di Carmelo Alberti
Marco De Marinis, Il teatro dell’altro. Interculturalismo e transculturalismo nella scena contemporanea, La casa Usher, Firenze 2011, € 26,00
L’immagine di copertina, dedicata a Pippo Delbono e Bobò, è di per sé una chiara indicazione di lettura del libro di Marco De Marinis; il saggio affronta, infatti, l’esperienza dell’alterità sulla scene contemporanee con l’intento di riorganizzare il quadro delle teorie che hanno contrassegnato la teatralità del Novecento. Con l’acume intellettuale e la tranquillità di un pensatore abituato a spiegare e a risolvere antinomie, in un libro tripartito, De Marinis preferisce ristabilire alcuni principi guida, a cominciare dall’importanza di garantire la reciprocità dello sguardo culturale, seguendo un procedimento che predilige il principio della conoscenza, sottolinea le trasformazioni di linguaggio e valorizza la funzione dell’attore.
Se, da un lato, il teatro del XX secolo può essere riletto «in chiave eurasiana», vale a dire secondo un’ottica globale che coniuga le visioni di Est e Ovest, Nord e Sud del mondo, dall’altro il libro ha il merito di riesaminare e organizzare alcuni nodi della scena novecentesca, rimuovendo le rigidità di antecedenti prese di posizione. Le polarità dell’attore e dello spettatore divengono, allora, le entità di un procedimento esemplare, mentre nella difficoltà di coniugare teoria e prassi affiora un modello forte, che prova a risolvere le contraddizioni del procedimento teatrale nelle sue fasi più significative e nella sua incisività.
Spesso dalle carriere dei protagonisti e dei maestri (e le tre parti lo dimostrano) emerge l’esigenza di un teatro in forma di libro, di una scrittura teorica che si attua, che si mette in scena in termini assoluti. Pertanto il compito di un osservatore consapevole è quello di valutare la consistenza e, laddove esistano, i limiti di tale intuizione. Così, nella prima parte il pensiero di Eugenio Barba tende a «rappresentarsi» nel libro «stratigrafico» La canoa di carta: il tracciato conduce allo sviluppo di una teoria transculturale che, a partire dall’attore orientale, determina tre leggi, quella dell’equilibrio, quella dell’opposizione e quella della «non-coerenza coerente»; nello stesso tempo si può osservare quanta importanza acquistino le scienze fisiche e naturali, ovvero l’indagine di natura neurofisiologica come origine del gesto e del movimento.
Per De Marinis è necessario considerare la parzialità della base empirica prima di approdare a un’ipotesi onnicomprensiva di antropologia teatrale, in relazione a ciò che porta avanti il gruppo di studiosi e di artisti riuniti intorno a Barba e all’ISTA (International School of Theatre Anthropology). È una parzialità che si riflette nel metodo di codificazione dell’interpretazione attorale e che emerge nell’oggetto-limite di «situazioni costruite ad hoc», per arrivare a dimostrare come occorra considerare una fase di pre-espressività costitutiva della giustificazione disciplinare dell’antropologia teatrale. Anche quando si parla di condizione psicofisica dell’attore (rapporto corpo-mente), la stessa che Stanislavskij sviluppa procedendo dalla reviviscenza alle azioni fisiche e che negli anni Cinquanta anche Grotowski esplora, esaminando la relazione fra interiorità e artificialità, la posizione di Barba si risolve con le metafore del corpo-fodera (che l’attore imbastisce da sé) e con la ricerca dei «sentieri nascosti»; ricerca a partire dalla quale l’attore s’avvia a compiere all’azione scenica. «Quindi esiste il rischio – che emerge dai discorsi della Canoa – che il lavoro sulla pre-espressività possa riversarsi sul corpo vitale utile per scoprire i significati non ovvi della rappresentazione», scrive Barba. E di rimando De Marinis si chiede: come si spiega e si giustifica il funzionamento di un livello pre-espressivo che sia il nucleo generatore dell’intero fatto teatrale; e quali sono i suoi presupposti teorici e i suoi livelli di organizzazione?
I riferimenti specifici si orientano verso la struttura profonda della creazione teatrale che agisce sulla trasformazione delle strutture superficiali (Lévi-Strauss, Chomsky), oppure sul concetto di «genotipo biologico». Forse, i principi pre-espressivi universali sono quegli stessi archetipi teatrali a base corporea, collegabili alle caratteristiche della specie umana, che si scorgono nelle teorie di Victor Turner e di Richard Schechner, in grado di evidenziare un filone d’indagine che – da Ejzenstein a Mejerchol’d, da Stanislavskij a Grotowski, da Artaud a Brook e Lecoq – studia come valorizzare le tecniche dell’azione fisica.
C’è, poi, la teoria di Jean-Marie Pradier, che rifiuta il dualismo organico-inorganico, natura-cultura, corpo-mente, ritrovando nel comportamento scenico l’elaborazione specializzata di facoltà e bisogni innati; è un processo che si basa, anzitutto, sull’apprendimento culturale. Emerge nel libro un’attenzione acuta dello studioso verso un sistema più ragionato e equilibrato, che trova un esempio e un punto di riferimento per l’applicazione teatrale nel pensiero di Kirsten Hastrup. Per l’antropologa si tratta di esaminare il «modo in cui la cultura è assorbita mediante il corpo», poiché l’apprendimento e la trasmissione del sapere si trasmette mediante la fisicità, prima che con le parole, mentre le conoscenze sono collegabili all’esperienza.
Nella seconda parte, Tra rito e teatro: due esperienze chiave dal Novecento teatrale, si passano al vaglio del pensiero critico due straordinarie presenze sceniche, quella di Antonin Artaud e quella di Jerzy Grotowski. Anche stavolta si tratta di provare a risolvere alcuni dubbi, relativi alla chiusura della prefazione de Il teatro e il suo doppio di Artaud, legata all’immagine dei «condannati al rogo che fanno segni attraverso le fiamme». Nel finale della Danza del Peyotl Artaud recupera il nesso con altri suoi testi coevi per marcare il collegamento che potrebbe esserci tra l’esperienza del fuoco del peyotl, vissuta in prima persona, con la linea dei veggenti, di coloro che hanno saputo intravvedere le rivelazioni dell’essere; e richiama i nomi di Gérard de Nerval, Poe, Lautréamont, Van Gogh, Nietzsche. È rilevante, secondo lo studioso, mettere ordine nelle cronologie, nella datazione delle meditazioni artaudiane, cercando di aggiustare, prima di tutto, la sequenza dei fatti accaduti fra gli anni Trenta e i Quaranta, per intendere quale sia la materia che si agita nel «buco nero» del 1937, e ancora negli anni bui, quando Artaud elabora il rifiuto radicale dell’identità.
De Marinis indica il filo rosso e la chiave d’accesso al mistero della folgorazione nel viaggio di Artaud in Messico, connesso agli scritti successivi, i soli in grado di chiarire l’effettiva prova a cui si sottopone Artaud nel paese dei Tarahumara; tanto più che si tratta di un autentico, innegabile viaggio teatrale verso l’essenzialità del rito, considerato come un doppio movimento di disgiunzione e ricongiunzione. Emerge un incredibile garbuglio che circonda «una galassia testuale e tre libri mancati», dagli appunti «rivoluzionari» sulla nativa civiltà messicana al complesso resoconto della traversata tra i segni del paesaggio incantato, per approdare, quindi, all’immersione nella sfera dei riti, quelli del Peyotl, del Tutuguri, il Sole nero, e dei Re dell’Atlantide. Gli scritti sul Messico e sui Tarahumara costituiscono per De Marinis il punto di forza della visionarietà di Artaud, che investe una molteplicità di aspetti relazionali sul versante Oriente/Occidente. È proprio il sogno messicano a determinare le varie fasi della ricerca impossibile, in cui l’idea di magia e quella di teatro si influenzano e si commisurano come i poli di un procedimento estremo.
Le tre tappe delle scritture di Artaud, dal 1936 al 1947, evidenziano il pensiero di un maestro che si libera dai condizionamenti mentali antireligiosi e approda al rito come liberazione soggettiva di una «sanguinosa esperienza» all’insegna del sole, del fuoco e del sangue. L’analisi di De Marinis investe l’ultima fase del teatro della crudeltà, nella quale attraverso un irreversibile lavoro d’indagine sopra se stesso Artaud approda a un teatro che è fuori del tempo e dello spazio, che si avvera nell’uomo attraverso la sua ribellione e l’auto-generazione.
La stessa attenta esplorazione riguarda il pensiero e l’azione di Grotowski: ancora una volta Marco De Marinis aggiusta le incongruenze di alcune valutazioni irrigidite nel cronachismo. Dopo il 1970 per il maestro polacco si tratta di rivendicare l’utilità dello stare nel teatro, sottoponendo la teoria al pragmatismo del fare. Vari equivoci e falsi problemi procedono dal fatto che le carte del corso romano del 1982 non siano state ancora esaminate a fondo. L’acutezza delle considerazioni dello studioso emergono dal fatto che Grotowski esamini la cognizione di teatro rituale con la lente di un triplice fallimento: quello della ricerca di un’effettiva partecipazione dello spettatore; quello della «riattivazione» degli archetipi del mito nell’inconscio collettivo mediante uno sviluppo dialettico; quello dell’approdo a un linguaggio scenico artificiale impostato sulla codificazione di segni fissi, alla stregua dei teatri asiatici.
Per tale via il libro approda alla definizione di un Grotowski scienziato di un rituale tripolare (pienezza del vivente, dominanza dell’aspetto simbolico, inizio del teatro/fine del rituale); il maestro non è un mistico, ma piuttosto un artefice dell’iniziazione che, sulla scia del sistema Stanislavskij, assume la scienza del «secondo cervello», collocato nella pancia, e la teoria dei neuroni a specchio che è applicabile alla relazione attore/spettatore. Grotowski risulta estraneo all’antropologismo, mentre è attento alla riattivazione del corpo-memoria, che si proietta verso il centro biologico-vitale dell’individuo.
Nella terza parte, Teatro e alterità: prospettive pluridisciplinari, s’affronta il tema del teatro come lavoro autoriflessivo dell’individuo su se stesso, un atto speculare alla consapevolezza dell’altro. Il teatro è, infatti, un processo di allenamento per intendere la duplicità culturale, è il riconoscere che, come dice Rimbaud, «io è un altro», che nel soggettivo s’intravede già il differente o il folle. Torna la triplicazione della traccia tematica nel riferimento a tre casi esemplari (utili per una dedica), Antonin Artaud, Robert Wilson e Giuliano Scabia, altrettanti episodi della capacità d’ascoltare l’altro. Il discorso di De Marinis diventa più specifico: coniuga teatro e disagio, teatro e diversità; allinea tanti episodi teatrali di «alta qualità artistica». Non manca di sottolineare la distinzione fra l’azione del teatro terapeutico e la terapia teatrale.
La figura di Jerzy Grotowski, presenza centrale nella teatralità novecentesca, riaffiora nel quadro analitico del volume per ribadire la funzione terapeutica del lavoro su se stessi, «oltre lo spettacolo», come mezzo, non come fine, per far crescere culturalmente il discorso sul disagio e sulla diversità. Il regista polacco esalta l’importanza di guardare la vita come «avventura», mentre la scelta della scena è da collegare al rigore con cui si guarda all’individuo come a «un territorio d’attraversare», non un valore a se stante. E ancora, si leggono pagine dense di riflessioni attive nel dibattito sulla natura esperienziale del teatro. De Marinis ribadisce la via dell’interferenza benefica tra l’antropologia e le performing arts, che in Italia poggia sugli studi di un nucleo solido di ricercatori.
Si tratta, infatti, di mutare ottica nell’approccio con le teorie sul rituale, considerando la complessità dei fenomeni con la lente delle discipline bio-antropologiche (il riferimento è al concetto di «corpo, cervello, cultura» secondo Victor Turner) e delle neuroscienze. Oppure, tra le tantissime indicazioni metodologiche, si esaminano le antinomie del pensiero di Jean-Marie Pradier e dell’etnoscenologia, come sintesi fra evoluzione biologica e bisogni innati. Così si mettono in discussione le tesi estetiche seguendo i paradigmi sul nesso «parola-corpo» da Artaud a Scabia, fino a Roland Barthes. E, infine, il cerchio si completa con le tesi sul teatro-libro e sul teatro senza spettacolo, come ricerca del punto limite dell’esperienza teatrale.
Il libro di Marco De Marinis ha il pregio di sciogliere in modo coerente e libero molti dubbi che hanno bloccato finora le riflessioni sulla scena contemporanea su posizioni fideistiche; è un libro utile perché aiuta a identificare nel concetto di alterità la funzione di uno spettatore-ospite, in grado di ritrovare nel linguaggio teatrale uno stimolo per cogliere il senso degli avvenimenti e della partecipazione.