UN PROGETTO EDITORIALE DAL PUNTO DI VISTA DELL’EDITOR
di Mariarosa Bricchi
I libri, di solito, non sono perfetti, e cercare libri belli per mestiere espone a sistematiche delusioni, e all’esercizio del patteggiamento. Alla fine, ogni libro che si sceglie di pubblicare è un’approssimazione al libro ideale – che non esiste, o è Guerra e pace. Pubblicare un libro è, per l’editor, un modo di riconoscere l’inatteso, il diverso, una scheggia di incanto. Poi, a posteriori, le approssimazioni si connettono, svelano i rapporti segreti che avevano guidato la scelta, e si ordinano in un disegno. Per Calabuig, il disegno ha a che fare con le varietà della lontananza. Questo testo racconta le intenzioni, la storia, le regole (sempre provvisorie) di un progetto editoriale.
Il gestore di un vecchio albergo nel cuore dell’Anatolia, un fabbricante di pianoforti di Sydney, un cameriere parigino; uno scrittore in crisi a Montevideo; zie, fratelli e cugini della provincia argentina; una vecchina che, all’aeroporto di Tehran, trascina una borsa stracolma di frutti di melograno e chiede a tutti «Dov’è la Svezia?»; una donna come tante, nell’appartamento troppo ingombro di un condomino del Cairo; un giovanotto un po’ sospetto, proiezionista in una cinema a Tokyo; un professore di Harvard che si innamora di una studentessa.
E. M. Forster aveva immaginato i suoi scrittori riuniti in una stanza circolare, magari la sala di lettura del British Museum. Nella mia personale riunione, non di scrittori ma di personaggi immaginari, le direzioni della distanza si moltiplicano. Time is to be our enemy, scriveva Forster: il nostro avversario è il tempo. L’incontro di Zebercet e Frank Delage, Pierrot e Anar, Zhat, Onuma e Merriwether sfida anche lo spazio, perché ciascuno di loro arriva da lontano; e da lontananze diverse.
L’idea di una geografia aperta e percorribile è all’origine di Calabuig, un marchio editoriale di Jaca Book nato nell’ottobre 2014. Il nome Calabuig è, prima di tutto, puro suono: una parola bizzarra ed evocativa che apre la porta ai suoni delle tante lingue degli autori che Calabuig pubblica. Detto questo, l’idea del nome è arrivata dal titolo di un film degli anni cinquanta del regista spagnolo Luis Garcia Berlanga, scritto da Ennio Flaiano. Nel film, Calabuig è un paesino sperduto sulla costa catalana: uno strano piccolo paradiso, un altrove e un rifugio, come qualche volta sono i libri. Alla domanda di Seamus Heany Where it can be found again / An elsewhere world, beyond / Maps and atlases, / Where all is wowen into / And of itself, like a nest (che Luca Guerneri traduce «Dove poterlo ritrovare, / un mondo altrove, oltre / carte e atlanti, / dove tutto è tessuto a sé / e di se stesso, come un nido?») vorrei rispondere che quel nido sempre altrove, collocato in una geografia non tracciata da mappe e atlanti, possono essere i romanzi. Quando Sante Bagnoli e Vera Minazzi, gli editori di Jaca Book, mi hanno chiesto di impostare una nuova serie di narrativa letteraria, ci è piaciuta l’idea che la letteratura, come la lettura, è per definizione vagabonda. E abbiamo pensato di allargare la mappa. Di uscire dai confini dello spazio narrativo più battuto, e di guardare lontano. Dunque Calabuig pubblica romanzi e racconti, di oggi o del passato recente, che arrivano da tanti paesi diversi: riunisce, attorno a un tavolo immaginario, personaggi che parlano molte lingue, e hanno provenienze variopinte, come le loro storie.
C’era un precedente. Tra il 2005 e il 2007, quando lavoravo alla BUR, avevo lanciato una collana, «Scrittori contemporanei original», che si misurava con la distanza nel tempo. Il problema, allora, era stato come innestare delle novità nel sistema glorioso e un po’ ingrigito dei classici BUR. La risposta che avevo trovato era pubblicare autori mai tradotti prima in italiano, sfuggiti per avventura alle maglie dello scouting, senza preoccuparmi della loro collocazione cronologica: libri usciti da poco o da qualche decennio avrebbero convissuto in una collana che aveva, come regola di accesso, solo la qualità della scrittura e il piacere di leggere. La moda delle riscoperte non era ancora esplosa. E io mi ero ritrovata di fronte a un mare pescoso. Il primo libro, il romanzo breve La visitatrice di Maeve Brennan, aveva avuto consensi critici, e vendite, superiori a ogni attesa, e aveva spianato la strada alle uscite successive: i racconti di Mavis Gallant;il primo romanzo di James Salter apparso in italiano, Un gioco e un passatempo; Charles Simmons, il Acqua di mare aveva conquistato, per un paio di settimane, la lista dei bestseller. Libri e autori, tutti, nuovissimi per il pubblico italiano, ma ben noti nei loro paesi d’origine, e spesso già tradotti in diverse lingue. E libri scritti da autori che erano, ormai, vecchi signori. Due di loro li ho incontrati: Mavis a Parigi, in poche occasioni abbastanza indimenticabili; Simmons a New York, e abbiamo fatto lunghe chiacchierate al suo club, nel mio studio alla Columbia University, nelle case di amici.
Ma fin da subito, c’era stata la voglia di andare oltre il mondo, per me di più agevole accesso, degli autori anglofoni. Ed erano arrivati La storia del giogo d’oro di Zhang Ailing, la scrittrice della Shanghai anni quaranta alla quale, un paio d’anni dopo si sarebbe ispirato Ang Lee per il film Lussuria; poi La casa vuota di uno dei classici olandesi del Novecento, Willem Frederik Hermans; e ancora L’uomo del silenzio di Antonio Di Benedetto, scrittore argentino dimenticato per anni e rilanciato in America Latina proprio in quel periodo da un editore di cui ammiravo il catalogo.
Lavorare agli Original mi aveva insegnato a passeggiare nel tempo e nello spazio come in una biblioteca accessibile; a cercare i libri che mi piacevano anche se non erano quelli, appena usciti, che tutti gli editori inseguivano; e a guardare lontano. Avevo provato il piacere delle scoperte. Leggere un romanzo, stupirsi, riconoscerne l’energia, indagare sull’autore, sulla letteratura da cui proviene, decidere di pubblicarlo è una bella febbre, che contiene tutto il piccolo incanto del lavoro editoriale. Mi ero data delle regole. La prima: individuare lettori di cui mi fidavo e ascoltarne il parere, ma non pubblicare niente che non potessi leggere io stessa, se non nella lingua originale, almeno nella traduzione in una lingua che capivo. La ricerca di queste traduzioni era stata spesso avventurosa. Però mi ero convinta che era una condizione non solo vitale, ma possibile.
Dunque, pubblicare solo i libri di cui riconoscevo la qualità è stata la semplice contrainte che ho portato con me, e un ponte tra gli Original BUR e Calabuig. Il mio rapporto con la lontananza, invece, è un po’ cambiato. Con gli Original, era stata soprattutto lontananza nel tempo, Calabuig dialoga con lo spazio: è un’occasione per sconfiggere la miopia, un modo di guardare a distanza. Un’attitudine, questa, essenziale all’identità di Jaca Book, che ha pubblicato, nei decenni, soprattutto saggistica, ma che ha saputo scegliere, con le sue incursioni nella narrativa, scrittori oggi riconosciuti come grandi rappresentanti di culture lontane, come Ngũgĩ Wa Thiongo, Chinua Achebe, Wole Soynka, Édouard Glissant. Insomma, le varietà della lontananza si addicevano a Jaca Book. E Vera Minazzi e Sante Bagnoli, gli editori, hanno avuto il coraggio non ovvio di continuare anche in questa direzione un’avventura che Sante aveva iniziato cinquant’anni fa, e che è fatta, oggi, di letture condivise, e di confronto costante sul valore dei singoli libri e del progetto.
Solidali con la nostra voglia di lontananza sono state, paradossalmente, alcune delle storie pubblicate in Calabuig. Quelle dell’iraniana Goli Taraghi, per esempio, che vive da anni in esilio a Parigi: i suoi racconti scaturiscono dall’abbandono; e sanno trasformare lo spaesamento in una scrittura dove l’ironia vince sulla tristezza. Ma spaesamento è anche quello del protagonista del Viaggio di Murray Bail: Frank Delage, approdato da Sydney a Vienna, incontra un altrove ostile e incantatore, cui il flusso ipnotico della prosa restituisce palpabile intensità. Ancora, parlano di straniamento le distrazioni, gli inciampi, le fantasie errabonde di un personaggio dal mondo mentale lussuosamente bizzarro, l’io narrante del Romanzo luminoso di Mario Levrero; e la follia di Zebercet in Hotel Madrepatria di Yusuf Atilgan è il ritratto potente di una progressiva, feroce alienazione.
È stata un’esperienza curiosa: leggevo autori lontani dalla mia cultura, e loro raccontavano storie di personaggi spaesati; credevo che, perdendo di vista il mio campanile, avrei provato fitte di perturbamento, e quei personaggi, a loro volta, sperimentavano l’estraneità, da se stessi o dal mondo fuori di loro. Ci sono stati, naturalmente, anche i riconoscimenti. Nei silenzi, nella densità delle pagine dell’argentina Hebe Uhart trovo una scheggia di quello che ho imparato a riconoscere come un marchio di qualità nella narrativa breve, a ogni latitudine: i grandi racconti si fondano sul non detto, danzano attorno a un mistero; o, come ha scritto Ricardo Piglia, contengono due storie, una in primo piano e una segreta. All’altro capo del mondo, l’egiziano Sonallah Ibrahim racconta la vita quotidiana di Zhat, un’eroina senza qualità. Che è immersa fino al collo nel suo mondo, accerchiata da un quartiere, una città, una folla di personaggi mossi da abitudini, tradizioni che mi sono estranee. Ma, nella sua ostinata medietà, nei suoi sogni spavaldi e nei suoi fallimenti, Zhat è amica e vicina, partecipe di tratti così teneramente umani da sfidare la lontananza. E consegna la lettura a quell’esperienza, tra stupore e riconoscimento, che le è profondamente essenziale. E poi, c’è stata qualche incursione in retromarcia. Che riposo, dopo piaceri più complicati, sentire il profumo della pioggia grigia, la malinconia luminosa della banlieu parigina in autunno nel romanzo breve di Dominque Fabre; o abbandonarsi all’inglese colto e ironico, all’intelligenza tagliente dei personaggi dell’americano Richard Stern.
La lontananza è uno scenario tanto vasto da ridimensionare alcune ambizioni: Calabuig non coltiva nessuna idea di completezza; e nessuna idea di genealogia. Ricostruire nessi e linee di un singolo panorama letterario è un’impresa editorialmente possibile; non lo è – o eccede le mie forze – farlo per tanti panorami, di paesi e lingue diversi. Così le regole del gioco si ridefiniscono: non penso che il mio lavoro sia restituire scorci significativi di una certa cultura, né un quadro panoramico dei suoi valori consacrati, ma proporre singole scoperte; non punto a colmare tutte le caselle, ma mi concentro sulle caselle che accade di riempire, assegnando a ogni singolo libro un primo piano che deriva solo dal suo valore letterario. Il concetto di sistema non cade, ma si ridisegna in modo diverso; si fonda su affinità più sotterranee, e personali, che non l’omogeneità linguistica o culturale. Calabuig è un insieme cui presiede l’idea di frammento, di mobilità, di separazione.
Anche per questo aspetto, credo che la mia esperienza sia diversa, e complementare, rispetto a quella dei traduttori. Alcuni di loro conoscono bene, oltre alla lingua, la letteratura dei paesi che la parlano. Possiedono, insomma, quel contesto che la scelta frammentaria di Calabuig mi permette di non inseguire. Un contesto, però, che balza in primo piano nel momento in cui un libro ci interessa: allora le conoscenze, le opinioni e le indicazioni bibliografiche dei traduttori sono preziose. In alcuni casi, poi, le segnalazioni dei traduttori, accompagnate dalla loro appassionata autorevolezza, sono diventate libri. Voglio citare i due romanzi Calabuig, a oggi pubblicati, che ci sono stati suggeriti dai rispettivi traduttori: Le stagioni di Zhat di Sonallah Ibrahim e Il proiezionista di Abe Kazushige. Entrambi i traduttori, Elisabetta Bartuli per l’arabo e Gianluca Coci per il giapponese, hanno fatto diverse proposte. Abbiamo letto quei libri, in versioni inglesi o francesi; ne abbiamo discusso, con loro e in casa editrice. Dei due traduttori (traduttori-studiosi, in realtà) ho ammirato, oltre alla qualità delle competenze, la consapevolezza che non ogni libro è adatto a ogni editore, e la voglia di mettersi in gioco anche su questo aspetto.
«Chi parla un’altra lingua è lo straniero per definizione, l’estraneo, lo “strano”, il diverso da me, e il diverso è un nemico potenziale», ha scritto Primo Levi, mostrando con chiarezza vertiginosa come i ponti che le traduzioni costruiscono siano un modo di rendere meno estraneo chi è straniero. E questo è uno dei compiti dell’editore: trovare libri estranei, diversi, capaci di moltiplicare l’esperienza di chi legge. Spetterà poi a questi libri scavare un proprio percorso dentro la cultura che li accoglie, e diventare familiari. Penso dunque a Calabuig come a uno dei modi per diminuire la stranezza dello straniero.
Navigare nel mare aperto della narrativa del mondo significa naturalmente incontrare livelli diversi di estraneità. E riconoscere un ventaglio di processi di adattamento: decolonizzare la mente, scrivere da paesi in passato poco presenti sulla scena letteraria globale senza addomesticare lingua e vicende alle attese dei lettori europei o americani è, per gli scrittori, una scelta difficile. Dal punto di vista di un editore letterario la ricerca dell’antistereotipo, dell’autenticità linguistica e culturale è certo una strada attraente. Non credo, però, che la qualità letteraria abiti solo in quella direzione. Contaminazioni, bilinguismi e stratificazioni sono un aspetto importante della narrativa di oggi e di sempre; e il filtro di una cultura occidentalizzata non produce di necessità una resa debole di mondi lontani: piuttosto, una resa ibridata. Se penso agli autori Calabuig, riconosco la familiarità di Goli Taraghi al mondo europeo e americano (Goli, prima di trasferirsi a Parigi, ha studiato, da ragazza, negli Stati Uniti). Ma proprio la convivenza, non pacifica, di sguardi tanto diversi non si è trasformata in un appiattimento ad uso globale del suo paese, l’Iran; piuttosto nello strumento per raccontare un’avventura, tutta personale, tra geografia e nostalgia. Diverso è il caso di un classico contemporaneo, Yusuf Atilgan, il pioniere del romanzo moderno in Turchia, di cui Calabuig ha acquisito due romanzi, e pubblicato il secondo, Hotel Madrepatria. Atilgan ha assimilato la lezione stilistica del modernismo, ha eletto Faulkner suo maestro, ha studiato all’Università di Istanbul solo pochi anni dopo che l’insegnamento di Leo Spitzer aveva aperto nuovi legami con la cultura letteraria europea. Ma la direzione della sua ricerca va dall’occidente verso la Turchia; il pubblico a cui si rivolgeva era quello del suo paese; i suoi bellissimi romanzi sono certo Weltliteratur, ma quanto di più estraneo a quella che oggi chiamiamo global literature: sono diversi e, forse, all’inizio, difficili; certo, importanti per accostare non solo il presente, ma le radici del presente. Ecco, credo che Goli Taraghi e Yusuf Atilgan rappresentino due modi di avvicinarsi alla lontananza: due modi che concorrono a creare l’identità di Calabuig.
Quando pubblica un libro, l’editore continua il processo di mediazione che ha avuto il suo avvio e (per me) il suo culmine nella scelta. Tutto il lavoro che facciamo in casa editrice è dunque un modo per avvicinare i romanzi e i racconti che escono in Calabuig ai loro nuovi lettori. Leonardo Sciascia scriveva di ammirare i libri costruiti «a regola di abitabilità». Lui pensava alla sapienza artigianale dello scrittore; io trasferisco il concetto di abitabilità al processo editoriale che, prendendosi cura della realizzazione del libro (dall’impaginazione ai paratesti), e della sua lingua (editing e redazione), lo consegna al lettore in forma, appunto, abitabile.
Una delle etichette più usate negli studi di storia dell’editoria è quella di editore protagonista. Per me il protagonismo dell’editore, o dell’editor, sta nei modi del suo lavoro sui testi e per i testi. L’editor fa, tra le tante, tre cose che hanno a che fare con questa forma di protagonismo subacqueo: sceglie i libri; è il responsabile finale (altrettanto, ma diversamente, rispetto al traduttore) della lingua in cui i libri appaiono; ne firma gli aspetti paratestuali.
Dopo la scelta, il lavoro sul testo è una parte importante del progetto editoriale di Calabuig. I libri sono affidati a traduttori di qualità (il cui nome compare in copertina); sono quindi sottoposti a un editing attento; e vengono presentati con paratesti concepiti e come un servizio per i lettori e come un’assunzione di responsabilità della scelta da parte dell’editore.
L’editing è un processo scivoloso. Complicato, in questo caso, dal fatto che, quando non conosco la lingua di partenza, il mio lavoro è tutto sull’italiano: è un lavoro di verifica dell’appropriatezza, dell’efficacia, dell’energia della lingua di arrivo. E implica un confronto, forse, ancora più serrato, coi traduttori, che spesso interrogo, ostinatamente, sul registro linguistico o sull’architettura dei periodi del testo originale, specialmente quando mi pare di notare uno scollamento tra la traduzione italiana e quella, in una terza lingua, che io utilizzo come appoggio.
Gli interventi redazionali possono avere un certo grado di neutralità (il massimo: correggere un refuso o un palese errore di interpretazione). Ma sono raramente innocenti. Tanto meno quando agiscono su zone sensibili come l’adozione del registro linguistico, e le scelte di stile: zone che, anche in presenza della guida imperativa del testo originale, partecipano del gusto, del modo stesso di interpretare un libro e di guardare il mondo di chi traduce. Spesso, la correttezza non è arroccata da una parte o dall’altra. L’editor può suggerire una scelta alternativa, che ritiene meglio aderente alla lingua di partenza o più scattante in quella d’arrivo; può sostenerla con argomenti grammaticali, come l’uso prevalente, la tradizione normativa e letteraria italiana, gli esempi; con argomenti pragmatici, come l’esigenza di chiarire o l’opportunità di sfumare. Ma non imporla. E si apre lo spazio della negoziazione. Lavorare sulla lingua dei traduttori mi propone ogni giorno un confronto tra la lingua degli altri e la mia. In molti dei miei suggerimenti di intervento, ormai lo riconosco bene, c’è un denominatore comune, ed è questo modello – personalissimo, impastato di gusto, di insofferenze private, di letture, di consapevolezza linguistica, e di mille altre cose – che ho spesso proposto ai traduttori. Sperimentandone, nel confronto con loro, la plasticità o la durezza; l’efficacia o i limiti.
E, infine, ci sono i paratesti: le copertine, affidate al gusto e agli interessi figurativi di Vera Minazzi, che ha scelto di illustrare ogni volume con un’immagine di street art del paese da cui anche il testo proviene; e le Notizie sugli autori che accompagnano molti dei libri Calabuig. Sono poche pagine finali, pensate per offrire una chiave, e una serie di informazioni sugli autori meno facili da inquadrare, sul loro mondo, sulla loro fortuna. Si affiancano, approfondendoli, ai dati in seconda, terza e quarta di copertina. Le Notizie non sono una presentazione critica, piuttosto un servizio. E hanno anche un altro ruolo: sono il momento in cui chi ha deciso di pubblicare il libro parla al lettore, ripercorre i motivi di una scelta, condivide parte del suo percorso di avvicinamento. Non, dunque, esercizio di interpretazione, o lettura accademicamente atteggiata, ma le ragioni dell’editor: i testi li scrivo io anche se, per eccesso di protagonismo, ho deciso di non firmarli.
Riferimenti bibliografici
E.M. Forster immagina la sua riunione di scrittori nell’introduzione ad Aspects of the Novel (1927). Traduzione italiana di Corrado Pavolini, Aspetti del romanzo,Prefazione di Giuseppe Pontiggia, Milano, Garzanti, 20113 (1^ edizione: Milano, Il Saggiatore, 1963).
La poesia di Seamus Heany A Herbal l’ho letta per la prima volta nel saggio di Susanna Basso Una privata geologia linguistica, in «tradurre», 6 (primavera 2014). La traduzione di Guerneri è in Catena umana, Milano, Mondadori, 2011.
I libri BUR Original che ho citato sono stati tradotti da: Ada Arduini, 2005 (Maeve Brennan, The Visitor, Washington, Counterpoint, 2000); Giovanna Scocchera, 2006 (Mavis Gallant, The Selected Stories, Toronto, McClelland & Stuart, 1996); Delfina Vezzoli, 2006 (James Salter, A Sport and a Pastime, New York, Doubleday, 1967); Massimo Bocchiola, 2007 (Charles Simmons, Salt Water, San Francisco, Chronicle Books, 1998); Alessandra Lavagnino, 2006 (Zhang Ailing, Jin suo ji, 1943); Laura Pignatti, 2005 (Willem Frederik Hermans, Het behouden huis, Amsterdam, De Bezige Bij, 1951); Maria Nicola, 2006 (Antonio Di Benedetto, El silenciero, Buenos Aires, Troquel, 1964).
L’idea del racconto segreto è nel saggio di Ricardo Piglia Tesis sobre el cuento, in Formas breves, Debolsillo, Barcelona, 2000.
Le riflessioni di Primo Levi sono nel saggio Tradurre ed essere tradotti, apparso su «La Stampa» il 5 novembre 1980. Le ha recentemente riprese Domenico Scarpa in Leggere in italiano, ricopiare in inglese, in Ann Goldstein e Domenico Scarpa, In un’altra lingua. In another language, Lezioni Primo Levi, Einaudi, Torino, 2015.
Decolonizzare la mente (Decolonising the Mind, London, J. Currey, 1986) è il titolo del libro di Ngũgĩ Wa Thiongo dove l’autore ricostruisce la genesi della sua decisione di non scrivere più nell’inglese dei colonizzatori, ma nella sua lingua madre, il gikuyu (Decolonizzare la mente. La politica della lingua nella letteratura africana, traduzione di Maria Teresa Carbone, Milano, Jaca Book, 2015: vedi in questo stesso numero di «tradurre» il saggio di Sara Amorosini).
La metafora dei libri abitabili, ben costruiti come deve essere una casa, è nel saggio di Sciascia L’ignoto marinaio, in Leonardo Sciascia, Cruciverba, Torino, Einaudi, 1983.
Di revisione editoriale, e del rapporto tra la lingua del traduttore e quella dell’editor, ho scritto in Mariarosa Bricchi, Congiuntivite e scrupoli editoriali, in Editori e filologi. Per una filologia editoriale, a cura di Paola Italia e Giorgio Pinotti, in «Studi (e testi) italiani», 33, 2014.
Il sito Calabuig è www.calabuig.it.
Questo è l’elenco dei libri Calabuig già pubblicati, e di quelli in lavorazione al momento della stesura di questo testo (si cita la prima edizione)
2014
Mario Levrero, Il romanzo luminoso, traduzione dallo spagnolo (Uruguay) di Maria Nicola, da La novela luminosa, Montevideo, Alfaguara, 2005
2015
Dominique Fabre, La cameriera era nuova, traduzione dal francese di Yasmina Melaouah, da La serveuse était nouvelle, Paris, Fayard, 2005
Yusuf Atilgan, Hotel Madrepatria, traduzione dal turco di Rosita D’Amora e Şemsa Gezgin, da Anayurt Oteli, Ankara, Bilgi, 1973
Hebe Uhart, Traslochi, traduzione dalla spagnolo (Argentina) di Maria Nicola, da Mudanzas, Buenos Aires, Bajo la luna, 1995
Murray Bail, Il viaggio, traduzione dall’inglese (Australia) di Ada Arduini, da The Voyage, Melbourne, Text Publishing, 2012
Sonallah Ibrahim, Le stagioni di Zhat, traduzione dall’arabo (Egitto) di Elisabetta Bartuli, da Dhat, Il Cairo, Dar al-Mustagbal al-‘arabi, 1992
Abe Kazushige, Il proiezionista, traduzione dal giapponese di Gianluca Coci, da Indivijuaru purojekushon, Tokyo, Shinchousha, 1997
Richard Stern, Le figlie degli altri, Introduzione di Philip Roth, traduzione dall’inglese (USA) di Vincenzo Mantovani, da The Other Men’s Daughters, Boston, E. P. Dutton, 1973
2016
Ernő Szép, L’odore umano, traduzione dall’ungherese di Giorgio Pressburger, da Emberszag, Budapest, Keresztes, 1945
Qiu Miaojin, Ultime lettere da Montmartre, traduzione dal cinese (Taiwan) di Silvia Pozzi, da Mengmate yishu, Taipei, Lianhe wenxue chubanshe,1996
Roland Buti, A metà dell’orizzonte, traduzione dal francese (Svizzera) di Yasmina Melaouah, da Le milieu de l’horizon, Genève, Zoe, 2013
Mario Levrero, Il discorso vuoto, traduzione dallo spagnolo (Uruguay) di Maria Nicola, da El discurso vacío, Buenos Aires, Interzona, 1996
Hebe Uhart, Racconti, traduzione dallo spagnolo (Argentina) di Maria Nicola, scelta dalle raccolte Del cielo a casa, Buenos Aires, Adriana Hidalgo, 2003 e Turistas, Buenos Aires, Adriana Hidalgo, 2008
Yusuf Atilgan, L’indolente, traduzione dal turco di Rosita D’Amora e Şemsa Gezgin, da Aylak Adam, Istanbul, Varlık, 1959