di Isabella Vaj
Uno degli aspetti più affascinanti del mestiere del traduttore è il dover affrontare con ogni nuovo testo un mondo nuovo, come del resto capita al lettore, ma con una diversa responsabilità. La traduzione dei romanzi di Khaled Hosseini mi ha posto di fronte allo scenario sconosciuto della cultura centro-asiatica (Vaj 2009; Vaj 2012). Le parole di John D. Hoag sulla madrasa Ghiyathiyya di Khargird, Iran, paragonata per la perfezione architettonica al Partenone e al tempietto romano del Bramante (Hoag 1989, 138) e il rapimento di Robert Byron di fronte alla decorazione dei minareti di Herat hanno suscitato la mia curiosità per l’architettura dei timuridi, i Medici d’Oriente (Byron 20104, 122-136).
Quando parlo di timuridi, anche le persone di cultura media non sanno di cosa stia parlando; i più avventurosi opinano: scimmie? parassiti delle rose? I timuridi sono i discendenti di Timur-e Lang, Ferro lo Zoppo, il Tamerlano dell’Occidente, una dinastia che ha regnato per oltre un secolo lasciando centinaia di edifici di grande bellezza.
Durante il nostro Quattrocento in centro Asia lavoravano architetti e artisti di cui noi non sappiamo nulla, convinti, come ci hanno insegnato, che l’arte del nostro Rinascimento abbia toccato vertici assoluti e sia imparagonabile con altre civiltà artistiche. Byron ricorda che gli edifici timuridi «occupano uno spazio esiguo nella memoria del mondo» (Byron 2010, 122). Infatti esistono storie dell’architettura in cui Qavam ad-Din ibn Zayn ad-Din Shirazi, autore della madrasa Ghiyathiyya, non viene neppure menzionato (Kruft 1994). Un Rinascimento ignorato, quello dei timuridi (Roux 2011², 205-221). Eppure Brunelleschi a Firenze come Qavam ad-Din Shirazi a Herat si dedicano a una analoga ricerca: nuovi modi per voltare la cupola, per usare le parole del Vasari, con risultati diversi, ma inediti in entrambi i casi. Un Rinascimento che nasce con il regno di Timur (1370-1405) e ne diffonde la grazia per oltre un secolo.
Per una sorta di deformazione professionale, quando leggo un testo in inglese automaticamente penso a come tradurrei in italiano un singolo vocabolo, un’espressione idiomatica o un intero capoverso e viceversa. Questo mi è capitato ripetutamente leggendo studi in inglese sulla civiltà timuride, in particolare Golombek-Wilber 1988.
Nella traduzione di un testo sull’architettura timuride l’uso di un linguaggio tecnico è imprescindibile. In questo caso i prestiti saranno tanto numerosi da richiedere un glossario, come fanno appunto Lisa Golombek e Donald Wilber. Ma se troviamo termini “tecnici” all’interno di un testo letterario, allora è necessario fare una scelta affidandoci a una negoziazione, come insegna Umberto Eco. Per evitare una definizione da dizionario bisogna rinunciare a descrivere tutte le caratteristiche di una determinata struttura architettonica per limitarci a quelle più significative all’interno del contesto (Eco 2003, 83-85).
Le redazioni delle case editrici non amano le note a piè di pagina nei romanzi. Del resto c’è chi ritiene che la nota rappresenti di per sé un fallimento del traduttore. Penso che la traduzione di Golombek-Wilber 1988 rappresenterebbe una nobile sfida. Gli studiosi scrivono e leggono in inglese, la lingua franca. Ma il lettore comune avrebbe diritto di conoscere la grande architettura timuride attraverso l’italiano. In questa sede affronterò la traduzione solo di alcuni lemmi ed espressioni senza i quali non è possibile parlare di architettura timuride, neppure in una conversazione tra amici, e segnalerò alcuni casi significativi in cui non è possibile rinunciare al prestito.
Le strutture
Nel Quattrocento timuride incontriamo strutture architettoniche e tecniche decorative conosciute nella storia dell’arte islamica con vocaboli arabi o persiani per i quali non esiste un equivalente italiano. Il prestito è inevitabile se si ritiene utile, in una traduzione, portare il lettore verso il prototesto (Diadori 2012, 57). Non c’è infatti nessuna intimità culturale (Bettini 2012, 118) tra noi e i popoli centro asiatici: dobbiamo accettare un linguaggio diverso per parlare di una concezione artistica diversa. Non si tratta dunque di un semplice passaggio da una lingua a un’altra, ma della disponibilità ad accogliere nella lingua d’arrivo la metamorfosi di una concezione estetica.
Qualche esempio.
Pishtaq è voce iraniana. E’ il portale che sporge dalla facciata di un edificio, aperto da un arco altissimo (iwan) all’interno di una cornice rettangolare (Petersen 1996, s.v. pishtaq). La traduzione «portale monumentale» è corretta, ma riduttiva: alla nostra mente non si presenta nessuna immagine che rifletta la natura del pishtaq. A differenza di un edificio occidentale, per esempio una chiesa romanica, dove dall’esterno è possibile ipotizzare la forma dello spazio interno, il pishtaq è uno schermo che nasconde quanto sta dietro: il sahn di una moschea? il cortile di una madrasa? un mausoleo? un caravanserraglio?
L’iwan è una sala voltata chiusa da pareti su tre lati, interamente aperta sul quarto. E’ una struttura architettonica di origine persiana diffusa in tutto il mondo islamico (Petersen 1996, s.v. iwan). Una pianta tipica presenta quattro iwan che si aprono su un cortile centrale, dalla moschea del Sultan Hasan al Cairo a quella di Bibi Khanum a Samarcanda, dalla madrasa Ghiyathiyya a Khargird al santuario di ‘Abd Allah Ansari presso Herat. «Non vi è un altro termine per descrivere quelle immense sale aperte, dalle volte a sesto acuto e dalle alte facciate…» (Byron 20104 , 169).
Una considerazione a parte merita il termine muqarnas, un elemento architettonico a metà fra struttura e decorazione. «Modanatura ad alveoli» è la definizione del Vocabolario arabo-italiano 1989 (s.v. صنرقہ = muqarnaṣ). Ancora più generica, ma più aderente alla molteplicità delle forme che può assumere questo tipo di decorazione, è la definizione di Oleg Grabar: «composizione tridimensionale formata da un numero variabile di piccole unità» (Grabar 1989, p. 229). In italiano le molte definizioni ormai consolidate non sempre tengono conto della realtà del muqarnas: si parla di alveoli, di false nicchie, di nido d’ape, di stalattiti (Golombek-Wilber 1989, Catalogo, 323; Ettinghausen-Grabar 1994, 172; Lala Comneno 1996, scheda 268; Spinelli 2007, 30 e 39). Alcuni autori usano il maschile plurale: i muqarnas, (Spinelli 2007, 44; Mozzati 2002). La finale -as della traslitterazione (dove sono ovviamente inserite le vocali brevi ‘u’ e ‘a’) forse è stata interpretata come un plurale femminile e questo ha portato a tradurre «le muqarnas » (Chmelnizkij 2001, 417).
In arabo muqarnas è un sostantivo maschile singolare e come tale viene usato dagli autori anglofoni. Se il traduttore italiano non ritiene di utilizzare il termine arabo come prestito (come avviene in Hoag 1989), dovrebbe verificare di quale tipo si tratta prima di usare una delle definizioni correnti. Se il termine «stalattiti» può avere senso per il muqarnas dell’Alhambra, mi sembra del tutto fuorviante se applicato all’architettura timuride (come invece in Spinelli 2007, 39 nota 26, e in Chmelnizkij 2001, 417).
L’uso del termine arabo nella sua radicale alterità potrebbe indurre a riflettere sull’interpretazione teologica islamica: la visione occasionalistica dell’universo secondo la quale l’esistenza ininterrotta di ogni cosa dipende dalla volontà di Dio che interviene momento per momento per creare la realtà. Il muqarnas sarebbe un modo visivo per esprimere questa idea dell’universo quando, per esempio, frantuma lo spazio della zona di passaggio tra quadrato o ottagono di base e cupola rendendo invisibile il sostegno su cui questa si appoggia (Petersen 1996, s.v. muqarnas, 206-208).
Archi
A partire dall’inizio del XV secolo gli esperimenti degli ingegneri e degli architetti timuridi portarono a costruire archi strutturalmente indipendenti, dove i muri non sono più necessari per sostenere la cupola (Golombek 1992). La ricerca di un nome per questi archi non mi sembra oziosa.
Se il transverse arch trova una traduzione in «arco traverso», con i piedritti su due pareti opposte, e se gli intersecting arches possono trovare un equivalente negli «archi incrociati», il recumbent arch non ha un equivalente italiano, perché nella configurazione della cupola occidentale tale arco non è presente. È un breve arco dalla luce molto ampia, appoggiato sulle spalle di un arco strutturale, in genere a coronamento di un pennacchio. Mi chiedo perché i più accreditati studiosi italiani dell’architettura timuride non parlino di un elemento decisamente caratteristico. Per quanto difficile, non ritengo si debba rinunciare a trovare una traduzione accettabile. Propongo «arco di raccordo».
Quanto all’«arco cinturato» della cupola del Gur-i Amir di Samarcanda (Chmelnizkij 2001, 417), cui si fa riferimento descrivendo la zona di passaggio, è un arco che si presenta come un grosso cordolo a sezione triangolare che potrebbe essere definito «costolatura» (Blair-Bloom 1994, 46, usano infatti rib). In internet oltre che dei cinturati Pirelli si parla dei Cinturati della confraternita agostiniana, che con l’arco non sembrano avere alcun nesso. Propongo «arco costolato».
Cupole
Una vistosa caratteristica del profilo di città dal passato timuride è rappresentata dalle cupole su alti tamburi, coperte di ceramica azzurra. Si tratta perlopiù di cupole doppie (double shell domes) variamente definite: a doppio scafo, a doppio guscio, a doppia calotta. Scegliere tra queste varianti dell’equivalente italiano è una questione di sensibilità linguistica, anche se spesso sembra che molti studiosi non abbiano a cuore la qualità stilistica dei loro contributi “tecnici”. Non saprei infatti come giustificare l’uso di «sfinestrature» per finestre (Spinelli 2007, 118) o di «strutture spigolate» per definire l’ambiente a pianta quadrata oppure ottagonale coperto da una cupola (Spinelli 2007, 39 nota 26).
Sempre a proposito della copertura timuride, è ben nota la cupola a costoloni o costolata (ribbed o fluted dome) del Gur-i Amir, il mausoleo dinastico di Samarcanda. Se mi sembra accettabile l’uso del termine «nervature» usato dalle traduttrici Anna Bacigalupo (Hoag, 1989, 130) e Maria Grazia Bellone (Byron 20104 , 133), non apprezzo la definizione di «cupola cannellata e baccellata» (Spinelli 2007, rispettivamente 45 e 84). Né mi sembra calzante la traduzione di melon-shaped dome (Blair-Bloom 1994, 37; Hillebrand, 1999, 214) con «cupola a forma di melone» ((Byron 20104 , 299, 348). In italiano esiste la definizione «cupola a bulbo» che descrive con immediatezza tale forma. Del resto anche in inglese spesso la cupola con questo profilo è definita bulbous dome (Petersen 1996, s.v. dome; Blair-Bloom 1994, 40-41), ma trovo goffo l’aggettivo «bulbiforme» (Byron 20104 , 169). È comunque una forma che mette in moto la fantasia e che può richiamare addirittura un’amanita falloide (Mozzati, 2007, 229).
Volte
La più grande innovazione dell’architettura timuride è conosciuta come squinch-net vaulting, uno sviluppo geniale del transverse vaulting più antico, un sistema di coperture ad archi incrociati (Blair-Bloom 1994, 46). Si tratta di una copertura voltata costituita da un reticolo di pennacchi che presentano una decorazione sfaccettata in gesso dipinto, come nel mausoleo di Gawhar Shad a Herat e nella madrasa Ghiyathiyyah di Khargird, entrambe opera del grande Qavam ad-Din Shirazi, l’architetto della sultana, moglie di Shah Rukh. Lo spazio conserva una stupefacente unitarietà, mentre le sfaccettature della superficie riflettono la luce come un prisma cristallino, evocando il luccichio della volta celeste, cui rimanda comunque la cupola, mentre lo spazio quadrato su cui si imposta è trasparente simbolo della realtà terrena.
La decorazione
È il trionfo del colore, scintillante di smalti, dove domina l’azzurro in tutte le sfumature. L’osservatore può perdersi passando da un motivo decorativo all’altro, inseguendo la germinazione dei poligoni stellari. Il virtuosismo di architetti, artisti e artigiani – in origine deportati in Transoxiana da Tamerlano dalla Persia, dall’Azerbaijan e dall’Hindostan – si esplica in una stupefacente varietà di motivi e di tecniche ceramiche. E la bellezza di questa architettura nasce proprio dal sapiente equilibrio fra struttura e decorazione.
La mia sfiducia nell’esistenza di sinonimi è stata smentita da Giampietro Rampini, noto ceramista di Gubbio, il quale mi dice che piastrella e mattonella sono termini usati indifferentemente, sinonimi, appunto (Vocabolario Treccani, s.v. piastrella). Sono vocaboli fondamentali, perché nell’architettura timuride struttura e rivestimento ceramico, nei capolavori cui è stato accennato sopra, sono inscindibili.
Tuttavia la preziosità dei rivestimenti dipende soprattutto dalla tecnica con cui sono realizzati. Ci sono intere murature in hazar baf, pannelli in kashi, piastrelle in haft rangi, o piastrelle con decorazione sotto vetro (under glaze), più raramente sopra vetro (over glaze), come le famose mattonelle esagonali verde scuro del mausoleo di Shirin Bika Aqa a Shah-i Zindeh, sulle quali gru in volo sono dipinte in oro.
Credo invece nella possibilità di trovare una traduzione italiana delle espressioni in persiano, pur in assenza di equivalenti linguistici. Nel glossario (Golombek-Wilber 1989) hazar baf è tradotto thousand weave. L’espressione «mille tessiture» potrebbe incuriosire il lettore e ricordargli – mentre osserva le murature dove i mattoni smaltati formano scritte in cufico quadrato con i nomi sacri di Allah, Muhammad e Ali o brevi eulogie come «Sia lode a Dio», oppure «L’immortalità appartiene a Dio» e l’ormai famoso «Allah akbar» – che i timuridi avevano origini nomadiche, immersi in una civiltà dove la raffinatezza della tessitura, dei ricami delle tende da campo, degli arazzi e dei tappeti, oltre che delle vesti, parla del prestigio e della ricchezza del proprietario.
Haft rangi (letteralmente «sette colori») è una tecnica, che l’Andalus, la Spagna musulmana, ha mutuato dal Medio Oriente e ha trasmesso all’Occidente con il nome spagnolo di cuerda seca. Ritengo che a questa espressione ormai consolidata ci si debba attenere. Il nome è giustificato dalla tecnica originaria: sulla terracotta umida della piastrella viene delineato il contorno del motivo decorativo, geometrico o fitomorfo, con una cordicella immersa in una sostanza grassa mescolata a un colorante; essa farà da argine, in modo che i vari smalti allo stato liquido non si mescolino tra di loro. Quando si procede alla cottura la cordicella brucia lasciando un piccolo solco (Fuga 2004, 233). In realtà si possono tracciare i margini del disegno con un pennello o una siringa usando una sostanza grassa, senza ricorrere alla cordicella.
Il kashi è una sorta di mosaico di ceramica dalla tecnica molto costosa, ma cromaticamente di grande effetto; per questo è riservato alle superfici più visibili. Le piastrelle di un determinato colore sono cotte alla temperatura ideale per quello specifico pigmento, quindi vengono ritagliati i singoli elementi del disegno (per esempio petali, foglie, steli o forme geometriche) e assemblati in laboratorio su pannelli prima di essere posti in opera. E’ la stessa tecnica con cui nell’antichità classica erano realizzate le tarsie marmoree. E sono i minareti di Herat, realizzati in questa tecnica (Stocchi, 1980, 103-110), che affascinano Byron lasciando nel viaggiatore inglese un’impressione indelebile di bellezza (Byron 20104, 134-136). In persiano kashi ha due distinti significati: come sostantivo significa «piastrella», come aggettivo significa abitante di Kashan, oggi in Iran, la città famosa appunto per i suoi ceramisti, virtuosi del mosaico di ceramica, di maiolica o di mattonelle, come questa tecnica viene spesso chiamata (Farneti 1993, 136).
Da un punto di vista linguistico sembra stimolante poter parlare dell’architettura timuride senza dover ricorrere all’imperante e, direbbe Said (20065), imperialistica lingua inglese.
A questo punto si impongono alcune domande. Perché in Italia non sappiamo chi siano i timuridi e non possediamo un linguaggio per descriverne compiutamente l’architettura? Perché l’elaborazione di una terminologia che dia un nome agli elementi del patrimonio architettonico di tanti paesi asiatici sembra rispondere a un tecnicismo? E’ un caso che siano soprattutto statunitensi e russi gli studiosi che hanno forgiato un lessico appropriato?
Forse possiamo trovare risposte a queste domande in Orientalismo (Said 20065 ), là dove l’intellettuale palestinese affronta il nesso tra cultura e potere, tra egemonia culturale e imperialismo. Sono il Regno Unito e la Russia i protagonisti del Grande Gioco del XIX secolo (Rashid 2008) e sono inglesi e russi gli studiosi orientalisti del periodo. Ma con l’ingresso degli Stati Uniti nella politica mondiale, sono soprattutto statunitensi e russi gli orientalisti che nel XX e nel XXI secolo si occupano a livello scientifico di cultura centro-asiatica.
Bibliografia
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