarà bene far sapere ai lettori di «tradurre» che i due libri frutto dei laboratori di traduzione tenuti da Barbara Lanati sono:

Amy Lowell, Poesie, a cura di Barbara Lanati, traduzioni di Laura Accurti, Carla Aira, Mara Baima, Susanna Basso, Rossella Bernascone, Federico Boggio, Roberto Cagliero, Mirella Filigno, Germana Fruttarolo, Guido Montegrandi, Stefano Rosso e Rina Valentino, Einaudi, «Collezione di Poesia» 217, 1990

Edgar Allan Poe, Vita attraverso le lettere, a cura di Barbara Lanati, traduzioni di Luisa Balacco, Elisabetta Chiri, Daniela Fargione, Cristina Iuli, Angela Negro e Angela Tranfo, Einaudi, «Gli struzzi» 435, 1992