La recensione / 1 – Primo Levi da vicino

di Eva Allione

A proposito di: Lezioni Primo Levi, a cura di Fabio Levi e Domenico Scarpa, Milano, Mondadori, 2019, pp. 648, € 28,00

Organizzate dal Centro internazionale di studi Primo Levi, le Lezioni poggiano su due capisaldi: la consapevolezza «della qualità del Levi scrittore e della ricchezza della sua opera» e la volontà di «precisare questa convinzione, di consolidarne le fondamenta radicandola più profondamente nello studio dei testi, […] di favorire un accesso rinnovato all’opera anche fra il pubblico dei non esperti», nonché di allargare «gli orizzonti della ricerca, estendendola a territori ancora ignoti». La formula è semplice: a partire dal 2009, ogni anno viene scelto uno studioso con competenze diverse – storici, linguisti, traduttori, esperti di tradizione ebraica – a cui si chiede «di sviluppare in forma originale un tema che [aiuti] a ripercorrere l’opera a partire da interrogativi emersi dal dibattito critico e dalla curiosità sul presente». L’obiettivo è duplice: alla produzione di un testo scritto «originale e di qualità alta», da pubblicarsi in italiano e in traduzione inglese per i tipi di Einaudi, andrà affiancata un’esposizione orale «pienamente comprensibile anche da parte dei più giovani» (p. vi): una vera e propria lezione da tenersi a Torino, per un pubblico vario e comprensivo di studenti delle scuole superiori.

Le prime dieci lezioni escono ora per Mondadori in un volume unico curato da Fabio Levi e Domenico Scarpa. Al netto di revisioni e aggiunte (alcuni dei saggi sono stati ampliati, o aggiornati sulla base di inediti leviani scoperti nel frattempo), l’operazione nasce forse dall’intento di riproporre l’opera a un pubblico più comune: il tomo, nonostante l’elevato numero di pagine, è agevole da leggere, l’inglese è scomparso, il prezzo è più che abbordabile. Data la genesi, il contenuto non poteva che essere fortemente eterogeneo, tanto nel tema quanto nello stile, e in effetti il volume va letto come un agglomerato di testi indipendenti: una serie di escursioni sull’opera leviana che è possibile – forse consigliabile – leggere diluite nel tempo, sia perché l’approccio non è particolarmente divulgativo (e in alcuni casi le suggestioni proposte potrebbero richiedere un po’ di sedimentazione), sia perché svariati, e diversissimi, sono i metodi e i punti di vista adottati.

La prima lezione, «Sfacciata fortuna». La Shoah e il caso di Robert S. C. Gordon, comincia come una divagazione: ricostruisce l’evoluzione del concetto di fortuna nel mondo occidentale, e solo dopo un «percorso deliberatamente tortuoso» (p. 5) si riavvicina a Se questo è un uomo, e in particolare all’incipit – «Per mia fortuna, sono stato deportato ad Auschwitz» – lasciando lo sbalordito lettore a chiedersi se sono davvero quelle le parole, se sono sempre state così grottesche, e perché non se ne sia accorto prima.

Ricca di appendici gustose, ma costruita intorno all’idea forte del Lager e della scrittura come esperimenti, è appunto Esperimento Auschwitz, di Massimo Bucciantini, dove alla narrazione di un Levi centauro, mezzo chimico e mezzo scrittore, seguono considerazioni sulla fortuna editoriale di Se questo è un uomo soprattutto nei circoli non letterari (ad esempio presso un personaggio di tutt’altro ambito come Franco Basaglia, lo pischiatra che si batté per la chiusura dei manicomi).

Decisamente eterogenea, e assemblata un po’ come un patchwork, è Una telefonata con Primo Levi, in cui Stefano Bartezzaghi prima tratteggia un Primo Levi («l’Impervio», p. 129) amante degli anagrammi, dei palindromi e delle sfide impossibili – uno che «non si accontenta di dire quello che è facile dire con chiarezza e concisione. Si mette nei guai, come l’alpinista che è attratto dalla “carne dell’orso”, dalla salita più ripida e rischiosa» (p. 129) – e poi l’accosta a Calvino, a Queneau e addirittura a Foster Wallace, in un gioco forse un po’ fine a se stesso ma indubbiamente divertente.

Più ancorato al testo leviano è l’approccio di Mario Barenghi, che intesse la sua lezione intorno all’assurdo quesito che le dà il titolo: Perché crediamo a Primo Levi? L’assurdità si dissolve guardando all’opera di Levi come a una traduzione, una trasposizione dal reale allo scritto: ed è un’operazione appassionante (e appassionata) perché mostra che, come in ogni traduzione, qualcosa andrà necessariamente perduto nel processo, e qualcos’altro guadagnato.

Spicca per compattezza e narratività la lezione Raccontare per la storia, in cui Anna Bravo ricostruisce la formazione, il significato e la diffusione dell’espressione «zona grigia», un neologismo leviano di cui pochi hanno memoria, oggi adoperato in contesti spesso lontani dall’originale.

Rimane invece rasente la parola scritta In un’altra lingua, di Ann Goldstein e Domenico Scarpa, che diede allora occasione a una bella intervista di Susanna Basso a quest’ultimo pubblicata su «tradurre», inaugurandovi la rubrica omonima. Nella prima parte, Goldstein riporta esempi dalla traduzione di Se questo è un uomo che sono una perla per qualunque professionista della lingua (traduttori in primis); nella seconda, partendo dall’affermazione proustiana secondo cui «i bei libri sono scritti in una lingua straniera che si fa comprendere» (p. 298), Scarpa si addentra in un’emozionante analisi della scrittura di Levi, dipingendo un autore costantemente impegnato nello sforzo per aumentare «la realtà comprensibile, pronunciabile, descrivibile, narrabile» (p. 303), dalla resa dell’«acustica di Auschwitz» (p. 278) alla necessità di saccheggiare le varie lingue per ampliare le proprie capacità espressive.

Più descrittivo, e discorsivo, è l’approccio di Francesco Cassata, che in Fantascienza? racconta le Storie naturali e Vizio di forma: opere meno note (e da recuperare) in cui emerge un interesse per la fantascienza (una fantascienza italiana, ecologica, oggi diremmo distopica) e soprattutto per le smagliature (p. 332) che questa può aprire nel reale e nel razionale.

Avvincente come un romanzo, Primo Levi e i tedeschi di Martina Mengoni affronta con rigore cronologico una storia tutta umana: quella del rapporto fra Primo Levi e i suoi lettori, editori e traduttori tedeschi, a partire dalle lettere di Heinz Riedt, traduttore di Se questo è un uomo alle prese coi dilemmi grandi e piccoli del mestiere.
Minuziosamente linguistica è l’indagine di Alberto Cavaglion e Paola Valabrega, che in «Fioca e un po’ profana». La voce del sacro in Primo Levi passano al microscopio i testi per ribaltare l’immagine comune di Levi scrittore della chiarezza e della concisione, e approfondire le zone d’ombra della sua scrittura: fra espressioni oscure, riferimenti impliciti a Dante, echi del divino e parodie, la lezione serpeggia lungo quell’«orlo dell’inconoscibile» (p. 544) che tanto affascinava Levi

In chiusura, i Dialoghi di Fabio Levi pongono lo scrittore di fronte alla ricezione dei suoi testi e alle domande che gli venivano rivolte dagli studenti, negli incontri a cui accettava sempre di partecipare: un’interessante operazione di recupero che suggerisce il contesto – di confronto e dialogo, soprattutto con le scuole – in cui vogliono collocarsi anche le Lezioni di oggi.

In questa eterogeneità di metodi, di interessi e discipline, non si può non notare l’ingombrante presenza, in tutte le lezioni, del tema del Lager; solo Bartezzaghi, Cassata e Levi focalizzano l’attenzione altrove, ma anche nelle loro lezioni i riferimenti all’esperienza di testimone di Primo Levi sono costanti e significativi. L’insistenza può sembrare contraddire la premessa da cui muovono le lezioni, per cui «la sequenza testimone-scrittore [dà] una rappresentazione limitativa e fuorviante dell’itinerario effettivamente seguito da Levi» (p. V); un assunto forse metabolizzato dalla critica, ma non dal pubblico comune, che con questo volume vede implicitamente confermata la centralità di Se questo è un uomo nell’opera leviana, e di conseguenza l’associazione Levi-testimone (è una minuzia, ma la fotografia scelta per la copertina rafforza quest’impressione: il Levi che ci guarda severamente da sotto gli occhiali sembra rappresentare più la Storia e la Scienza che la scrittura creativa).

D’altro canto, forse l’esperienza del Lager è davvero imprescindibile, e forse le opere che la affrontano direttamente sono le più riuscite di Levi, e dunque quelle su cui è doveroso soffermarsi. In questo senso, alle Lezioni va riconosciuto il merito di non discostarsi mai dai testi, di non parlarne dall’esterno (limitandosi a raccontare o contestualizzare i contenuti) ma di mostrarceli dall’interno, e da vicino, periodo per periodo, parola per parola.