Primo attrezzo: una sana paura

LA TRADUTTRICE PROFESSIONALE ALLE PRESE CON I TESTI DI STORIA

di Paola Mazzarelli

Gilbert Garcin, “Le funambule”

Dove sta la storia?

Quando mi è stato chiesto di raccontare la mia esperienza di traduttrice di storia sono rimasta spiazzata. Io? Ma io non sono una traduttrice di storia! Sì, è vero, molti anni fa ho tradotto Echoes of the Marseillaise, di Eric Hobsbawm (Echi della marsigliese, Rizzoli 1991) ma solo perché non avevo idea di chi fosse l’autore. Quando l’ho capito, era troppo tardi per dire no. E’ anche vero che ho tradotto due libri di Antonia Fraser, una signora che mi fu presentata dall’editore con queste parole: «La moglie di Harold Pinter. Una storica, ma scrive bene». Quel “ma” spalancava un mondo di domande interessanti. Gli storici scrivono male? La signora Fraser scrive bene perché influenzata dall’illustre consorte? (Comunque, sì, la signora scrive “bene”). Ma quelli di Antonia Fraser non sono libri di storia per storici! Sono libri divulgativi, per un pubblico di lettori curiosi. Colti e curiosi…

E i tre libri di Simon Schama, allora? Anche Schama è uno storico: all’epoca insegnava alla Columbia University. Mi fu presentato da Andrea Cane, allora alla Mondadori, con queste parole: «È uno storico, ma scrive come un romanziere». Il “ma” evidentemente per gli storici è di prammatica. O forse in quel caso doveva servire ad allettare una traduttrice che storceva il naso davanti alla proposta. L’esperienza di Hobsbawm mi era bastata. Non mi sono mai sentita sulle sabbie mobili come con quel libro, specie quando ho capito chi era l’autore che avevo baldanzosamente accettato e a chi, presumibilmente, sarebbe finita in mano la mia traduzione. E sarò eternamente grata a un amico – Marco Palla, un vero storico: accademico, serio, attendibile – che ebbe la compiacenza di rileggere la mia traduzione (per sua, e mia, fortuna, il libro era “corto”) e mi salvò dallo scrivere troppe idiozie. Benedetti siano, sempre e ovunque, gli amici dei traduttori.

Ma, per tornare a Schama (che naturalmente all’epoca non avevo mai sentito nominare)… Quando si è giovani di belle speranze si pensa che gli editori debbano tradurre solo romanzi e che tutto il resto non sia roba nostra. Complice quella sorta di mitologia del tradurre letteratura che resiste imperterrita ancora oggi – quando i problemi del tradurre sono ben altri – facendo, tra l’altro, il buon gioco di un’editoria molto di consumo e molto poco di cultura. Comunque, sia pure storcendo il naso, alla fine accettai, un po’ perché mi fidavo di Andrea Cane e un po’ perché se fai della traduzione editoriale il tuo mestiere – com’era per me allora – traduci quel che passa il convento e non puoi fare tanto la schizzinosa. Io, in ogni caso, non potevo. Dovevo campare.

Mi trovai in mano Dead certainties (Le molte morti del generale Wolfe, Mondadori 1992). Era vero: è scritto come un romanzo. E fu amore a prima vista e passione travolgente per il resto della mia vita di traduttrice. Gli altri libri di Schama li ho “scelti”, se si può chiamare “scelta” il trovarsi nella fortunata coincidenza di essere liberi e disponibili a lavorare per un anno a testa bassa su un solo libro proprio quando l’editore ha quel libro da tradurre. Ma è un fatto che Schama, tradotto una volta, lo volevo tradurre ancora. Lo volevo fortissimamente. Finché, come per tutte le passioni, è venuta l’età in cui mancano le forze e bisogna rassegnarsi, con poco onorevoli sentimenti di odio e di gelosia, a lasciare libero il campo. Perché di forze, per non dire del tempo, per tradurre Schama ce ne vogliono molte. E però, anche Schama… come definirlo? Storico? Divulgatore? Schama è Schama.

Ed è pensando ai libri di Schama – che sfuggono alle etichette, “ma” (o forse per questo) sono meravigliosi – che mi viene un dubbio. Gli autori che ho citato finora erano tutti “storici”, e come tali mi erano stati presentati. Nel mio curriculum fanno solo sei libri, che in effetti ammontano a migliaia di cartelle, perché gli storici scrivono per lo più libri “lunghi” (come li definirebbero i miei allievi). A ben guardare, però, io cose di storia ne ho tradotte ben di più. Se si spalanca la porta della letteratura divulgativa di ambito umanistico, non necessariamente scritta da storici, ma magari da giornalisti o cultori della materia o scrittori di vario genere e provenienza, nella storia si incoccia in continuazione. Non solo in quei libri e autori – come quelli che ho citato – che si presentano col cartellino “storia” appiccicato in fronte, ma ovunque, e spesso proprio dove meno te la aspetteresti. La storia è sempre lì, appena dietro l’angolo, a guardarti in faccia spudoratamente con l’aria di dire «vediamo un po’, adesso, come te la cavi», oppure travestita da piccola fiammiferaia, che quasi neanche la vedi e ci inciampi finendo lungo disteso mentre te ne vai per la tua strada di felice e distratto traduttore editoriale. Con buona pace del mondo in cui viviamo, che cerca in tutti i modi di cancellarla.

Ma allora… be’, allora sì, in un certo senso sono una traduttrice di storia. Tutti, o quasi tutti, noi traduttori editoriali che un po’ di saggistica l’abbiamo tradotta e la traduciamo siamo traduttori di storia. Dunque, e lo dico soprattutto per i giovani, se per caso mi leggono: mettetevi l’anima in pace, la storia ce l’avrete sempre tra i piedi. Converrà tenerne conto e attrezzarsi.

Gli attrezzi

Il primo attrezzo è la paura. Una sana paura di prendere granchi. Il carattere in questo aiuta: giova al traduttore essere un perfezionista. Si perde il sonno, ma si traduce meglio. Nella sua forma nobile, la paura si chiama porsi domande e non dare mai niente per scontato. Facile a dirsi, mica tanto facile a farsi. Anche senza considerare che si ha spesso una gran fretta e quindi le domande magari te le fai anche, ma le risposte non hai tutto il tempo del mondo per cercarle, resta il fatto che questa faccenda del porsi domande è un cane che si morde la coda. Perché per farti le domande, devi sapere che domande farti. E quando lo sai sei già a metà strada. Quelle che ti fregano sono le domande che non erano neppure comparse all’orizzonte. Salterà fuori, prima o poi, un lettore che ti farà le pulci. Una cosa che ho imparato negli anni è che se traduci narrativa, della tua traduzione si dirà magari – in bene o in male o per lo più vacuamente, né in bene né in male – in qualche recensione; ma quando traduci saggistica può sempre saltare fuori un lettore che ti prende in castagna. Perché i lettori di saggistica, a differenza di quelli di narrativa, molto spesso sanno il fatto loro. E capita che scrivano al traduttore per contestare. O magari scrivono all’editore e l’editore – lavandosene bellamente le mani – inoltra. Perché è inutile che ce la contiamo: la traduzione, quando si viene al dunque, è di chi la firma. E tanto più quel genere di traduzione di cui sto parlando, dove la storia facendo finta di niente sbuca fuori in continuazione. Perché se non si lavora con redazioni competenti e specializzate in ambito storico (pare che qualcuna ci sia, o ci sia stata; io non le ho mai incontrate) di storia nessuno sa un accidente di niente. Del resto, come mi ha detto una volta l’editor della saggistica di una grande casa editrice, «Non penserai mica che noi li leggiamo, i libri che facciamo». Certo che no! Come potrebbe mai passarmi per la testa un’idea del genere! Dunque, nessuno ne sa niente. Tranne i lettori, appunto. Sicché capita che una redazione tolga tutti gli avverbi in -mente e tutte le rime interne, metta a posto virgole, maiuscole e minuscole, e corregga perfino i refusi, ma passi le peggiori bestialità. Come del resto sa e vede e lamenta tutti i giorni il lettore di saggistica. E dunque, caro traduttore, è meglio che di bestialità tu non ne scriva. E per non scriverne, non c’è che farsi venire più dubbi e porsi più domande di quelle che ci vengono in mente. Una bella fatica.

Il secondo attrezzo è la passione. Fatta la domanda, sorto il dubbio, non resta che cercare la risposta. Facile a dirsi. Facile anche a farsi, se andare a rovistare nei depositi della conoscenza e della lingua è quello che vorremmo fare sempre e comunque nella vita. Se non è così, non ci sono santi: nessuna traduzione di saggistica vale la fatica che costa, e non dico solo in termini economici. Conviene di gran lunga, sotto tutti i punti di vista, tradurre narrativa di consumo: tutta uguale, tutta banale, tutta facile, con giusto, qua e là, il sale e pepe di una ricerchina ogni tanto. E meno male che capitano anche i libri di narrativa di consumo, ché con quelli qualcosa si guadagna. Ma la ricerca che richiede un buon libro di saggistica è ben altra cosa. Per quella ci vuole la passione.

Io ce l’ho. Poche cose nella mia vita sono state più entusiasmanti e coinvolgenti – e più faticose in termini di tempo e di energie – del tradurre certi libri. Libri – e Schama sta in cima alla lista – che spalancano mondi a ogni pagina, instaurano collegamenti, ti dispiegano davanti agli occhi una intelligenza, una profondità, una lucidità che abbacinano. La fatica, e di pari passo l’entusiasmo, dipendono dal fatto che le montagne notoriamente sono tutte in salita: per tradurre una grande intelligenza e una grande cultura bisogna essere molto intelligenti e molto colti. E siccome io non lo sono, ogni volta ho dovuto diventarlo. Studiando, approfondendo. Andando a frugare là dove mi pareva che avrei forse trovato quello che cercavo. Ma sapere cosa cerco è un conto, sapere dove cercarlo è un altro. Però deve esistere un Sant’Antonio dei traduttori, perché si trova sempre (o quasi sempre) quello che si cerca. Ma siccome per ogni libro che traduci le cose che non sai sono diverse, dentro quel “forse” ci sono un bel po’ di soldi spesi in libri, Garzantine, dizionari; ore e giornate e settimane di bivacchi in biblioteca; interviste ad amici, conoscenti e sconosciuti a vario titolo esperti di questo e di quello. E’ cosa che allarga il cuore scoprire quante persone sono disponibili a spiegare a chi chiede. C’è stato anche un signore che si dilettava di riprodurre capolavori della pittura antica il quale mi spiegò, in un indimenticabile pomeriggio, come venivano fatti esattamente i colori nella bottega di Rembrandt. (A scanso di equivoci, mi spiegò anche che le sue riproduzioni erano tutte in scala lievemente inferiore all’originale, perché mai e poi mai potessero essere spacciate per la cosa vera. Caso mai io pensassi di aver conosciuto un falsario).

Non ho infilato nelle risorse della ricerca la moderna onnipresente sfera di cristallo. Va da sé che, da quando è comparsa, ai bivacchi in biblioteca si sono sostituiti – in maggiore o minor misura, a seconda di quello che traduco (e certo con maggior danno di occhi e di schiena) – i bivacchi davanti allo schermo. Ma la sostanza non cambia. Per i traduttori della mia generazione, che hanno imparato a cercare in un mondo in cui il sapere era relativamente ordinato e sufficientemente biologico da poter essere digerito senza troppo danno, la sfera di cristallo è uno strumento come un altro, dove al tempo che una volta ti serviva per andare fino in biblioteca, si è sostituito il tempo che oggi ti serve per scartare tutta la fuffa che trovi. Uno strumento come un altro, che non necessariamente sostituisce gli altri. Difficile convincere i giovani aspiranti traduttori che “l’ho trovato” (sottinteso in rete) non significa nulla, e non è di per sé garanzia di correttezza, né tanto meno di scientificità. Difficile, anzi, spesso impossibile: lo dico per esperienza diretta di una battaglia che combatto tutti i giorni da anni a questa parte. E va detto che per i giovani, oggi, proprio perché hanno la sfera di cristallo a disposizione, imparare a cercare è molto più difficile di quello che è stato per noi, che non l’avevamo. Nella ricerca, come in qualunque altra cosa, puoi prendere le scorciatoie solo se sai qual è e dove va la strada principale.

Sulle orme dell’autore

La ricerca di cui ho detto è una ricerca che porta il traduttore a percorrere le stesse strade che ha percorso l’autore. Devo arrivare là dove è passato lui, e spesso nel modo in cui ci è passato lui, per poter tradurre. E finché si resta nell’ambito, sia pure allargato, del lessico, si tratta pur sempre di una strada maestra. Quando ho trovato la straordinaria Storia del costume in Italia di Rosita Levi Pisetzky (Istituto Editoriale Italiano, 1964-69) – se mai ho desiderato rubare un’opera da una biblioteca, era quella – anche le minuziose descrizioni dei ritratti a figura intera di Rubens che trovavo in Rembrandt’s Eyes di Schama (Gli occhi di Rembrandt, Mondadori 2000) sono diventate traducibili. Che scoperta fu quella! Non credo esista da nessun’altra parte un così esauriente elenco – diviso per epoche storiche – di abiti e parti di abito, biancheria e accessori, da uomo, da donna e da bambino, da tutti i giorni e da ricevimento, dei padroni e dei servi, dei borghesi e dei contadini… Ma il bello è che a illustrare quei volumi ci sono, per tutte le epoche anteriori alla comparsa dei figurini, dipinti di autori più o meno famosi. Nel caso specifico, c’erano i dipinti di Rubens di cui stavo appunto traducendo. Fu la stessa sorpresa, a metà tra l’entusiasmo e l’incredulità, di quando a scuola trovavo tra gli esempi del vocabolario una frase della versione di latino o di greco del compito in classe. Un improvviso, emozionante affiorare della realtà sulla pagina del libro.

Dicevo del lessico. Ci si arriva sempre, basta essere abbastanza tenaci. Ed è, quando ci si arriva, una gran bella soddisfazione. Il lessico non è cosa così semplice come a volte si immagina: sta, come tutto il resto, nella storia. Ma siccome ci stanno anche i dizionari, nei dizionari un gran numero di parole che ci servono quando traduciamo “di storia” non ci sono. O ci sono in accezioni diverse. Ma il lessico è il grado zero: quando sai che per ogni cosa c’è una parola, quella parola prima o poi la trovi. Che sia il nome di una battaglia, di un tipo di archibugio, di una stoffa, di una setta religiosa, di un partito politico, o di qualsiasi altra cosa che, essendo esistita da qualche parte, abbia avuto a un certo punto un nome.

Altre, e spesso molto più tortuose e intricate, sono le strade del pensiero. Per quanto chiara, limpida e coerente possa essere l’esposizione di un autore, ci saranno sempre zone d’ombra che saltano fuori nel momento stesso in cui traduci. Ti pareva tutto chiaro. E ora sei lì a dover decidere se prendere a destra o a sinistra. E non sai cosa fare. Nella narrativa può anche non fare grande differenza. Inventi qualcosa che ci possa stare, e di solito ci sta. Ma quando hai tra i piedi la storia – come sarà anche per la scienza, senza dubbio, ma io di scienza non traduco – non puoi inventare un bel niente. Devi sapere. E per sapere devi aver capito. Mai come traducendo saggistica ho sperimentato sulla mia pelle di traduttrice che cosa vuol dire davvero quella bella frase che circola nelle stanze della teoria della traduzione: «l’intenzione del testo». L’intenzione del testo, nella saggistica, ha una corrispondenza nella realtà. Nello specifico mio, nella realtà storica.

Che frustrazione, quando non capisci esattamente. Ti spacchi la testa, te la prendi con l’autore, imprechi, provi e riprovi, ma niente da fare. Manca un passaggio. E più spesso che non si creda manca molto più di un passaggio. Fa in fretta l’autore, che sa (diamogli credito) di che cosa parla, a tirar via così, un po’ alla carlona. Ma tu, traduttore, non puoi tirar via: ambiguità sommata ad ambiguità, non fa ambiguità doppia, ma ambiguità al quadrato. Cioè non si capisce più niente. Anche qui, non ci sono santi: se non capisci tutto, ma proprio tutto, non puoi tradurre. I troppi dubbi paralizzano. Certo, qualcuno si risolve con le malizie del mestiere e nessuno se ne accorge. Ma per lo più ci devi mettere un rammendo. Un rammendo perfetto non si vede. Ma costa fatica e pazienza. Per rammendare, devi andare a ritroso: dal buco verso i fili intatti e dai fili intatti di nuovo verso il buco. Dalla pagina alle fonti e dalle fonti alla pagina. Altre ore in biblioteca.

Si capisce, se le fonti le trovi. La sciagura del traduttore sono gli autori che lavorano su fonti di seconda (o di terza o di quarta) mano senza indicarle. Ce ne sono, eccome. Non tra gli storici seri, ma in tutte le altre categorie che di storia scrivono. Nella mia esperienza, la palma della faciloneria va a certi autori americani che non ti danno neanche il riferimento della fonte che citano, magari anche per esteso. O che nelle bibliografie e nelle note citano i libri sbagliati. Li odio.

A proposito dell’andare alle fonti: a sentire i miei studenti e spesso anche certi giovani traduttori parrebbe che il punto del tradurre saggistica stia in gran parte nel “cercare le citazioni”, cioè nello scovare da qualche parte una traduzione “accreditata” (vale a dire pubblicata in italiano) dei testi da cui cita l’autore che stiamo traducendo. In modo da prendere di là il brano citato, senza doversi rompere la testa a tradurlo. E ho l’impressione che oggi – anche in molte redazioni – questa pratica venga considerata una norma assoluta. Sicché si va a “cercare la citazione” anche quando quella benedetta citazione è costituita da poche e insignificanti parole. Io sono cresciuta in un mondo senza rete: vado a cercare le citazioni solo quando non ne posso fare a meno. E cioè, in primo luogo quando l’autore citato (in traduzione inglese) è un autore che ha scritto in italiano; in secondo luogo (ma con molti distinguo) quando la citazione è tratta da opere di scrittori, soprattutto poeti, che appartengono a un canone letterario e quindi presumibilmente sono stati tradotti in italiano da qualcuno che di quei testi ne sapeva certo più di me; in terzo luogo, quando la citazione (e relativa traduzione “accreditata”) sono fondamentali alla comprensione del testo che sto traducendo. In quasi tutti gli altri casi, e sono la maggioranza, la fatica non vale la candela. Perché quando la citazione che ti serve la trovi già bell’e tradotta da qualche altra parte, due volte su tre capita che quella traduzione è inservibile, o perché è sbagliata, o perché manca proprio di quelle quattro paroline che ti sarebbero servite tanto (eh già, non sei l’unico che lì ha visto un inciampo), o ancora perché è così goffa che nella tua pagina non ce la vuoi mettere (caso frequentissimo, questo). Oppure, semplicemente, scopri che così com’è stato tradotto altrove, quel passo nel tuo testo non ha senso e ti tocca comunque adattarlo al discorso che il tuo autore, e di conseguenza tu, state facendo. Ma se una citazione la cerchi e poi ci devi lavorare sopra, tanto valeva lavorarci fin dall’inizio e non perdere tempo. Ché sono ben altre le cose su cui conviene “perdere tempo”. Per esempio, quando devi andare a cercare la fonte perché se no non capisci che cosa sta dicendo l’autore. E quante volte, allora, la ricerca diventa studio. Perdi la cognizione del tempo e, ahimè, delle cartelle che in teoria dovresti finire quel giorno, o quella settimana… però sei felice. Insomma, imparare a distinguere è questione di sopravvivenza.

A proposito di citazioni e di fonti, ho detto che le uniche davvero ineludibili sono quelle da testi scritti originariamente in italiano. E quelle, se traduci saggistica di ambito umanistico, specie se “storica”, sono più frequenti di quanto non si creda. Un conto, però, è andare a cercare una pagina di Guicciardini, un altro trovarsi davanti a una estesa citazione dal testo di un umanista italiano vissuto alla corte di Elisabetta I e della cui opera esiste una sola copia manoscritta alla British Library. Il minimo che si può dire è che il secondo caso è molto più appassionante. Ne Gli occhi di Rembrandt, Schama cita estesamente parecchie lettere di Rubens. Bene, che problema c’è? Che quelle lettere – come ho scoperto in quell’occasione – sono scritte in italiano, in parte perché risalgono agli anni in cui Rubens viveva a Mantova alla corte dei Gonzaga, ma soprattutto perché l’italiano era all’epoca una delle lingue della comunicazione colta. Già, ma quando traducevo quel libro io abitavo in un mondo senza rete sotto i piedi (o almeno non era così estesa come oggi). Sapevo dalla bibliografia che esisteva una raccolta di quelle lettere (Lettere italiane di Pietro Paolo Rubens, a cura di Irene Cotta, Roma 1987). Ma di quella raccolta non c’era traccia nelle biblioteche torinesi. Trovai – non ricordo come, ma trovai – che ce n’era una copia a Venezia, il che mi risparmiò un viaggio – con incerto risultato – alla Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze. Non c’era la rete, ma il prestito interbibliotecario sì. Arrivò il libro, trovai le citazioni e, naturalmente, feci molto di più: lo lessi da cima a fondo, poi lo rubai (in fotocopia). Perché, come si può vivere senza le lettere di Rubens in italiano (ancorché in fotocopia) nella propria biblioteca? E così ho raccontato in poche righe uno degli episodi prima più disperanti, poi – trovate le lettere – più entusiasmanti della mia carriera. Così è tradurre storia: in poche righe può stare un mondo intero ed è un mondo che non puoi inventare, per quanto fine traduttore tu possa essere.

Alla fine, la scrittura

Dopodiché non resta che scrivere. E non è cosa da poco. Scrivere in buon italiano – per quanto dirlo possa sembrare ovvio – non è per nulla ovvio. Né, tanto meno, facile. Come ho detto, devo capire per poter tradurre. Ma quando capisco, mi rendo anche conto che sulla pagina devo lavorare, perché la mia in italiano venga a dire al lettore italiano quello che la pagina in inglese dice al lettore anglofono per cui è stata scritta. Si sente spesso dire che l’inglese sottintende i connettivi. In realtà – va da sé che parlo molto in generale – l’organizzazione del pensiero nella pagina per unità minime (cioè, di solito, per capoversi) funziona in modo diverso nelle due lingue. In inglese (spesso, e con sempre maggiore frequenza negli autori moderni, specie se americani) quello che conta è l’ordine con cui vengono esposti i concetti all’interno del capoverso. In italiano è la sintassi. Ho imparato traducendo che, perché il mio lettore non perda per strada il filo rosso del discorso, spesso è necessario “riscrivere” – cioè riorganizzare in periodi composti da principali e subordinate, legate tra loro dai famosi connettivi – un intero capoverso che a prima vista appare tutto costruito con frasi principali e giusto qualche inciso. Ed ecco che ho appena finito di scrivere un periodo (chiamiamolo testo A) che in un libro americano contemporaneo potrebbe essere esposto grosso modo così (lo chiameremo testo B):

Il lettore non deve perdere per strada il filo rosso del discorso. Bisogna spesso riscrivere i capoversi. Un capoverso può essere costruito con frasi principali e giusto qualche inciso. Riscrivere significa riorganizzare in periodi composti da principali e subordinate. Le principali e le subordinate sono legate tra loro dai famosi connettivi. Questo l’ho imparato traducendo. In questo modo il lettore segue il filo rosso del discorso.

Perdonate la rozzezza dell’esempio, che non rende giustizia al nostro ipotetico autore. È un esempio estremo, che appunto vale come esempio, per capire di che cosa stiamo parlando. Come? Ah, ho dimenticato nella mia “riscrittura” (il testo A) quell’ultimo: «In questo modo il lettore segue il filo rosso del discorso»? No, non è dimenticanza. Quella è “la coda”, quasi sempre presente nella saggistica americana. In traduzione le code si tagliano.

Riscritture sul genere di quella dell’esempio, cioè che accorpano e ridistribuiscono, organizzano sintatticamente (ovvero logicamente) e se necessario sintetizzano, sono il pane quotidiano del traduttore di saggistica (che traduca dall’inglese, soprattutto americano; da altre lingue non ho esperienza). In pratica, si tratta di passare da un sistema retorico a un altro: il mio lettore capisce meglio, più rapidamente e senza che gli venga l’orticaria, il testo A del testo B. Certo, qui presuppongo un lettore colto, non un lettore che non riesce ad afferrare il senso di frasi più lunghe di 140 caratteri. Quest’ultimo, in ogni caso, il mio libro non lo leggerà.

Il discorso non è ozioso. Nelle redazioni che si occupano di narrativa (e non solo di intrattenimento) si sente costantemente il ritornello della “scorrevolezza” e della “leggibilità” della pagina. In quelle che si occupano di saggistica, quel ritornello – che sarebbe tanto più necessario – non lo si sente mai. Rarissimamente mi sono capitati revisori che si siano presi la briga di intervenire là dove le mie traduzioni ricalcavano troppo e ingiustificatamente la struttura del testo originale. Si tolgono, a volte con un accanimento che ha del maniacale, tutte le ripetizioni, ma si lasciano assurde ridondanze di soggetti e di possessivi, determinazioni di tempo in fondo alla frase, secondarie tutte dopo la principale (se pur di secondarie ne esistono), “code” inutili, inciampi logici di ogni genere.

Il lavoro di “riscrittura” di cui sto parlando è un lavoro necessario. Compete al traduttore di saggistica esattamente come compete lo “stile” dell’autore a chi traduce narrativa. Perché il mio lettore capisca, gli devo porre l’argomento in modo che gli risulti comprensibile. A volte basta girare qualche frase e aggiungere qualche connettivo al posto giusto. Ma spesso ci vuole molto di più: è un lavoro che richiede tempo, pazienza e, a seconda dell’entità, anche molta fatica. Ma è anche – anzi, forse proprio per questo – un lavoro che mi appassiona e mi entusiasma sempre. E’ un lavoro profondo sulla lingua che amo. Anzi, dentro la lingua che amo. In fondo, ho scelto questo mestiere perché mi piace scrivere.