di Giulia Baselica
Romolo Giovanni Capuano, 111 errori di traduzione che hanno cambiato il mondo, Stampa Alternativa / Nuovi Equilibri, Viterbo 2013, pp.232, € 15
Forse la vera conseguenza della maledizione di Babele non fu la temporanea incomprensione tra gli uomini. Confondendo la lingua di tutta la terra la divinità condannò gli esseri umani a una pena ben più terribile: l’eterna illusorietà, a sua volta generata da un atto tipicamente umano, l’errore, nella sua specifica accezione di “errore di traduzione”.
Il complesso, colossale edificio della civiltà occidentale – le cui fondamenta vennero gettate dai popoli della Mesopotamia, i quali diedero la scrittura e resero possibile la traduzione – con i suoi numerosissimi corpi, in apparenza indipendenti l’uno dall’altro, in realtà spesso insospettabilmente tra loro comunicanti mediante passaggi segreti, porte nascoste, sotterranei labirintici – potrebbe non essere quale esso ci appare. Ciò che crediamo di conoscere in virtù della preziosa eredità trasmessa dalla testimonianza scritta ha, in effetti, una fisionomia diversa, inesorabilmente occultata dagli errori di traduzione commessi nel corso del tempo. Non solo: la Storia stessa, con le sue vicende, le sue svolte, gli esiti da queste derivati, il dialogo tra i popoli, talvolta tragicamente mancati, parrebbe aver seguito certi percorsi e non altri a causa di errori di traduzione non riconosciuti, quindi non emendati, oppure emendati troppo tardi.
A tali riflessioni può dar luogo questa dilettevole antologia di errori di traduzione, compilata da Romolo Giovanni Capuano sulla base di un’estesa ricerca, documentata dai riferimenti bibliografici e sitografici puntualmente riportati al termine di ogni resoconto.
Quasi un terzo dei centoundici errori presentati al lettore riguardano la traduzione della Bibbia. Giuseppe, per esempio, ci rivela Capuano, potrebbe non essere stato un semplice falegname, bensì un erudito: «la parola “falegname” traduce il greco téktón, che a sua volta si sovrappone all’aramaico naggar. Sfogliando dei buoni dizionari, ci si rende conto che, in entrambi i casi, i significati possibili sono molteplici e non si limitano a “falegname”». Se téktón assume l’accezione di “autore” e “creatore’, naggar, precisa l’Autore, significa propriamente “maestro”, “erudito”, “sapiente”.
Un’attenta revisione delle traduzioni della Bibbia induce a sollevare dubbi sull’origine di Eva e sulla crocifissione di Gesù. Molto probabilmente Mosè non attraversò il Mar Rosso, il Nazareno non era di Nazareth e la Sindone non era un lenzuolo. Altri errori comprometterebbero, addirittura, l’impianto etico e dottrinario del Libro: interessante è, in merito, la riflessione sulla traduzione del verbo ebraico chamad con l’italiano “desiderare”, e sulle conseguenti, interessanti implicazioni connesse con i comandamenti che proibiscono il desiderio.
I rilievi di Capuano, espressi in uno stile vivace e in tono ironico, richiamano le lucide considerazioni relative ai Vangeli, formulate da Bart D. Ehrman in Gesù non l’ha mai detto. Millecinquecento anni di errori e manipolazioni nella traduzione dei Vangeli (Mondadori, Milano, 2007, traduzione dall’americano di Francesca Ginelli):
Non soltanto non abbiamo gli originali, ma non siamo neppure in possesso delle loro prime copie. Anzi, non abbiamo nemmeno le copie delle copie, e neppure le copie delle copie delle copie. Quello che possediamo sono copie eseguite più tardi, molto più tardi. Nella maggior parte dei casi diversi secoli dopo. E le copie sono tutte differenti una dall’altra, in migliaia di punti.
Gli errori, dunque, si sommano e si sovrappongono all’infinito.
Capuano parla, inoltre, di «millenari errori filosofici», proponendo il caso dell’àpeiron di Anassimandro; di tragici errori storici come quello dell’interpretazione del concetto giapponese di mokusatu, a causa della quale «la storia del Giappone sarebbe stata sicuramente diversa»; di erronee, tragiche o comiche interpretazioni attribuite a discorsi ufficiali pronunciati o scritti da capi di stato e importanti uomini politici di ogni epoca e di ogni paese; di errori di traduzione contenuti in opere letterarie di varia levatura e importanza: il lucchetto di Harry Potter, per esempio, è in realtà un medaglione; il goethiano Re degli ontani governa, invece, gli elfi; la montagna di Mann, com’è noto, non è incantata, bensì magica. E tuttavia, forse proprio in letteratura, per dirla con Viktor Šklovskij, l’errore possiede una sua energia: sia di conforto per i traduttori editoriali la riflessione dell’Autore stesso, traduttore anch’egli:
Gli errori di traduzione in letteratura si sprecano. È verosimile affermare che non esiste un solo libro tradotto che non presenti almeno un’imperfezione, una svista, o un classico caso di fischi per fiaschi. Un errore di traduzione può decretare la fine della carriera lavorativa del traduttore disattento (o incompetente) che lo ha compiuto ed essere oggetto di articolate considerazioni critiche da parte di colleghi, traduttologi e analisti del linguaggio. Interi libri sono stati scritti su come si sarebbe dovuto tradurre quel particolare brano (o parola) di quel particolare romanzo e convegni morbosi decidono che cosa debba intendersi con la parola traduzione in letteratura.
Tutto questo è risaputo. Ma è altrettanto noto che la maggior parte degli errori, a meno che non siano particolarmente gravi o sistematici, non intaccano il piacere del lettore medio che al più scrollerà le spalle e continuerà a leggere senza esserne scosso più di tanto.
L’importante è, possiamo forse aggiungere, che il traduttore comprenda l’anima dell’opera originale, che ne riconosca il tono e che individui, nella traduzione, il registro adeguato.