di Elisa Bolchi
A proposito di: Foreign Women Authors under Fascism and Francoism. Gender, Translation and Censorship, a cura di Pilar Godayol e Annarita Taronna, Newcastle upon Tyne, Cambridge Scholar Publishing, 2018, pp. 218, £ 61,99
Il libro raccoglie nove studi sulla pubblicazione italiana e spagnola di scrittrici straniere sotto il regime fascista e franchista, al fine di mostrare come la storia della traduzione sia costellata di figure femminili, spesso nascoste e in incognito, ma sempre presenti anche in regimi totalitari come quelli di Benito Mussolini e Francisco Franco. Storie fatte di tagli, divieti, permessi a volta inattesi, ma soprattutto di silenzi che si sommano al consueto silenzio che spesso circonda la professionalità femminile. Storie tutte diverse eppure sorprendentemente simili tra loro, fatte di censura di Stato e di autocensura messa in atto per aggirare i controlli e riuscire a introdurre lo sguardo della letteratura straniera nel proprio paese.
Le principali domande che Pilar Godayol e Annarita Taronna intendono porsi riguardano innanzitutto la scelta dei testi da “canonizzare” o “marginalizzare” da parte dei due regimi, ma anche le strategie editoriali adottate dai ministeri dei due paesi per esercitare un controllo sull’importazione di lavori stranieri. In apertura del volume le curatrici si domandano se sia possibile identificare una rete di intellettuali, editori e traduttori in grado di sfidare o eludere la censura, e si domandano quindi chi fossero queste figure e se avessero affinità politiche o di pensiero con le autrici tradotte o pubblicate.
Il volume è diviso in due macrosezioni geografiche e cronologiche. La prima sezione, Fascism (1922-1940), si apre con un saggio di Valerio Ferme che analizza le prime traduzioni di scrittrici americane come Louisa May Alcott e Harriet Beecher Stowe; seguono un intervento di Eleonora Federici dedicato alla traduzione di Agatha Christie e uno di Vanessa Leonardi che indaga la traduzione della scrittrice danese Karin Michaëlis. La sezione si chiude con uno studio di Annarita Taronna sulle traduzioni di Radclyffe Hall, Vita Sackville-West e Virginia Woolf. La seconda parte del volume, Francoism (1939-1975), è un poco più corposa della prima e raccoglie cinque saggi. Montserrat Bacardí analizza la particolare condizione delle traduttrici catalane, vittime di una duplice discriminazione, mentre Fernando Larraz nel suo studio evidenzia l’importanza di considerare le collane editoriali come elementi paratestuali nell’analisi della mediazione culturale delle scrittrici. La sezione si chiude con tre saggi che toccano grandi “classici” del pensiero e della scrittura femminile: Carmen Camus Camus presenta un resoconto della traduzione di A Vindication of the Rights of Woman di Mary Wollstonecraft; Pilar Godayol analizza la ricezione di Simone de Beauvoir; e infine Cristina Gómez Castro fa un confronto delle traduzioni del classico di Harper Lee To Kill a Mockingbird (titolo che, letteralmente, in italiano suonerebbe «Uccidere il tordo beffeggiatore», ma che nella traduzione italiana di Amalia D’Agostino Schanzer, pubblicata da Feltrinelli nel 1962, è stato sostituito con quello del film, Il buio oltre la siepe).
Le curatrici evidenziano da subito i punti in comune della situazione censoria italiana e spagnola, sottolineando come in un primo momento le sole pubblicazioni autorizzate sotto i due regimi fossero quelle in accordo con l’ideologia conservatrice del governo, ma come in entrambi i paesi si fosse poi iniziato a tradurre testi più controversi agli occhi del censore, grazie a raffinati meccanismi di autocensura messi in atto da traduttori e traduttrici. I limiti tracciati dai due sistemi censori erano molto simili, e riguardavano soprattutto l’identità nazionale, il comunismo e l’oscenità. Emerge anche come in entrambi i paesi la censura fosse arbitraria; accadeva così che testi che potevano rappresentare una minaccia ideologica superassero comunque la censura senza problemi, come accadde con il romanzo di Harper Lee, il case study che chiude questo volume.
Dai saggi raccolti in Foreign Women Authors under Fascism and Francoism si evince come entrambe le dittature cercassero di arrestare la narrazione di una donna alternativa a quella conservatrice e patriarcale imposta dai regimi, affinché si ritardasse il più possibile una presa di coscienza da parte delle donne che entrambi i governi, e in particolare quello franchista, vedevano ormai come inevitabile. A questo proposito le curatrici ben evidenziano come both dictatorships […] considered feminist literature to be a distorting factor for the development of their ideology (p. 3: «entrambe le dittature […] considerassero la letteratura femminista un fattore deformante per lo sviluppo della loro ideologia» – traduzione mia).
Il volume risulta dunque interessante sia per i vari casi presentati, sia per la presenza di immagini di materiale d’archivio inedito, soprattutto su Wollstonecraft e de Beauvoir, sebbene a volte si debba lamentare una certa ripetitività per quanto riguarda la presentazione del contesto storico-politico del paese preso in considerazione, ripreso nei singoli saggi. Una ripetitività che si sarebbe forse potuta evitare optando per una più corposa introduzione a ciascuna sezione, che avrebbe però reso meno autonomi i singoli interventi. Emerge bene, di contro, quanto sia stato importante il lavoro di inserimento della letteratura femminile nel contesto culturale di regime al fine di trovare una narrazione alternativa della donna. Mentre prima del secondo conflitto mondiale la società proponeva sempre più un modello di donna moderna, impegnata e socialmente attiva, l’ideologia fascista, così come quella franchista, cercò sempre più di richiudere la donna tra le pareti domestiche, con la famiglia e la casa come uniche occupazioni. In tale contesto era dunque fondamentale far penetrare storie di donne, o esempi di donne scrittrici, pensatrici, professioniste, anche a costo di operare un’autocensura che permettesse a queste storie di circolare.