IL CASO DI MONIQUE WITTIG, TRA ROMANZO E TEORIA
di Silvia Nugara
[L]es pronoms personnels et impersonnels sont le sujet, la matière de tous mes livres. Par ces mêmes mots qui établissent et contrôlent le genre dans le langage, il me semble qu’il est possible de le remettre en question dans son emploi, voire de le rendre caduc. (Wittig 2001, 134-5)
I pronomi personali e impersonali sono l’argomento, la materia di tutti i miei libri. Mi sembra che il genere lo si possa mettere in questione , persino renderlo caduco proprio attraverso queste parole che lo stabiliscono e controllano nel linguaggio. (a eccezione de L’Opoponax, la traduzione dei testi citati è sempre mia)
Così si esprimeva Monique Wittig nel suo saggio La marque du genre, apparso in inglese per la prima volta nel 1985 con il titolo The Mark of Gender prima di essere incluso nella raccolta The Straight Mind and Other Essays e poi, nel 2001, essere tradotto, in parte integrato e riscritto dalla stessa autrice per l’edizione francese del libro. In questo articolo, gli scritti teorici di Wittig saranno citati solo in versione francese per diverse ragioni. In primo luogo, perché in quanto state leggendo ci si propone di riflettere sulle difficoltà poste alla traduzione francese > italiano dal romanzo, L’Opoponax (1964), in cui la scrittrice compie esattamente quello che dichiara nella citazione da cui sono partita: usare il pronome, in particolare l’indefinito on, per rimettere in discussione il genere (gender) e svuotarlo di senso. Le stesure in francese dei saggi teorici di Wittig – ed è la seconda ragione – sono poi le più recenti e aggiornate, esito di un percorso di riflessione che ha permesso all’autrice di aggiungere osservazioni pertinenti per il tema che qui tratteremo. Infine, si tratta di testi il cui statuto non è esattamente quello di una traduzione, sono auto-traduzioni, certo, ma da una lingua straniera verso la madrelingua, come se attraverso di esse l’autrice avesse compiuto un percorso di ritorno a sé, ai “luoghi” da cui aveva deciso di separarsi quando nel 1976 era partita per gli Stati Uniti a seguito di una profonda rottura con le compagne della rivista «Questions Féministes» attorno al nodo lesbismo, eterosessualità e femminismo. Dunque, è interessante situarsi in questo spazio intra-linguistico proprio per non dimenticare che tra la pubblicazione di quel primo romanzo e la messa in circolazione delle riflessioni teoriche trascorrono più di vent’anni. Inoltre, il ritorno alla lingua francese che la scrittrice compie nella versione del 2001 dei suoi saggi è un atto riflessivo sulla lingua, sul linguaggio e sul suo rapporto con la realtà già maturato ne Le Chantier littéraire, tesi di laurea presentata nel 1986 all’École des Hautes Études en Sciences Sociales con relatore Gérard Genette, pubblicata solo nel 2010. Nella prefazione di quel volume, Christine Planté fornisce un’indicazione su come accostarsi agli scritti di Wittig:
Pas plus qu’on ne saurait lire ses romans dissociés d’un combat politique et d’une réflexion théorique, on ne peut comprendre ses prises de position théoriques sans y saisir le travail sur, dans, contre et avec le langage. […] La réflexion de Wittig est une réflexion d’écrivain, parce que pour elle, seul l’écrivain peut se donner pleinement les moyens et le temps de mettre en cause le ‘cela va de soi’ des mots dans leurs usages sociaux. Et parce qu’elle se pense comme écrivain. (Auclerc, Chevalier 2010, 15)
Così come non potremmo leggere i suoi romanzi separandoli da una battaglia politica e da una riflessione teorica, non possiamo capire le sue prese di posizione teoriche senza cogliervi il lavoro sul, nel, contro e con il linguaggio. […] La riflessione di Wittig è una riflessione da scrittrice, perché per lei solo chi scrive può procurarsi appieno gli strumenti e il tempo per mettere in discussione il “va da sé” delle parole nei loro usi sociali. E perché pensa a sé come scrittrice.
Tale indicazione, che ci invita a considerare il nesso tra scrittura e politica in Wittig, deriva dalla possibilità che oggi abbiamo di abbracciare retrospettivamente tutta un’opera e una vita. Tradurre oggi i testi letterari di questa autrice significa tenere conto di tutto il suo corpus, compresi i saggi raccolti ne La pensée straight, che tracciano le coordinate del suo pensiero lesbo-femminista, esplicitano l’orrore che nutriva verso la cosiddetta écriture féminine, esprimono critiche senza appello al femminismo della differenza, al pensiero straight, all’eterosessualità come regime simbolico, politico, economico.
Tuttavia, questo corpus non esisteva ancora nel 1965, quando, a pochi mesi di distanza dalla sua uscita in Francia e dalla vittoria del Prix Médicis, Einaudi decise di tradurre in italiano L’Opoponax. Si tratta di un romanzo sperimentale, che, come scriverà Guido Neri nella scheda di lettura, «vuole avere solo una forma autobiografica, senza una concreta e contingente impronta soggettiva». È la storia di un gruppo di giovani, tra cui quella che potremmo definire la protagonista, Catherine Legrand, e del mondo sensibile scoperto quotidianamente attraverso le giornate a scuola, le scorribande nei campi, i giochi, le liti, i lutti. Tra le sue peculiarità formali si notano: l’uso di un linguaggio descrittivo che riecheggia quella leçon des choses con cui a scuola si impara a dare nomi sempre più precisi agli oggetti del mondo, la presenza di un intertesto fatto di frammenti poetici, letterari, di canzoni con cui si esprime la progressiva acquisizione di una cultura, di un immaginario, di un orizzonte espressivo e, infine, il fatto che l’istanza narrante si esprime per lo più con il pronome impersonale – non marcato dal genere – on, che solo nel finale cede il passo al pronome di prima persona singolare je, per esprimere l’inizio di una soggettivazione individuale e contestualmente l’ingresso in una lingua in cui il sistema nominale è binario: maschile e/o femminile. Ad oggi, la traduzione di Clara Lusignoli, uscita nel maggio del 1966, resta l’unica edita in italiano.
Osservare e considerare le scelte compiute allora per tradurre nella nostra lingua una risorsa come on, fulcro stesso del romanzo e della sua riflessione sulla soggettività, richiede di ricostruire il contesto storico e culturale in cui quell’impresa editoriale si compì.
Un esordio dirompente, tra nouveau roman e prefigurazioni lesbo-femministe
Quando L’Opoponax esce in Francia nel 1964, Marguerite Duras lo accoglie come un capolavoro:
c’est l’exécution capitale de quatre-vingt-dix pour cent des livres qui ont été faits sur l’enfance. C’est la fin d’une certaine littérature et j’en remercie le ciel. C’est un livre à la fois admirable et très important parce qu’il est régi par une règle de fer, jamais enfreinte ou presque jamais, celle de n’utiliser qu’un matériau descriptif pur, et qu’un outil, le langage objectif pur. Ce dernier prend ici tout son sens. Il est celui-là même – mais porté au plain-chant par l’auteur – dont l’enfance se sert pour déblayer et dénombrer son univers. Ce qui revient à dire que mon Opoponax est un chef d’œuvre d’écriture parce qu’il est écrit dans la langue exacte de l’Opoponax. (Duras 1964, 18)
È l’esecuzione capitale del novanta per cento dei libri che si sono scritti sull’infanzia. È la fine di una certa letteratura, e rendo grazie al cielo. È un libro al tempo stesso stupendo e importantissimo, perché si regge su una regola ferrea, mai o quasi mai infranta, cioè quella di usare soltanto un puro materiale descrittivo, e con un solo strumento, il puro linguaggio oggettivo. Il quale assume qui tutto il suo senso. È lo stesso linguaggio – ma trasposto dall’autrice nel canto piano – di cui l’infanzia si serve per censire e passare al setaccio il proprio universo. Il che equivale a dire che L’Opoponax è un capolavoro di scrittura, perché scritto esattamente nella lingua dell’Opoponax.
Sulle pagine di «Le Monde» Jacqueline Piatier spiega che il titolo del libro si riferisce a quanto di misterioso emerge in noi sul limitare estremo dell’infanzia:
Le temps passe dans ce livre, et l’enfance fuit avec lui. […] Le monde s’élargit à mesure que s’allongent les jambes qui le parcourent. Catherine Legrand évolue. Et soudain le cœur s’ouvre, on a des extases dans l’herbe haute, on se récite des vers, on en compose, on se prend de passion pour une petite amie. C’est alors que l’opoponax fait son apparition tardive dans le livre. Il ne doit à la plante que son nom prestigieux si bien fait pour évoquer ce qu’il est : le mystère, l’étrange, la difficulté d’être, la résistance que tout à coup le monde et les autres vous opposent, parce qu’on vient tout juste de prendre conscience de soi. L’éclosion a été lente, progressive, sans tournant brusque. Les petites filles ont mûri comme les fruits au soleil. (Piatier 1964)
In questo libro il tempo scorre, e l’infanzia fugge insieme a lui. […] Il mondo si allarga via via che si allungano le gambe che lo percorrono. Catherine Legrand evolve. E d’un tratto il cuore si apre, si provano estasi nell’erba alta, si recitano versi, se ne scrivono, ci s’infatua di un’amica. È allora che l’opoponax fa la sua tardiva comparsa nel libro. Alla pianta lo accomuna solo il nome prestigioso, così adatto a evocare quel che è: il mistero, la stranezza, la difficoltà di essere, la resistenza opposta all’improvviso dal mondo e dagli altri, perché si è appena presa coscienza di sé. È stato uno sbocciare lento, progressivo, senza svolte brusche. Le ragazze sono maturate come frutti al sole.
Quando appare verso metà romanzo, l’opoponax è una sorta di demone che verga in inchiostro rosso dei messaggi di fuoco rivolti alla ragazza amata da Catherine Legrand. L’opoponax è la forza oscura e vitale che anima il soggetto lesbico, che sfugge all’ordine del discorso eterosessuale ed è estranea alle norme patriarcali che assegnano agli esseri umani ruoli prevedibili e opprimenti. Per Wittig, il soggetto lesbico scompagina quella che, modificando un’espressione di Saussure, Anne-Marie Houdebine ha chiamato la carte forcée culturelle, la «carta obbligata culturale», per sottolineare come la culture […] s’impose à nous, en nous, nous formate, «la cultura s’impone a noi, in noi, ci formatta» (Houdebine 2013). Infatti, nel saggio On ne naît pas femme, debitore al pensiero di Simone de Beauvoir sin dal titolo, Wittig afferma che le lesbiche non possono essere considerate “donne” per come siamo abituati a intenderle:
«Lesbienne» est le seul concept que je connaisse qui soit au-delà des catégories de sexe (femme et homme) parce que le sujet désigné («lesbienne») n’est pas une femme, ni économiquement, ni politiquement, ni idéologiquement. Car en effet ce qui fait une femme, c’est une relation sociale particulière à un homme, relation que nous avons autrefois appelée de servage, relation qui implique des obligations personnelles et physiques aussi bien que des obligations économiques («assignation à résidence», corvée domestique, devoir conjugal, production d’enfants illimitée, etc.), relation à laquelle les lesbiennes échappent en refusant de devenir ou de rester hétérosexuelles. Nous sommes transfuges à notre classe de la même façon que les esclaves «marron» américains l’étaient en échappant à l’esclavage et en devenant des hommes et des femmes libres (Wittig 2001, 63)
«Lesbica» è a quanto so il solo concetto che superi le categorie di sesso (donna e uomo) perché il soggetto designato («lesbica») non è una donna, né economicamente né politicamente né ideologicamente. Perché infatti quel che fa una donna è una posizione particolare in rapporto a un uomo, una relazione che un tempo abbiamo chiamato di asservimento, che implica doveri sia personali e fisici sia economici («arresti domiciliari», corvée domestica, doveri coniugali, produzione illimitata di figli ecc.), una relazione a cui le lesbiche sfuggono rifiutando di diventare o di rimanere eterosessuali. Siamo transfughe di classe, come i neri fuggiaschi che in America sfuggivano alla schiavitù diventando uomini e donne liberi.
Per sfuggire alle norme che presiedono alla costruzione de la-femme, mito che spaccia il sociale per naturale, per creare un mondo nuovo e una cultura nuova, è necessario passare anche attraverso una reinvenzione del linguaggio, perché, come scriverà ne Les Guerrillères, le langage que tu parles est fait de mots qui te tuent («il linguaggio che parli è fatto di parole che ti uccidono» – Wittig 1969, 162). Prima ancora delle parole, però, sono gli usi che vanno reinventati, poiché le parole che abbiamo a disposizione possono essere utilizzate come “cavalli di Troia” capaci di sovvertire le norme linguistiche dal loro interno. Questo progetto Wittig lo teorizzerà per tutta la vita (si vedano i saggi Le Cheval de Troie, in Wittig 2001, e Wittig 2010) ma già nel suo primo romanzo le basi sono poste, la pratica è già in atto. Il modo in cui Wittig si serve di on già percorre la strada della distruzione della categoria di sesso nel linguaggio (il genere) come chiarisce in un passaggio auto-esegetico del saggio La marque du genre dedicato a L’Opoponax:
On a été pour moi la clef qui m’a donné l’accès à un langage dont rien (et surtout pas le genre) ne vient troubler l’usage et l’exercice, comme ça se passe dans l’enfance quand les mots sont magiques, quand les mots brillants et bigarrés sont secoués dans le kaléidoscope du monde, opérant toutes sortes de révolutions dans la conscience au fur et à mesure qu’on les secoue. (Wittig 2001, 136)
Per me l’on è stato la chiave d’accesso a un linguaggio di cui nulla (e in primo luogo il genere) disturba l’uso e l’esercizio, come succede nell’infanzia, quando le parole sono magiche, quando le parole brillanti e variopinte vengono scosse nel caleidoscopio del mondo, operando tutte le rivoluzioni possibili nella coscienza, a mano a mano che le scuotiamo.
Al momento della pubblicazione del romanzo, le recensioni che si soffermano sulle scelte formali operate da Wittig notano echi di Nouveau roman, uno sguardo cinematografico accostabile a quello già sperimentato da Robbe-Grillet, una freschezza poetica à la Francis Ponge e un’enunciazione che proietta il testo al di là di convenzioni linguistiche e letterarie ostili all’uso scritto di on, pronome che invece Wittig utilizza per esprimere una soggettività collettiva che tende verso un’oggettività universalizzante:
On ne sait pas qui est le narrateur du livre. Le sujet des phrases oscille entre «Catherine Legrand» (point de vue objectif) et le pronom on (point de vue subjectif), dont Monique Wittig tire plusieurs effets. Tantôt, c’est le on collectif de l’enfant qui se distingue mal du groupe auquel il appartient. Tantôt, c’est le on indéterminé de la généralisation. Car cet univers enfantin est aussi bien celui de l’auteur que celui de Catherine Legrand ou que le nôtre. Classique en cela, Monique Wittig tend au général, non au particulier. (Piatier 1964)
Non si sa chi è il narratore del libro. Il soggetto delle frasi oscilla tra «Catherine Legrand» (punto di vista oggettivo) e il pronome on (punto di vista soggettivo), di cui Monique Wittig sfrutta molteplici effetti. A volte si tratta dell’on collettivo del bambino che si distingue a malapena dal gruppo d’appartenenza. A volte si tratta dell’on indeterminato della generalizzazione. Perché questo universo infantile coincide sia con quello dell’autrice che con quello di Catherine Legrand e con il nostro. In questo senso classica, Monique Wittig tende al generale, non al particolare.
L’Opoponax traveste il je, lo allarga, lo amplifica e così facendo lo reinventa totalmente, dissolvendo il singolo nel collettivo, il particolare nell’universale. Come sottolineò Duras nella sua recensione, il libro attribuisce all’infanzia, vera protagonista, i contorni fluidi di una marea, la trasfigura in un’entità pelagica senza limiti:
De quoi s’agit-il dans le livre ? D’enfants. De dix, cent petites filles et petits garçons qui portent les noms qu’on leur a donnés mais qui pourraient aussi bien les échanger contre des sous neufs. Il s’agit de mille petites filles ensemble, d’une marée de petites filles qui vous arrive dessus et qui vous submerge. Il s’agit bien de cela en effet, d’un élément fluide et vaste, marin. Toute une moisson, une marée d’enfants portés par une seule vague : car tout d’abord, quand le livre débute, ils sont très très jeunes, ils sont dans le fond d’un âge sans fin. (Duras 1964, 18)
Di che cosa parla il libro? Di bambini. Di dieci, cento bambine e bambini che hanno ognuno il proprio nome ma che sarebbero disposti a scambiarlo con una manciata di soldini nuovi. Parla di mille bambine insieme, di una marea di bambine che vi travolge e vi sommerge. Parla proprio di questo, infatti, di un elemento fluido e vasto, marino. Tutta una messe, una marea di bambini portati da una sola onda: perché al principio, quando inizia il libro, sono giovanissimi, sono al fondo di un’età senza fine.
Anche le recensioni più elogiative non esplicitano direttamente le ricadute che l’uso di on ha sulla presenza/assenza del genere nell’universo del romanzo. In ogni caso, il testo attrae e il Prix Médicis, confortando il successo del libro presso una critica sensibile e autorevole, traghettò il volume verso la sua circolazione all’estero, compresa l’Italia.
La vicenda editoriale de L’Opoponax presso Einaudi
Gli archivi della casa editrice Einaudi permettono di ricostruire la vicenda editoriale che portò alla pubblicazione dell’esordio di Monique Wittig, in tempi relativamente brevi se si pensa che, al contrario, gli altri suoi scritti sono apparsi in Italia con difficoltà e attraverso percorsi decisamente laboriosi (una relativa eccezione la fa Il corpo lesbico, apparso per le Edizioni delle donne nel 1976, cioè tre anni dopo la sua prima pubblicazione in Francia, complice un momento storico di intensa presenza pubblica del femminismo. Una ricostruzione più ampia e precisa delle traduzioni e delle ricezioni wittighiane in Italia sarebbe auspicabile. Sappiamo che al momento la giovane studiosa Eva Feole dell’Università di Verona e Saint-Étienne se ne sta occupando). Il 14 ottobre 1964 la casa torinese chiede a Les Editions de Minuit una copia del libro e, non avendo risposta, sollecita con una seconda missiva il 12 novembre. Quattro giorni dopo, Jérôme Lindon per Minuit risponde dicendo di non aver mai ricevuto la prima richiesta e che il libro è già stato opzionato da un’altra casa editrice e richiesto da altre tre ma è disposto, se il primo editore rinunciasse, a concedere un’opzione a Einaudi che permetta di prendere visione del testo e di decidere. Il 30 novembre Lindon comunica a Einaudi che l’opzione è concessa fino al 5 dicembre.
La macchina delle letture si mette in moto. Il verbale della riunione editoriale “del mercoledì” 2 dicembre riporta i diversi pareri: per Vittorini il libro è «mortifero, anche se c’è un metodo narrativo. C’è una poesia delle cose ovvie… Ma non si ricrea alcun mondo nuovo: c’è la solita provincia francese. Mi sembra un po’ una scommessa felice, ma non “necessaria”». Calvino è scettico e ambivalente, cita l’entusiasmo di Claude Simon e di Duras, amica di Vittorini e autrice storica dell’Einaudi, ma afferma: «A me non me ne importa tanto». Salvo poi aggiungere: «Credo che abbia un interesse anche per il grosso pubblico, le signore… Certo è un libro anche da guardare, con tutti questi “on”, queste pagine quadre. Bisogna trovare formule equivalenti. La letteratura sta diventando arte figurativa», il che spinge Bollati a domandare: «Ha senso fare (al giorno d’oggi) la traduzione di libri così senza testo a fronte?». Calvino si sofferma, altresì, sull’uso dell’on e ammette: «A leggere con attenzione, qualcosa si dovrebbe vedere. Neri ci ha scritto sopra 4 pagg. con pezzi molto belli». Per un sì deciso è invece Davico Bonino, che propone anche di affidare la traduzione a Franco Quadri, già traduttore di Comment c’est di Samuel Beckett.
Si decide per il sì, con gioia di Lindon che risponde concedendo anche un’opzione sul romanzo seguente di Wittig (che però non verrà mai pubblicato da Einaudi) e ribadendo il valore della scrittrice: nous considérons Monique Wittig comme un des meilleurs écrivains que nous ayons publié depuis la création de notre maison et nous serions heureux qu’il figure dans votre catalogue à côté de Robbe-Grillet, Beckett, Simon, Pinget et Duras («consideriamo Monique Wittig uno dei migliori autori che abbiamo pubblicato dalla creazione della nostra casa editrice e saremmo felici di vederla nel vostro catalogo accanto a Robbe-Grillet, Beckett, Simon, Pinget e Duras»).
Il libro viene dunque tradotto sotto gli auspici di una scheda di lettura preparata da Guido Neri, francesista e collaboratore della casa, che sostiene il libro convintamente:
la [sic] Wittig rifiuta qualsiasi candore, rappresenta l’insignificante dell’infanzia per quello che è: un mondo di luoghi comuni subiti, un mondo di “mitologie”. Più che alla ricerca di Robbe-Grillet, è dunque vicina a quella – nello stesso ordine, ma diametralmente opposta, simmetrica – di Claude Simon; e a Simon-Faulkner richiamano anche il giuoco di prima e terza persona, e gli effetti di compattezza narrativa nel discontinuo […]. Ma L’opoponax non è un banale sottoprodotto di scuola letteraria. Le particolarità della sua tecnica narrativa non sono gratuite, ma funzionali e connesse al tema.
Per descrivere lo stile narrativo di Wittig, Neri ricorre al paragone insolito con Hemingway: «Wittig procede con la stessa pressione inesorabile, ha la stessa ordinata meticolosità: uno sguardo rotondo, equidistante, posato sulle cose (mai astratto e mai ossessivo), una lingua concreta, positiva». Commenta lungamente anche l’on «che rappresenta propriamente l’entità ancora indistinta gruppo-individuo» e la «presenza sommessa di un io incerto, nascosto e covato dal collettivo: un’infanzia che non sa ancora se è persona». Gli sfugge, però, il valore di quella scelta pronominale rispetto al genere. Malgrado ciò, non glissa sull’«amicizia particolare» tra i personaggi di Catherine e Valérie, anche se ritiene che «tutto continua a svolgersi in forme primitive»; il che lo spinge a concludere che «La Wittig non crede – si direbbe – alla convenzione di una “fine dell’infanzia”». Cosa che non è poi così vera se il verso di Maurice Scève che chiude il libro sancisce l’inizio di un vero e proprio amore e dunque di una nuova fase di maturazione. Fase che è rappresentata oltretutto da una transizione al je, pronome che potrebbe essere pronunciato tanto da Valérie quanto da Catherine e che in questa doppia possibilità indica la reciprocità del sentimento corrisposto.
Quando Davico chiede a Neri di pensare a un traduttore – «Certo, ci vuole qualcuno di molto bravo: io avevo pensato a Quadri. Ma decidi tu per il meglio» – questi propone il nome di Clara Lusignoli, allora impegnata a tradurre per Einaudi Une mort très douce di Beauvoir: «Monique Wittig le ha mandato una copia dell’Opoponax, scrivendo: sarei lieta che fosse lei a tradurlo. Ora, vista la tempestività dimostrata dalla Lusignoli e sentendo che il libro le è piaciuto, penso che si potrebbe tenere conto di questo desiderio dell’autrice, se anche voi siete del parere e se non avete già fatto l’assegnazione del lavoro a Quadri». Davico acconsente e Lusignoli intraprende il lavoro.
Chi è on?
Prima di osservare in che modo la traduzione risponde alla sfida di rendere in italiano la dinamica enunciativa del romanzo, una premessa sul pronome on e sulle sue interpretazioni possibili nello scritto e nell’orale – che contamina la prosa di Wittig – ci permetterà di comprendere talune scelte.
On, che deriva dal latino homo, è un pronome polivalente: personale indeterminato (come in it. ciascuno, chiunque) ma anche indefinito (come in it. il si di si fa, si dice), che a differenza delle forme anaforiche elle(s) o il(s), si riferisce solo a entità umane. In quanto indefinito, on non è marcato da genere e numero ma solitamente porta con sé i vincoli morfologici del maschile singolare il (es. on est parti), benché si trovino in letteratura esempi in cui tale regola è infranta, per esempio L’Excès-l’usine di Leslie Kaplan (es. On est prise, on est tournée).
Riprendendo la distinzione tra persona e non-persona elaborata da Emile Benveniste per indicare i pronomi che designano istanze iscritte nella situazione enunciativa (je, nous, tu, vous) e istanze esterne (il, ils, on), Catherine Viollet (1988) sottolinea il carattere contraddittorio di on, tanto non-persona quanto pronome soggetto che può essere convertito nei pronomi di prima e seconda persona singolare e plurale, il cui valore è determinato dalla deissi e dunque definito dalla situazione enunciativa.
Seguendo la classificazione di Viollet, possiamo distinguere quattro possibili valori di on: deittico, anaforico, doxale e indeciso. Il valore deittico è quello in cui on si riferisce all’insieme dei locutori presenti nella situazione discorsiva, per questo è tipico dell’orale e legato all’interlocuzione diretta. Il valore anaforico, che si trova anche nello scritto, è quello che on assume in co-occorrenza con un altro pronome personale (nous o vous): generalmente è sinonimo di nous e si oppone a vous (es. «on dit un mot vous devez l’exécuter»; «nous, on est fatigués»).
Nel romanzo di Wittig, però, capita che on sia interpretabile come anafora o catafora di un soggetto plurale (es. Wittig 1964, 95: Quand elles rentreront elles diront qu’elles ont vu Vincent Parme et Catherine Legrand couchés de chaque côté du fusil dans le champ. Pour le moment on est dissimulé par la base d’un noisetier qui pousse tout au bord de l’eau) o anche di un soggetto singolare, generalmente Catherine Legrand (cfr. Wittig 1964, 48: Catherine Legrand n’a pas le temps d’écrire tous les mots que Mademoiselle dit. On laisse des espaces approximatifs. On essaiera de les remplir quand Mademoiselle relira la dictée).
Il valore che abbiamo nominato doxale (Viollet lo chiama parcours) si dà quando on non può essere identificato con un soggetto determinato ma rappresenta l’opinione comune, la doxa, e si tratta quindi di una non-persona (es. on le dit mais on le fait pas, «si fa ma non si dice»).
Infine, ci sono occorrenze di on il cui valore referenziale è difficile da stabilire con certezza. Generalmente si tratta di enunciati in cui on è soggetto di verbi dichiarativi senza però assumere del tutto un valore doxale, perché il soggetto enunciatore e il co-enunciatore sembrano essere inclusi nell’asserzione: per es. on va toujours dire que, on se dit que, etc. La polivalenza di on richiede dunque di interpretarne il valore referenziale alla luce del co-testo e del contesto in cui è impiegato, anche se non sempre è possibile un’interpretazione univoca. Wittig utilizza principalmente l’on di valore indefinito estendendo molto il bacino dei verbi utilizzati, soprattutto verbi d’azione. La sua scrittura opera proprio a partire dal margine di indeterminatezza referenziale del pronome, che è anche uno spazio di possibilità, per lasciare emergere un soggetto di tipo nuovo: diffuso, universale e non marcato dal genere. Tendendo all’estremo delle possibilità la plasticità enunciativa dell’on, Wittig diluisce i confini tra individuo e collettivo, tra maschi e femmine (es. on entend le vent à travers les arbres).
Come spiegherà nei suoi testi teorici, le forme pronominali sono l’ambito centrale del suo cantiere letterario-politico, perché è attraverso di esse che le persone esistono nel linguaggio e il linguaggio non si limita a essere un riflesso della realtà sociale ma contribuisce a costruirla. Per esempio mediante un sistema di classificazione nominale come il genere, che nelle lingue a due generi impone una divisione dell’essere in due categorie distinte, l’una dominante e l’altra dominata, l’una universale, l’altra particolare, a partire da una differenza sessuale concepita all’interno dell’ordine eterosessuale e patriarcale che Wittig critica e intende sovvertire:
Le genre, en imposant aux femmes l’utilisation d’une catégorie particulière, représente une mesure de domination et de contrôle. Le genre nuit énormément aux femmes dans l’exercice du langage. […] Mais la farce ontologique qui consiste à essayer de diviser l’être dans le langage en lui imposant une marque, la manœuvre conceptuelle qui consiste à arracher aux individus marqués ce qui leur appartient de droit, le langage, doivent cesser. Il faut donc détruire le genre totalement. Cette entreprise a tous les moyens de s’accomplir à travers l’exercice même du langage. (Wittig 2001, 132-133)
Il genere, imponendo alle donne l’uso di una particolare categoria, rappresenta una misura di dominio e di controllo. Il genere nuoce enormemente alle donne nell’esercizio del linguaggio. […] Ma la forza ontologica che consiste nel tentare di scomporre l’essere nel linguaggio imponendogli una marca, la manovra concettuale che consiste nel sottrarre agli individui marcati ciò che gli appartiene di diritto, cioè il linguaggio, devono cessare. Bisogna dunque distruggere completamente il genere. Questa impresa ha tutti gli strumenti per compiersi attraverso l’esercizio stesso del linguaggio.
Wittig è una femminista che non lotta per valorizzare il femminile bensì per abbattere la categoria di sesso, innanzitutto nel linguaggio utilizzando il linguaggio stesso come macchina da guerra: [les pronoms] sont des machines de guerre, qui fonctionnent sur la duplicité comme le cheval de Troie. On pourrait dire d’eux qu’ils sont à la fois signifiés purs et signifiants purs. On les appelle d’ailleurs des “personnes grammaticales”, formule qui résume bien leur ambiguïté («[i pronomi] sono macchine da guerra, basate sulla duplicità come il cavallo di Troia. Potremmo dire che sono al tempo stesso significati puri e significanti puri. D’altronde li chiamiamo “persone grammaticali”, formula che riassume efficacemente la loro ambiguità»; Wittig 2001, 134 e 2010, 141).
Come già sottolineato, prima ancora di aver teorizzato tutto ciò la scrittrice aveva già messo in pratica tali propositi nella sua scrittura. Tuttavia, spesso l’elaborazione teorica e interpretativa è un passaggio necessario per far cogliere a chi legge e a chi traduce la densità di certe scelte formali. E di questo è bene tener conto nel momento in cui mi appresto a osservare in che misura e in quali forme la pratica del dé-marquage (Bourque 2012), con tutta la pregnanza politica che Wittig non aveva ancora teorizzato, si conserva o meno nella traduzione pubblicata nel 1966. Non potendo essere questa la sede di una minuziosa analisi traduttologica, mi limito a sintetizzare le soluzioni principali che mi sembrano presentarsi nell’edizione italiana de L’Opoponax, distinguendo tra quelle che riescono nell’intento di conservare il dé-marquage e quelle che invece non ci riescono.
Come è stato tradotto on?
- a) Soluzioni non marcate dal genere:
Diverse sono le possibilità offerte dall’italiano per evitare la marcatura di genere, come mostrano alcune delle soluzioni effettivamente adottate nella versione italiana de L’Opoponax:
- terza persona plurale non marcata. Spesso il romanzo presenta situazioni in cui on ha come valore referenziale un gruppo, per lo più ma non sempre misto di bambine e bambini. Grazie alla possibilità offerta dall’italiano di non esplicitare il soggetto del verbo, ci troviamo di fronte a soluzioni che conservano la non marcatura di genere: On fait chauffer des galets ronds sur le dessus du poêle pour les prendre dans les mains (Wittig 1964, 27) > «Sopra la stufa fanno scaldare certi ciottoli tondi per poi prenderli in mano» (Lusignoli 1966, 24); On voudrait avancer sans faire de trace (Wittig 1964, 88) > «Vorrebbero camminare senza lasciare traccia» (Lusignoli 1966, 76);
- frase nominale. A volte, la frase nominale permette di non esplicitare il soggetto: On entend un coup de sifflet (Wittig 1964, 38) > «Colpo di fischietto» (Lusignoli 1966, 34); On fait une dictée (Wittig 1964, 48) > «Dettato» (Lusignoli 1966, 42).
Tale soluzione compare spesso come strategia di evitamento della ripetizione, come variatio quando nell’originale il pronome è invece ripetuto anche a breve distanza: On entend un chien aboyer. On n’entend pas un bruit (Wittig 1964, 212) > «Ode abbaiare un cane. Nessun altro rumore» (Lusignoli 1966, 183); - forme impersonali e soggetti non umani. Il pronome impersonale si è l’unico pronome di terza persona singolare non marcato dal genere in italiano e, in effetti, qui e là compare: On ne voit pas ses jambes (Wittig 1964, 40) > «Non le si vedono le gambe» (Lusignoli 1966, 35); On entend çà et là des interjections (Wittig 1964, 49) > «Qua e là si sentono esclamazioni vivaci» (Lusignoli 1966, 43); Là habitent des hommes et des femmes tout petits dont on ne voit pas la figure parce qu’elle est couverte de sang (Wittig 1964, 44) > «Laggiù abitano uomini e donne piccolissimi, non se ne vede la faccia perché è coperta di sangue» (Lusignoli 1966, 39).
La traduttrice scelse di non utilizzare si in modo unico e sistematico, molto probabilmente per ragioni di fluidità nella resa; d’altronde Wittig stessa ammetterà che la ripetizione di on così come di one in inglese può dare una certa impressione di pesantezza e tuttavia proprio lì sta il ritmo e la riconoscibilità di questo testo. Curioso, a proposito di effetti di assonanza tra on, one e uno, questo esempio che, però, essendo uno pronome indefinito maschile, rientra nelle soluzioni che non rispettano il dé-marquage di genere: On attrape la pomme parce qu’on aperçoit que la face intacte… (Wittig 1964, 71) > «Uno afferra la mela perché ne vede solo la faccia intatta…» (Lusignoli 1966, 62).
Ci sono occorrenze in cui l’impersonale italiano funziona agevolmente senza dover ricorrere al si: On fait la sieste. Il fait chaud dans le lit. On ne peut pas dormir (Wittig 1964, 51) > «È l’ora della siesta. Nel letto fa caldo. Impossibile dormire» (Lusignoli 1966, 45).
Anche ecco permette di non attribuire un referente personale a on e di modificare la costruzione della frase, come in questo caso in cui la costruzione soggetto + verbo on entend si trasforma nel sostantivo «il rumore»: On entend la barre tomber par terre, puis le marteau qui la heurte en tombant. On entend des bruits de ferraille remuée (Wittig 1964, 35) > «Ecco il rumore della sbarra che cade per terra, poi quello del martello che la urta cadendo» (Lusignoli 1966, 31). Analogamente si comporta questo esempio in cui la costruzione soggetto + verbo si trasforma in sostantivo e altre modifiche morfosintattiche intervengono per privilegiare costruzioni nominali con un effetto più impressionistico e sincopato che nell’originale: On rentre le soir quand déjà la lumière ne passe plus sous les arbres. On a les paumes des mains écorchées, les doigts bourrés d’épines (Wittig 1964, 64) > «Il ritorno è di sera quando già la luce non passa più sotto gli alberi. Scorticate le palme delle mani, le dita piene zeppe di spine» (Lusignoli 1966, 56).
- b) Soluzioni marcate dal genere:
- Il maschile “universale”. Come già sottolineato, solitamente on porta con sé i vincoli morfologici del maschile singolare il, regola che Wittig segue. Dal canto suo, quando nel co-testo il pronome permette di essere interpretato come anafora o catafora di collettività miste, Lusignoli lo declina al maschile plurale: es. On est caché derrière les lilas (Wittig 1964, 23) > «Si sono nascosti dietro i lillà» (Lusignoli 1966, 21); On est assis dans un pré (Wittig 1964, 43) > «Sono seduti su un prato» (Lusignoli 1966, 38).
Nel saggio La marque du genre, contenuto ne La pensée straight, Wittig riflette su questo uso del maschile inclusivo e “universale” proponendo come esempio la parola écrivain, particolarità del francese di cui all’epoca ancora non era stata proposta un’equivalenza al femminile:
Quand je dis l’écrivain et que je dis il en le rapportant à l’écrivain (ou les écrivains, ils) grammaticalement, dans un sens strict, j’emploie un masculin. Pourtant, il ne peut s’agir qu’abusivement d’un masculin, c’est un masculin par appropriation. De même que quand on dit l’homme, il ou les hommes, ils, dans le sens de les êtres humains ils, il ne peut s’agir d’un masculin que par appropriation. Car dans ce cas, on a affaire plutôt à un indéfini de sexe (c’est un général, un générique) qui peut porter la marque du nombre mais pas la marque du genre, car il la subsume. Ce qui veut dire que la tendance actuelle (comme dans écrivaine adopté récemment) me paraît, non pas aller vers un dépassement des genres comme il est souhaitable si on veut les abolir, mais d’une part aller vers son renforcement, et d’autre part, perdre (en ce qui concerne la catégorie sociologique des femmes) le droit à la généralisation et à l’abstraction qui est virtuel (sinon appliqué) dans les nombreux textes scientifiques qui traitent de l’homme (car homo sum) puisque homme signifie d’abord être humain et seulement par dérivation, mâle biologique (Wittig 2001, 137).
Quando dico l’écrivain e uso il in rapporto all’écrivain (o les écrivains, ils) grammaticalmente, in senso stretto, uso un maschile. Tuttavia si tratta solo ingiustamente di un maschile, è un maschile per appropriazione. E lo stesso maschile per appropriazione lo troviamo quando si dice l’homme, il, o les hommes, ils, nel senso degli esseri umani. In questo caso, infatti, si ha piuttosto a che fare con un indefinito sessuale (generale, generico) che può avere la marca di numero ma non quella del genere, perché la sussume. Vale a dire che la tendenza attuale (per esempio nel recente écrivaine) non mi sembra andare verso un superamento dei generi, com’è auspicabile se vogliamo abolirli, ma da una parte verso un consolidamento e dall’altra verso la perdita (per quanto riguarda la categoria sociologica delle donne) del diritto alla generalizzazione e all’astrazione, un diritto virtuale (se non applicato) nei tanti testi scientifici che trattano dell’uomo (perché homo sum), poiché uomo significa prima di tutto essere umano e solo per derivazione maschio biologico.
L’autrice critica la confisca dell’universale da parte del maschile ma il suo uso di convenzioni linguistiche in cui il maschile prevale sul femminile, come per esempio l’accordo di on al maschile singolare per referenti non necessariamente maschili, potrebbe anche essere interpretato come una forma di riappropriazione dell’universale e di svuotamento del genere grammaticale maschile dalla maschilità referenziale acquisita par appropriation. In fondo è proprio questa l’operazione che compirà ne Les Guerrillères utilizzando il pronome elles non per femminilizzare l’universo ma, da una parte, per rendere il femminile capace di dire l’universale, dall’altra, per denunciare l’operazione di confisca dell’universale da parte di un genere. Tuttavia, la stessa scrittrice ammette che
il est possible que il, ils, l’homme ne puissent jamais être employés de façon satisfaisant pour désigner l’humain en général à cause de leur lourdeur idéologique et de leur propension à verser du côté du sens vers la classe dominante des hommes […]. La solution finale est bien évidemment de supprimer le genre (en tant que catégorie de sexe) de la langue, une fois pour toutes, décision qui demande un consensus et qui demande forcément un changement de forme. (Wittig 2001, 138)
probabilmente il, ils, l’homme non saranno mai usati in modo soddisfacente per indicare l’umano in generale, a causa della loro pesantezza ideologica e della loro propensione a scivolare dal senso alla classe dominante degli uomini […]. La soluzione migliore è senz’ombra di dubbio sopprimere il genere (in quanto categoria sessuale) dalla lingua, una volta per tutte, decisione che richiede un consenso e necessariamente un cambiamento di forma.
Da tempo, su questo cambiamento di forma auspicato da Wittig, c’è chi lavora (si veda per esempio un testo come Requiem pour il et elle di Michèle Causse e Katy Barasc) e c’è chi di recente, in Francia, ha anche scritto una grammatica delle forme inclusive e neutre (Alphéraz 2018);
- Ci sono casi, in cui Wittig tenta di infrangere il nesso sesso biologico-genere grammaticale per rompere con il principio sessuale di classificazione nominale. Si osservi questo esempio: En tout cas Catherine Legrand est un cochon, Mademoiselle le lui dit en secouant son cahier (Wittig 1964, 32) Wittig assimila Catherine a un’entità al maschile (cochon) ma la traduzione tradisce questo disallineamento tra genere grammaticale e sesso biologico del personaggio, femminilizzando l’attributo: «In ogni modo Catherine Legrand è una porcella, glielo dice la Signorina agitando il quaderno» (Lusignoli 1966, 28-29).
Inoltre, si trovano esempi in cui on viene reso con un pronome femminile: es. Ça vient du fait que quand on trempe le porte-plume dans l’encrier ou bien il ressort plein d’encre ou bien il n’en a pas assez (Wittig 1964, 32) > «Questo perché quando essa intinge la penna nel calamaio il pennino vien fuori pieno d’inchiostro oppure non ce n’è abbastanza» (Lusignoli 1966, 29); On va dans le champ aux fleurs. On est arrivé. On se roule dans l’herbe (Wittig 1964, 39) > «Vanno nel campo fiorito. Eccole arrivate. Si rotolano nell’erba» (Lusignoli 1966, 34). Purtroppo le soluzioni traduttive che riallineano sesso/genere laddove il testo originale gioca sui margini di ambiguità che la lingua permette (Catherine est un cochon) o che riconducono a referenti precisi quanto il testo lascia indeterminato e impersonale (on trempe le porte plume > essa intinge), tradiscono tanto il progetto di dé-marquage tanto quello di ampliamento del punto di vista al di là dell’individuo messo in atto da Wittig in un testo che quindi, se fosse da tradurre oggi, andrebbe rivisto soprattutto sotto questi aspetti.
Come ri-tradurre on? Non è solo una questione di genere
Il genere non è tutto. Tanto quanto la marcatura (o meno) di genere, anche la scelta tra persona (noi) e non persona (essi/esse) è un elemento di cui tenere conto nell’impresa di tradurre on per come si presenta nel primo romanzo di Monique Wittig. Quando rende l’on con un pronome plurale o un sostantivo, la versione italiana sceglie sempre la terza persona (esse, i ragazzi). Sarebbe possibile, invece, renderlo come prima persona plurale, così da dare a on un valore deittico calato dentro l’esperienza narrata (un noi). A titolo d’esempio, si potrebbero dunque ri-tradurre così gli ultimi due passi evocati:
Ça vient du fait que quand on trempe le porte-plume dans l’encrier ou bien il ressort plein d’encre ou bien il n’en a pas assez (Wittig 1964, 32)
T1: Questo perché quando essa intinge la penna nel calamaio il pennino vien fuori pieno d’inchiostro oppure non ce n’è abbastanza (Lusignoli 1966, 29)
T2: Questo perché quando intingiamo la penna nel calamaio il pennino vien fuori pieno d’inchiostro oppure non ce n’è abbastanzaOn va dans le champ aux fleurs. On est arrivé. On se roule dans l’herbe (Wittig 1964, 39)
T1: Vanno nel campo fiorito. Eccole arrivate. Si rotolano nell’erba (Lusignoli 1966, 34)
T2: Andiamo nel campo fiorito. Eccoci. Ci rotoliamo nell’erba
Allo stesso modo, ecco come, senza stravolgere l’eleganza del lavoro di Lusignoli, ci si potrebbe misurare con un aggiornamento della traduzione che al maschile universale preferisse soluzioni non marcate e che alla non persona marcata essi/esse preferisse una persona non marcata noi:
Originale | T1 | T2 |
A un moment donné Vincent Parme attrape son assiette et il lance à la volée à la figure de Denise Parme toute la purée qu’on voit fumer sur elle. On regarde en riant Denise Parme qui crie […]. Les pères, les mères se mettent en colère, par la porte ouverte on les voit à l’autre table qui repoussent leur chaise qui sont debout qui crient à côté de la table où à présent tout le monde est plein de purée. Alors on va en courant se laver dans la salle de bain. On se pousse devant le lavabo. On se tape avec les poings sur le dos et sur la figure… | Quand’ecco che Vincent Parme afferra il suo piatto e lancia a tutta forza sulla faccia di Denise Parme tutto il puré, glielo vedono fumare addosso. Guardano tutti ridendo Denise Parme che urla […]. I padri, le madri vanno in collera, attraverso la porta aperta i ragazzi li vedono all’altro tavolo respingere le sedie, alzarsi in piedi venire gridando accanto alla loro tavola dove ora tutti sono coperti di puré. Allora vanno di corsa a lavarsi nella stanza da bagno. Si accalcano davanti al lavabo. Si picchiano coi pugni sulla schiena e sul viso… | Quand’ecco che Vincent Parme afferra il suo piatto e lancia a tutta forza sulla faccia di Denise Parme tutto il puré, glielo vediamo fumare addosso. Guardiamo ridendo Denise Parme che urla […]. I padri, le madri vanno in collera, attraverso la porta aperta li vediamo all’altro tavolo respingere le sedie, alzarsi in piedi venire gridando alla tavola dove ora il puré ricopre chiunque. Allora andiamo di corsa a lavarci nella stanza da bagno. Ci accalchiamo davanti al lavabo. Ci picchiamo coi pugni sulla schiena e sul viso… |
Nella proposta T2, il noi permetterebbe di evitare soluzioni al maschile (Tutti, i ragazzi) che la terza plurale imporrebbe. Certo, in caso di verbo composto (on est caché, on est assis) la questione del genere del participio continuerebbe a porsi e in tal caso si dovrebbe valutare caso per caso come tradurre, ma in generale si potrebbe optare per il maschile “homo sum” – come nell’originale – oppure tentare grafie inclusive (grafema @) o non marcate (asterischi), che però rischierebbero di imporre al testo un aggiornamento formale che lo snaturerebbe storicamente.
Come sappiamo, le traduzioni non sono oggetti metastorici e, a volte, evoluzioni linguistiche, stilistiche o elementi extratestuali possono renderle obsolete o perfettibili. Il successo intermittente ma continuo che conosce l’opera di Monique Wittig nel nostro paese, ultimamente rinvigorito da una doppia traduzione in italiano dei suoi scritti teorici (Nugara 2019) e dalla ritraduzione de Le Guerrigliere (Cuenca 2019), potrebbe essere l’occasione di ritornare su L’Opoponax alla luce delle opere successive dell’autrice, senza trascurare che si tratta comunque di un testo del 1964, tradotto all’epoca con le migliori intenzioni.
La storia non si cambia, ma ci sono episodi che fanno sognare piste alternative a quelle realmente percorse dal destino.
In una lettera del 17 gennaio 1965, Guido Neri scrive dispiaciuto a Davico che se Lusignoli avesse ricevuto a dicembre il danaro promessole per la traduzione di un testo di Duras, la somma «le sarebbe arrivata al momento opportuno per consentirle di fare un salto a Cortina e avere uno scambio di vedute con Monique Wittig, a proposito dei criteri di traduzione dell’Opoponax». Quella somma arrivò in ritardo, l’incontro – a quanto ci risulta – non ebbe luogo né a Cortina né altrove e negli archivi Einaudi non si trovano note o osservazioni particolari riguardo a difficoltà traduttive, salvo un breve scambio interno alla casa editrice relativo alle citazioni letterarie e di canzoni (lasciarle o meno in originale? Citarne o meno i titoli in nota?).
Il 12 maggio 1966 Giulio Einaudi scrive una lettera a Monique Wittig per accompagnare una copia del volume tradotto (Je tiens à vous dire que je me félicite d’être l’éditeur italien de ce livre remarquable; «Ci tengo a dirle che sono felice di essere l’editore italiano di questo libro notevole») a cui l’autrice risponde solo un mese dopo, il 16 giugno 1966, con una missiva in cui, a leggere tra righe, si evince una specie di freddezza, forse una delusione che non osa dire il suo nome di fronte a quel libriccino così piccolo e semplice, così poco somigliante all’originale, la cui traduzione è «sicuramente perfetta» anche se è difficile valutarlo senza conoscere l’italiano:
Monsieur,
Vous m’avez envoyé il y a quelques temps une lettre et un exemplaire de l’Opoponax, je n’ai pas pu vous en remercier parce que je n’étais pas à Paris à ce moment-là. Je vous prie de m’en excuser. Le livre petit comme il est, avec sa couverture toute simple et la typographie que nous ne connaissons pas ici – par exemple les fins de ligne – me plaît beaucoup. La traduction de Madame Clara Lusignoli est sûrement parfaite, c’est mon impression, mais malheureusement ma connaissance de l’italien, elle est loin d’être parfaite et je ne peux pas tirer de cette traduction autant de plaisir que je le voudrais.
Je vous prie de croire, Monsieur, que je suis bien à vous.
Monique WittigSignore,
poco tempo fa mi ha mandato una lettera e una copia dell’Opoponax, non ho potuto ringraziarla perché in quel momento mi trovavo a Parigi. La prego di scusarmi. Quel libriccino, con la copertina semplicissima e quel tipo di composizione tipografica che noi non usiamo – per esempio gli a capo – mi piace molto. La traduzione della signora Clara Lusignoli è senz’altro perfetta, è questa la mia impressione, ma purtroppo la mia conoscenza dell’italiano è lungi dall’essere perfetta e quindi dalla traduzione non posso ricavare tutto il piacere che vorrei.
Sempre sua,
Monique Wittig
Riferimenti bibliografici
Ringrazio Walter Barberis per avermi autorizzata a consultare gli archivi della casa editrice Einaudi e Luisa Gentile per avermi agevolata nelle ricerche.
Alphéraz 2018: Alphéraz, Grammaire du français inclusif et du genre neutre, Châteauroux, Vents solars
Auclerc, Chevalier 2012: Benoît Auclerc, Yannick Chevalier, Lire Monique Wittig aujourd’hui, Lyon, Presses Universitaires de Lyon
Bourque 2012: Un Cheval de Troie nommé dé-marquage : la neutralisation des catégories de sexe dans l’œuvre de Monique Wittig in Benoît Auclerc, Yannick Chevalier, Lire Monique Wittig aujourd’hui, Lyon, Presses Universitaires de Lyon, pp. 67-87.
Causse, Barasc 2014: Michèle Causse, Katy Barasc, Requiem pour il et elle, Donnemarie-Dontilly, iXe.
Cuenca 2019: Monique Wittig, Le guerrigliere, traduzione di Ana Cuenca, Bologna, Lesbacce incolte (trad. di Wittig 1969)
Houdebine 2013: Linguistique, sémiologie et sexuation, entretien avec Anne-Marie Houdebine, mené par Karine Berthelot-Guiet et Stéphanie Kunert, in «Communication & langages», vol. 177, n° 3, pp. 111-124
Lusignoli 1966: Monique Wittig, L’Opoponax, traduzione di Clara Lusignoli, Torino, Einaudi (trad. di Wittig 1964)
Nugara 2019: Silvia Nugara, Monique Wittig, lo sguardo sovversivo, in «il manifesto», 27 agosto
Viollet 1988: Catherine Viollet, Mais qui est on?, in «Linx», n° 18, pp. 67-75
Wittig
– 1964: Monique Wittig, L’Opoponax , Paris, Minuit
– 1969: Monique Wittig, Les Guérillères, Paris, Minuit
– 1992: Monique Wittig, The Straight Mind and Other Essays, Boston, Beacon Press
– 2001: Monique Wittig, La Pensée straight, Paris, Balland (trad. di Wittig 1992)
– 2010: Monique Wittig, Le Chantier littéraire, Lyon, Presses Universitaires de Lyon + iXe
Recensioni francesi de L’Opoponax
Duras 1964: Marguerite Duras, Une œuvre éclatante, in «France Observateur», 5 novembre
Eribon 2001: Didier Eribon, La femme marron: le retour de Monique Wittig, in «Le Nouvel Observateur», 14 juin
Piatier 1964: Jacqueline Piatier, L’Opoponax, in «Le Monde», 14 novembre
Simon 1964: Claude Simon, Pour Monique Wittig , in «L’Express», 30 novembre