Un classico in italiano: Paul Hazard e La crisi della coscienza europea

di Alessia Castagnino

Il contributo delle traduzioni alla ricerca storica

Quest’opera, ricevuta con tanto applauso in Inghilterra, ove nel breve corso di due anni se ne son fatte quattro edizioni, tradotta e con egual gradimento accolta in Francia, merita d’esser conosciuta in tutti i Paesi, ne’ quali il vero gusto dell’istoria si è conservato […]. L’Italia, patria di tanti famosi istorici, non mancherà senza dubbio di adottar questo [stile] nella sua lingua, ed il traduttore si farà gloria d’aver contribuito a fare in essa conoscere un soggetto di tanto merito (Crocchi 1765, I-II).

Nel 1765, nell’Avviso al lettore premesso alla sua traduzione dei primi otto libri della History of Scotland dello storico scozzese William Robertson, l’abate senese Pietro Crocchi – prolifico traduttore e maître de langue dei viaggiatori inglesi e francesi nel Granducato di Toscana in età leopoldina – utilizzava queste parole per riassumere le motivazioni principali che lo avevano spinto a dedicarsi a tale lavoro, realizzato inizialmente solo come divertissement e «occupazion di piacere» . La scelta di dare alle stampe quell’edizione era dipesa, infatti, non solo dal diretto suggerimento e dalle «premure» di uno dei grandtourists di cui era stato insegnante l’anno prima – il giovane Lord Mountstuart, figlio del più celebre Lord Bute e «persona di Qualità […] amica dell’Autore stesso» –, ma, soprattutto, dalla volontà di rendere disponibile nella penisola italiana un modello di narrazione e di analisi che riteneva esemplare per rigore e imparzialità nei giudizi, chiarezza argomentativa e «nobiltà ed eleganza» dello stile. Secondo Crocchi, l’opera robertsoniana aveva l’indubbio vantaggio di risultare istruttiva e piacevole da leggersi, ma anche utile per stimolare un necessario rinnovamento dell’antica e nobile tradizione toscana di «scrittura della storia» (Castagnino 2016).

L’abate senese non era – ovviamente – né l’unico né il primo a ritenere fondamentale per il progresso della storiografia il confronto con quanto di innovativo veniva prodotto al di fuori dei confini nazionali. Negli stessi decenni, ad esempio, numerosi editori avevano messo in cantiere progetti miranti a offrire ai lettori italiani le produzioni più interessanti pubblicate oltralpe e oltremanica (basti pensare alle collane o «Biblioteche storiche di tutte le Nazioni» uscite dai torchi fiorentini, senesi, veneziani, napoletani e milanesi tra la fine del Settecento e il primo Ottocento). Allo stesso tempo, gli stessi storici erano soliti promuovere, in prima persona, iniziative editoriali di presentazione e discussione di contributi rappresentativi di differenti tradizioni storiografiche, europee e non solo. In entrambi i casi, sia che si trattasse di far uscire sul mercato edizioni capaci di incontrare i gusti e le esigenze di un pubblico ampio – composto non solo da esperti –, sia che ci si rivolgesse a un bacino più ristretto di “addetti ai lavori”, tali attività potevano prevedere un utilizzo sistematico delle traduzioni, considerate uno degli strumenti più adatti per favorire la ricezione, ma anche l’appropriazione e rielaborazione di proposte interpretative, linguaggi e metodologie d’indagine.

Il rapporto tra ricerca storica e traduzione non si esaurisce solo su questo piano eminentemente pratico, ma, in tempi più recenti, ha avuto un’evoluzione significativa anche per quanto concerne il punto di vista della riflessione teorica. Dalla fine degli anni ottanta del secolo scorso, i processi traduttivi sono diventati un oggetto di interesse per studiosi provenienti da settori disciplinari diversi e non più riconducibili all’esclusivo ambito degli studi letterari, storico-linguistici o di letteratura comparata. Dialogando idealmente con discipline quali i Translation Studies e la Translation History, nonché interrogandosi sulle più recenti acquisizioni degli studi sul concetto di transfert culturale (Burke, Po-chia Hsia 2007; Espagne 2010; Cantarutti, Ferrari 2013), anche gli storici – e, in particolar modo, gli specialisti della tarda età moderna – si sono mostrati inclini a considerare le traduzioni una fonte di primaria importanza per l’analisi di vari fenomeni, dai meccanismi di disseminazione delle conoscenze scientifiche e di formazione di nuovi linguaggi filosofici, politico-economici o storiografici (Kontler 2008; Oz-Salzberger 2014) alle dinamiche dei nuovi consumi intellettuali e letterari che caratterizzarono l’Europa settecentesca (Trampus 2002). Lungi dall’essere una semplice testimonianza quantitativa della fortuna di un autore o di un’opera, esse hanno iniziato, dunque, a essere indagate come risultato di un articolato processo di negoziazione culturale – e non solo linguistica – che viene condizionato dalle caratteristiche del contesto ricevente e dal lavoro di mediazione di vari attori (siano essi i promotori delle imprese, i finanziatori o gli stessi traduttori, curatori e editori). Decodificare tutti i passaggi del processo traduttivo, dedicando il dovuto spazio tanto all’analisi dei rifacimenti del testo e del paratesto quanto alla ricostruzione dell’intervento dei vettori sociali, diventa cruciale per comprendere tutti i livelli di adattamento dell’originale e per ricavare informazioni utili per l’analisi di determinate questioni di carattere storiografico.

Tenendo nella dovuta considerazione le linee generali di questo quadro di riferimento teorico e metodologico, nelle pagine che seguiranno è mia intenzione presentare un primo ragionamento sul contributo dato dalle traduzioni alla ricezione italiana di alcuni dei contributi che hanno animato i dibattiti storiografici sull’Illuminismo nel Novecento. Senza alcuna pretesa di esaurire in pochi paragrafi tutte le sollecitazioni che questo complesso e affascinante tema può offrire, l’attenzione verrà rivolta a progetti traduttivi della prima metà del secolo e, ancor più nello specifico, alle strategie adottate dal francesista Paolo Serini per confezionare la prima edizione italiana del capolavoro del comparatista francese Paul Hazard, La crise de la conscience européenne.

Traduzioni e storiografia sull’Illuminismo nel primo e secondo dopoguerra

Come ha sostenuto Giuseppe Ricuperati nei suoi fondamentali e ben documentati saggi sulla storiografia del primo Novecento, tale periodo ha rappresentato un passaggio cruciale nel processo di ridefinizione o, meglio, di «reinvenzione» dei Lumi (Ricuperati 2000 e 2006). In modo particolare, tra le diverse fasi in cui giunsero a maturazione alcune delle interpretazioni più significative delle caratteristiche peculiari e autentiche del movimento illuminista, occupano uno spazio di assoluto rilievo gli anni centrali del secolo. Se, negli anni immediatamente precedenti la seconda guerra mondiale, a emergere con forza era stato il riferimento all’Illuminismo come «progetto etico-politico di ragione e moralità» da contrapporre all’emergere e al radicarsi dei regimi totalitari (Ricuperati 2000, VII), dopo il conflitto la drammatica esperienza della guerra e la necessità di gettare le basi per la ricostruzione di una società civile e democratica in diversi contesti europei avevano reso ancora più urgente una riflessione sulle «radici» della modernità e di valori primari quali la libertà e i diritti degli individui (Ricuperati 1996, 553).

Già nel periodo antecedente al 1939, sulle riviste scientifiche una prima, essenziale attività di traduzione aveva cominciato ad affiancarsi alla discussione di alcuni degli esiti più interessanti di tali nuove prospettive del dibattito storiografico. A questo proposito, può essere almeno ricordata la realizzazione della versione italiana della Philosophie der Aufklärung del filosofo tedesco Ernst Cassirer, opera data alle stampe nel 1932 e destinata a diventare un punto di riferimento imprescindibile per gli studiosi. Come è noto, vi veniva proposta una ricostruzione della filosofia dei Lumi e un’analisi dei grandi nuclei tematici che l’avevano caratterizzata (Cassirer 1932). L’edizione originale era stata recensita già nel 1933 sulle pagine de «La Critica» di Benedetto Croce e su quelle del «Giornale critico della filosofia italiana» – rispettivamente da Guido De Ruggiero e da Cecilia Motzo Dentici d’Accadia – e, lo stesso anno, una citazione del contributo cassireriano era stata inserita nella voce Illuminismo compilata da Federico Chabod per l’Enciclopedia italiana di scienze lettere ed arti diretta da Giovanni Gentile. Altrettanto tempestivamente era stata progettata una traduzione italiana integrale. A occuparsene era stato il germanista – e prolifico traduttore – Ervino Pocar, su incarico della casa editrice La Nuova Italia, diretta in quel periodo da Ernesto Codignola, il quale aveva impresso una svolta essenziale alle politiche della casa editrice re-indirizzandone la produzione – inizialmente rivolta alla divulgazione scientifica e alla letteratura – verso imprese molto più «impegnative», miranti a organizzare collane di opere storiografiche e filosofiche europee (Alatri 1987, 207-208). La filosofia dell’Illuminismo era quindi uscita nel 1935.

Nonostante questa rapidità nella ricezione e traduzione del testo – che aveva anticipato di molto le edizioni inglesi e francesi, che comparvero l’una al 1951 e l’altra al 1966 –, è però d’obbligo sottolineare come, per ragioni diverse, altri rilevanti lavori degli anni trenta avessero dovuto attendere, invece, la fine del secondo conflitto mondiale per essere resi disponibili ai lettori italiani. E’ questo il caso della Crise de la conscience européenne di Paul Hazard, su cui mi concentrerò in particolare, ma anche quello di The Heavenly City of the Eighteenth Century Philosophers (Becker 1932), una radicale interpretazione del progetto illuministico come «secolarizzazione imperfetta della Civitas Dei agostiniana», proposta dallo storico americano Carl Lotus Becker (Ricuperati 2000, 203). Entrambi i libri furono pubblicati in lingua italiana solo una decina di anni dopo, nel 1946. Il primo fu proposto, come vedremo, da Giulio Einaudi e il secondo dall’editore napoletano Riccardo Ricciardi, che aveva deciso di occuparsene su consiglio di Benedetto Croce e aveva affidato l’incarico a Umberto Morra di Lavriano, giornalista antifascista che, in precedenza, era stato collaboratore, tra l’altro, della rivista «La Rivoluzione liberale» di Piero Gobetti.

È soprattutto, infatti, a partire dal secondo dopoguerra che in Italia si verifica una reale intensificazione della produzione di traduzioni, che coinvolge direttamente le principali case editrici della penisola e alcuni degli storici impegnati nell’appena menzionato processo di ridefinizione della storiografia sul secolo dei Lumi. Mentre sul piano della ricerca veniva portato avanti un dialogo con il mondo accademico europeo – e in particolare francese – e venivano condotte indagini miranti a esplorare questioni nodali come le origini della Rivoluzione francese o il nesso tra Illuminismo e Risorgimento, parallelamente, in ambito editoriale, veniva incentivata l’organizzazione di nuove collane, composte tanto da saggi di studiosi italiani quanto da traduzioni. L’esempio della casa editrice Einaudi mostra molto bene l’importanza attribuita a questa specifica tipologia di produzione libraria. Sfogliando i cataloghi o scorrendo i verbali delle riunioni dei comitati di redazione delle varie collane risulta evidente l’alto numero di progetti messi in cantiere, tra gli anni quaranta e cinquanta, per tradurre sia i più recenti studi sulla storia politica, sociale e culturale del secolo dei Lumi, tra cui emergevano i lavori di Albert Mathiez e Georges Lefebvre (Turi 1990, 224), sia alcuni “classici” della storiografia europea (Mangoni 1999, 143-150, 304-314 e 769-813; Munari 2013). In quest’ultimo caso, possono essere ricordate le traduzioni delle opere di Robertson, Voltaire, Herder, Guizot, Constant, inserite all’interno della collana diretta da Chabod «Scrittori di storia», alle proposte della quale partecipavano attivamente studiosi quali Franco Venturi, traduttore e curatore della Philosophie der Geschichte di Herder (Herder 1951), Ernesto Sestan, Armando Saitta, Alessandro Galante Garrone, lo stesso Umberto Morra, o, ancora, Giorgio Falco e Giorgio Agosti, rispettivamente curatore e traduttore della View of the Progress of Society in Europe di Robertson (Robertson 1951).

Questa «frenesia di tradurre» (frénésie de traduire – Abbrugiati, Vitagliano 2015) era funzionale, dunque, al più ampio e sistematico programma di discussione e presentazione dei dibattiti storiografici del primo Novecento, che mirava anche a favorire – come sosteneva, tra gli altri, lo stesso Venturi – una “sprovincializzazione” della cultura italiana (Munari 2013, 244; Viarengo 2014, 191-198). Le traduzioni, in altre parole, erano ritenute lo strumento più adatto per far conoscere tutti quei libri di effettivo valore informativo e metodologico, con cui sarebbe stato utile confrontarsi, ma anche, molto più concretamente, per superare le oggettive difficoltà che si potevano incontrare nel cercare di reperire sul mercato italiano edizioni originali di opere straniere; non meno importante, esse erano considerate mezzo essenziale per adattare il testo di partenza al diverso contesto e alle esigenze dei nuovi lettori, dal momento che permettevano di aggiungere elementi paratestuali (introduzioni, appendici o note a piè di pagina), che potevano facilitare una migliore contestualizzazione della proposta dell’autore tradotto e una comparazione delle sue posizioni con quelle di altri storici.

Si inseriva perfettamente in queste progettualità intellettuali e editoriali la traduzione della Crise de la conscience européenne dello storico comparatista francese Paul Hazard, opera destinata a diventare un classico della storiografia sull’Illuminismo, anche grazie all’immediato riscontro che ebbe al di fuori della Francia, grazie alla traduzione tedesca stampata nella Germania nazista nel 1939, a quella spagnola del 1941 e a quella inglese del 1953, che proponeva – fin dalla scelta del titolo, che diventava The European Mind. The Critical Years, 1680-1715 – una particolare lettura della proposta originaria di Hazard, sostituendo il termine conscience con il più generico e meno problematico mind e relegando al sottotitolo l’idea di crise. A queste versioni, nel 1946, si aggiunse quella italiana, curata dal francesista Paolo Serini.

Paolo Serini, un «raffinato» e «finissimo» traduttore nella Torino del secondo dopoguerra

Prima di proporre qualche commento sulle strategie impiegate per dare alle stampe la prima edizione italiana dell’opera di Hazard, è necessario concentrare l’attenzione sulla figura di Paolo Serini, per cercare di capire quanto le sue competenze, motivazioni e idee – per così dire – traduttologiche abbiano influito sul suo lavoro di traduzione. In attesa della stesura di un profilo biografico esauriente che restituisca in tutta la sua ricchezza l’intensa attività editoriale e intellettuale dello studioso e, allo stesso tempo, ricostruisca anche i tratti peculiari del suo impegno civile e politico, mi limiterò, in questa occasione, a evidenziare solo alcuni degli aspetti più direttamente correlati al discorso generale che sto cercando di sviluppare.

Paolo Serini nacque a Vicenza nel 1899. Dopo aver partecipato come volontario alla fase finale della prima guerra mondiale, si trasferì a Napoli, scegliendo un percorso universitario che lo portò a conseguire la laurea in letteratura francese, discutendo una tesi su Henri Bergson. Parallelamente alle prime esperienze da traduttore e consulente editoriale nell’ambito della francesistica, intraprese la carriera di docente di storia e filosofia, insegnando dagli anni venti al liceo classico di Cremona (Denti 2010). Antifascista convinto, collaborò a testate clandestine come «Il Caffè. Periodico liberale padano», che si collegava idealmente al periodico illuminista dei fratelli Verri e mirava a discutere e rinnovare «con metodo e chiarezza le migliori tradizioni del liberalismo lombardo» (Caffè 1944, 1; Signori 1983). Arrestato con altri nei primi mesi del 1945 per la sua attività nella Resistenza e detenuto nelle carceri di Bergamo, fu liberato dai partigiani durante l’insurrezione e poté rientrare a Cremona, dove assunse, quale esponente del partito liberale, la presidenza del Cln provinciale (Parlato 1984, passim; Azzoni 2016, 59). Ripreso l’incarico di docente a Cremona, collaborò all’organo resistenziale del partito «Risorgimento liberale» e quindi al quotidiano liberale torinese «L’Opinione». Tra gli scritti dati alle stampe nel periodo, merita di essere segnalato un articolo – pubblicato per la prima volta, clandestinamente, nell’aprile del 1944 – finalizzato a «far conoscere ai giovani gli orientamenti del pensiero liberale contemporaneo» (Caponi 2019, 469). Il saggio venne successivamente riedito, nel giugno 1945, in un volume (La rinascita liberale e i giovani) scritto dallo stesso Serini e dal giurista cremonese Vittorio Denti, che, in appendice, riproponeva anche un ulteriore contributo del francesista sul tema (Liberali «conservatori»?).

Proseguì l’attività giornalistica collaborando a «Il Mondo» e a «La Stampa» per approdare infine a Torino alla redazione della casa editrice Einaudi – con la quale aveva già rapporti di collaborazione – dove si occupò attivamente di numerose e prestigiose collane di saggistica e di classici della letteratura francese (Turi 1990; Mangoni 1999); mantenne questo ruolo con costante impegno fino al sopraggiungere della malattia e della morte, il 14 febbraio del 1965. Negli anni torinesi, continuò anche ad occuparsi attivamente della difesa dei valori resistenziali, partecipando a dibattiti, pubblicazioni e all’attività di associazioni come la «Consulta», fondata a Torino nel 1952 da un gruppo di intellettuali laici e riformisti, come Guido Quazza, Norberto Bobbio – che ne sarebbe stato il primo presidente – lo stesso Serini e altri studiosi e giuristi come Domenico Riccardo Peretti Griva, Bruno Villabruna e Paolo Greco (Boccalatte 2008, 190; Cazzullo 1997).

Le sue prime esperienze da traduttore e curatore di edizioni italiane di opere francesi risalgono al 1923, anno di pubblicazione, presso la casa editrice Sansoni di Firenze, di una versione delle Riflessioni e massime che il marchese di Vauvenargues aveva dato alle stampe, ricorrendo all’anonimato, a Parigi nel 1746 (Vauvenargues 1923a). Negli anni successivi, Serini si dedicò a un’intensa attività di studio e di traduzione delle opere di autori francesi, curando, ad esempio, per Mondadori ed Einaudi, edizioni italiane delle Meditationes de prima philosophia e del Discours de la méthode di Cartesio (Cartesio 1929 e 1941), del saggio Science et religion dans la philosophie contemporaine del filosofo Émile Boutroux (Boutroux 1933), dell’Évolution créatrice di Henri Bergson (Bergson 1935) e di alcuni contributi di e su Blaise Pascal (Pascal 1945 e 1946). A questi ultimi tre filosofi dedicò, tra gli anni venti e quaranta, importanti saggi monografici, che consolidarono la sua reputazione di valente francesista (Serini 1922, 1923b e 1942). Tra gli autori affrontati da questo «raffinato» e «finissimo» traduttore (Ricuperati 2007, XXXIV-XXXV) non sarebbero mancati anche, da un lato, letterati e filosofi come Flaubert, Proust, Stendhal, Voltaire, e, dall’altro, storici come i già menzionati Mathiez e Lefebvre.

Un momento fondamentale nella carriera di Serini fu quindi l’avvio del rapporto lavorativo con Giulio Einaudi, che lo accolse con calore a Torino, soprattutto in virtù della sua serietà professionale e capacità di svolgere incarichi di consulenza e redazionali con cura e precisione quasi maniacali (Cazzullo 1997). Come scrisse, infatti, l’editore torinese in una lettera datata 26 giugno 1939, lo studioso vicentino aveva saputo entrare «benissimo» nello stile della sua casa editrice, che, senza dubbio, era quella «più pignolesca d’Italia» (Mangoni 1999, 33). Negli anni quaranta, altri avrebbero speso parole lusinghiere nei confronti di Serini. Il direttore editoriale Cesare Pavese lo annoverò nel ristretto gruppo di coloro che erano in grado di «rivede[re] un manoscritto o un libro al giorno», lavorando senza sosta al pari di «un cane mastino» e, per di più, senza pretendere «neanche uno stipendio alto» (Pavese 1966, II, 227). Anche Italo Calvino riconobbe il valore del traduttore vicentino, tratteggiandone sulle pagine del «Bollettino di informazioni culturali» della casa editrice un breve profilo biografico, in cui veniva messo in risalto il suo ruolo di “colonna portante” della Einaudi, che condivideva, oltre che con lo stesso Einaudi, con Pavese, Felice Balbo, Natalia Ginzburg e Oreste Molina, «un giovanotto smilzo che cura[va] il lavoro tipografico» (Bollettino 1948).

Benché tra gli anni quaranta e cinquanta gli fosse stata affidata la curatela diretta di diverse collane di narrativa (dai «Coralli» e «Supercoralli» ai «Narratori stranieri tradotti»), l’interesse di Serini e i suoi incarichi redazionali avevano continuato a riguardare anche le collezioni editoriali di opere storiografiche, politiche ed economiche. In particolare, gli veniva spesso affidato il compito di seguire le procedure di revisione dei testi più complicati, anche se non mancavano critiche quando il rigore era eccessivo e rischiava di far ritardare le scadenze previste per la stampa dei singoli contributi. Delio Cantimori, Alessandro Galante Garrone, Franco Venturi e altri storici che collaboravano con Einaudi avevano cominciato subito a ritenerlo un valido punto di riferimento a cui rivolgersi per individuare quali autori fossero o meno meritevoli di essere proposti in versione italiana; gli venivano richiesti pareri non solo su contributi pubblicati in originale in lingua francese, ma anche su ricerche inglesi, tedesche e russe (Mangoni 1999, 304-314; Munari 2011, 133, 190, 347). Per quanto riguarda la sua attività di traduzione di testi storiografici, Serini si dedicò a contributi riguardanti la storia antica (Glotz 1948; Robin 1951) e, naturalmente, il periodo settecentesco (Villat 1940; Mathiez 1948 e 1949; Lefebvre 1958); molto interessante – e degno di un futuro, mirato approfondimento – è il legame e la collaborazione con Venturi, che nel 1949 lo scelse per una traduzione “a quattro mani” del saggio di Albert Mathiez dedicato alle lotte sociali durante la fase del Terrore (Mathiez 1949).

Dalla lettura della documentazione relativa alle riunioni delle redazioni delle collane einaudiane si ricavano anche alcune preziose informazioni sulla riflessione teorica che era alla base dell’attività traduttiva dello studioso vicentino. Innanzitutto, da diversi, puntuali interventi di commento dell’operato di altri traduttori e curatori, si evince una sostanziale presa di distanza da strategie che prevedevano un inserimento frequente e «selvaggio» di note à piè di pagina «troppo divulgative» (Mangoni 1999, 636). Per Serini occorreva intervenire con rigore e senso della misura: entrambi i mestieri erano, secondo lui, difficili e carichi di responsabilità. Ragion per cui, non di rado, si opponeva alla decisione di affidare incarichi di traduzione a studiosi giovani e con scarsa esperienza in quell’ambito e, allo stesso tempo, era favorevole e disponibile a progettare nuove versioni di testi già reperibili sul mercato italiano, ma che erano stati tradotti “male” o in maniera del tutto approssimativa (Mangoni 1999, 445 e segg.; Pavese 2008, 295; Munari 2013, 295). Le competenze richieste a un buon traduttore erano molte e spaziavano – come è logico intuire – dalla conoscenza dell’opera originale, dell’autore e del suo stile alla famigliarità con il contesto culturale e linguistico d’arrivo.

Questa consapevolezza e tutte le qualità del suo modo di lavorare (il rigore filologico, la cura di ogni particolare, l’attenzione per il lettore, la volontà di riproporre anche delle nuove traduzioni “rivedute e corrette” di suoi precedenti lavori) consentivano a Serini di confezionare delle edizioni particolarmente valide e apprezzate, come dimostra il fatto che molte di queste furono riproposte da altri editori, senza particolari e radicali modifiche, per tutto il corso del XX secolo.

Le edizioni italiane della Crise de la conscience européenne

Si inseriva perfettamente in queste logiche e progetti di promozione di nuove ricerche sull’Illuminismo anche l’importante incarico affidato da Einaudi a Serini nel 1946, quello di tradurre la Crise de la conscience européenne (Pavese 2008, 136), il «documento più vivo e sintetico» della nuova stagione di studi novecenteschi sul secolo dei Lumi, che avrebbe introdotto una fortunata categoria di periodizzazione (la “crisi della coscienza europea”, appunto) con la quale gli studiosi sono costretti ancora oggi a fare i conti (Ricuperati 2007, XXXVI).

Pubblicata nel 1935 a Parigi in tre volumi, la Crise era il frutto di una lunga e meditata ricerca di Paul Hazard (1878-1944), comparatista e storico delle idee, che si era formato nella Parigi di inizio secolo alla scuola dello storico della letteratura Gustave Lanson e aveva partecipato da «osservatore acuto e sensibile» alle vicende intellettuali e politiche che avevano interessato l’Europa del primo Novecento (Ricuperati 1974, 372). Dopo essersi dedicato a studi che avevano al centro i debiti della cultura italiana settecentesca nei confronti di quella francese – ben esemplificati dal saggio L’influence française en Italie au XVIIIe  siècle, pubblicato con Henri Bédarida nel 1934 e, ancor prima, dalla monografia La Révolution française et les lettres italiennes, 1789-1815, del 1910, tradotta in italiano nel 1995 da Pier Antonio Borgheggiani (Hazard 1995) – Hazard si era staccato dai modelli della tradizionale histoire littéraire, aprendosi alla feconda prospettiva del comparatismo.

Tutte le sollecitazioni derivanti dalle attività di ricerca, dal dialogo con altri studiosi, ma anche da una lucida e puntuale riflessione sulle condizioni di declino in cui versava, in ciascun paese, buona parte della società europea – messa a dura prova dai nazionalismi e dai regimi totalitari – lo avevano portato a interrogarsi su altre fasi di radicale cambiamento nella storia dell’Europa e ad attribuire un valore periodizzante ai decenni di passaggio dal XVII al XVIII secolo: un periodo che egli stesso avrebbe definito “crisi della coscienza europea”. Si trattava di un’epoca di sperimentazione e costruzione culturale, un momento di crisi che aveva posto le condizioni per una rottura definitiva con il classicismo e aveva favorito la riscoperta di valori che furono fondamentali per lo sviluppo dei caratteri autentici e moderni dell’Illuminismo (Ricuperati 2006, 83-88). Ai decenni centrali del Settecento fu successivamente dedicata una seconda tappa del ragionamento complessivo di Hazard sulle peculiarità della cultura dei Lumi, vale a dire quella rappresentata da La pensée européenne du XVIIIe siècle de Montesquieu a Lessing, opera postuma pubblicata a Parigi, da Boivin, nel 1946. Quest’opera, contributo meno brillante e innovativo rispetto al precedente, è stata oggetto di almeno un tentativo di traduzione in lingua italiana, promosso da La Nuova Italia negli anni settanta: il progetto, che avrebbe dovuto prevedere un’introduzione di Giuseppe Ricuperati – poi pubblicata sulla «Rivista storica italiana» (Ricuperati 1974) –, non giunse però mai alla fase di stampa, visto che il lavoro compiuto dal traduttore per adeguare il testo non venne giudicato all’altezza, ma, al contrario, reputato troppo letterale e scolastico, del tutto incapace di trasmettere la brillantezza della prosa di Hazard (Ricuperati 2007, XXXVI). Tutt’altro destino era quello che aveva accolto la Crise de la conscience européenne, che, dopo essere stata letta, apprezzata e recensita da alcuni studiosi italiani, cominciò a interessare anche l’editore Giulio Einaudi, il quale, già nel novembre 1942, aveva cercato, tramite la sua rete di collaboratori e agenti librari, di entrare direttamente in contatto con la casa editrice Boivin (Mangoni 1999, 140). Il progetto di traduzione, però, venne concretizzato solo quattro anni più tardi, dopo che la casa editrice torinese era riuscita a far rendere nullo un accordo di cessione dei diritti di traduzione alla casa editrice milanese Perinetti e Casoni, che era stato stipulato da Paolo Zappa, commissario prefettizio imposto alla Einaudi dalla repubblica mussoliniana dal febbraio 1944 all’aprile del 1945 (Munari 2011, 34, 36).

Entriamo, dunque, un po’ più nel merito del lavoro di adattamento compiuto da Serini. Innanzitutto, uno dei primi aspetti che è possibile mettere in evidenza è la decisione del traduttore-curatore di non riprodurre la sezione di Notes et références, che costituiva il terzo tomo dell’edizione originale del 1935, adeguandosi in questo modo a quanto  proposto in alcune ristampe e traduzioni già disponibili in altri contesti europei. Inoltre, era stato scelto di non inserire commenti o una nuova prefazione nella quale delineare un profilo dell’autore o proporre un essenziale inquadramento dell’opera, come Serini aveva invece fatto in altre occasioni (basti pensare alle note e, soprattutto, alla Notizia introduttiva preparata per il suo primo, importante lavoro di traduzione, per Sansoni, delle Réflexions di Vauvenargues o alle introduzioni compilate per le varie edizioni di opere di Pascal, Cartesio o Bergson).

Per quanto riguarda, invece, il lavoro sul testo, Serini rispettò il più possibile lo stile del comparatista francese e la sua chiarezza espositiva e argomentativa, riuscendo con «straordinaria capacità» nella difficile impresa di «restituire stilisticamente la ricchezza della prosa hazardiana» (Ricuperati 2007, XXXIV); un compito che, come s’è visto, non riuscì altrettanto bene al traduttore della Pensée. In base alle osservazioni proposte nel precedente paragrafo, non stupisce il fatto che la versione fosse particolarmente curata dal punto di vista della resa stilistica. Allo stesso modo, non risulta sorprendente constatare che le aggiunte di nuove note a piè di pagina furono ridotte al minimo: se in altre occasioni – a partire dalla traduzione dello studio di Louis Villat sulla Rivoluzione francese e l’impero napoleonico (Villat 1940) – era stato per Serini assolutamente inevitabile intervenire per rivedere ogni singola citazione bibliografica e correggere tutti gli evidenti errori nelle date indicate dall’autore, nel caso della Crise, frutto di un lavoro attento e scrupoloso del suo autore, questo non si rese necessario. Fu possibile, senza problemi, contenere entro limiti accettabili l’inserimento di nuove annotazioni, fatte salve quelle poche precisazioni richieste per spiegare meglio alcuni concetti o termini, che avrebbero potuto risultare poco chiari o ambigui al lettore italiano. Rientrano in questa tipologia di intervento – che prevedeva note rigorosamente distinte da quelle originali con il ricorso all’indicazione “nota del traduttore”, con la consueta sigla N. d. T. – commenti inseriti, ad esempio, nel capitolo dedicato all’empirismo di Locke, in corrispondenza di termini o espressioni che nel linguaggio del filosofo inglese assumevano un significato ben connotato (Hazard 1946, 193); oppure nella sezione in cui venivano prese in esame la filosofia di Leibniz ed alcune sue teorie su principi matematici e geometrici, che Hazard aveva descritto omettendo alcune informazioni che, per il traduttore, erano invece utili per capire le peculiarità della riflessione del filosofo e bibliotecario tedesco (Hazard 1946, 325). Non mancavano anche annotazioni volte a fornire informazioni complementari su eventi o processi storici citati nel testo, come nel caso dell’aggiunta di una delucidazione sulla congiura del 1618 ordita dal viceré di Napoli contro Venezia o in quello dell’inserimento di un accenno alle vicende puntuali che avevano caratterizzato la persecuzione degli ugonotti dopo la revoca dell’Editto di Nantes voluta da Luigi XIV nel 1685 (Hazard 1946, 25 e 53).

Il testo predisposto così accuratamente da Serini rappresenta, ancora oggi, l’unica traduzione disponibile in lingua italiana del capolavoro di Hazard, più volte ripubblicata senza sostanziali modifiche, da editori torinesi e milanesi, come Il Saggiatore, che nel 1968 inserì l’opera all’interno della sua collana «I gabbiani», optando, però, per una suddivisione del contenuto in due agili volumetti in ottavo.

Tuttavia, in tempi più recenti, è stata condotta un’iniziativa editoriale di grande interesse, che ha idealmente completato il lavoro di Serini con un intervento mirato di adattamento del paratesto. Mi riferisco all’edizione Utet della Crisi della coscienza europea, data alle stampe nel 2007 (riproposta, anche in versione e-book, nel 2019) e arricchita da una lunga introduzione di Giuseppe Ricuperati e da un’interessante immagine di copertina, un particolare del ritratto di Luigi XIV di Hyacinthe Rigaud, del 1701 (sostituito, nella versione del 2019, dal Sir Isaac Newton di William Blake, già utilizzato per altre edizioni francesi ed inglesi). Lo storico torinese, tra i più attenti studiosi di Paul Hazard e del suo percorso storiografico, ha predisposto un’edizione che, in un certo qual senso, tenta un recupero totale del progetto originario del comparatista francese, integrando la versione seriniana con una ricca Nota bibliografica che si richiama direttamente al modello delle Notes et références della prima edizione parigina. La Nota di Ricuperati riprende, infatti, le finalità e lo spirito della sezione voluta da Hazard, offrendo una dettagliata rassegna degli studi che, nel corso del Novecento, hanno discusso e ripreso alcuni temi cardine della Crise o hanno sviluppato una complessa analisi del rapporto tra la crisi della coscienza europea e la nascita dell’Illuminismo radicale.

Altrettanto importanti sono le vere e proprie pagine introduttive, compilate da Ricuperati con l’obiettivo di contestualizzare in modo puntuale la proposta interpretativa di Hazard. Presentare le questioni più rilevanti dell’opera e ricostruire alcune delle fasi della biografia dell’autore (dal suo impegno civile come giornalista, alla sua articolata formazione culturale e universitaria, senza dimenticare i rapporti con studiosi francesi ed europei) diventano due operazioni non solo utili, ma, anzi, indispensabili per aiutare lettori non specialisti a individuare i punti di forza e gli elementi innovativi dell’opera che si apprestano a leggere. L’introduzione, come spesso accadeva e accade nelle traduzioni, diventa uno spazio di dialogo fra il traduttore – o, in questo caso, il curatore – e il pubblico, in cui proporre una mediazione tra il mondo e le idee dell’autore e il contesto di ricezione. Se un lavoro di questo tipo avrebbe potuto essere quasi superfluo per i lettori colti degli anni quaranta, che avevano una certa famigliarità con le questioni al centro dei coevi dibattiti storiografici, in anni più recenti diventa, invece, un passaggio obbligato, per fornire minime coordinate storiche e storiografiche all’interno delle quali collocare le tesi e gli interrogativi di partenza che avevano spinto Hazard a occuparsi di quella specifica fase della storia europea e a rintracciare in essa i prodromi della cultura illuminista.

Conclusioni

La storia editoriale delle edizioni italiane della Crise de la conscience européenne e gli esempi di progetti traduttivi riguardanti alcuni “classici” del panorama storiografico della prima metà del Novecento, che ho presentato per sommi capi, pongono bene in evidenza, a mio avviso, l’importanza assunta dalle traduzioni come “strumenti di lavoro”, che consentono agli storici – e non solo, ovviamente – di promuovere la conoscenza di studi innovativi ed interessanti, non solo tra un pubblico di esperti della materia.

Il lavoro da fare per arrivare a ricostruire un quadro dettagliato delle strategie traduttive messe “a servizio” della storiografia è ancora, evidentemente, solo all’inizio, ma non potrà prescindere da un esame accurato delle caratteristiche delle versioni concretamente prodotte e delle discussioni che venivano fatte, nelle redazioni delle case editrici, per decidere quali autori dovessero essere o meno tradotti. Quello che è certo è che una ricerca di questo tipo non potrà esimersi dal dedicare la dovuta attenzione al ruolo svolto da curatori e traduttori, figure che esercitano una specifica funzione di mediazione linguistica e culturale, offrendo un contributo di indubbio valore al processo di ricezione e rielaborazione dei dibattiti storiografici.

Ulteriori edizioni della traduzione di Serini:

Milano, Il Saggiatore, 1968, 2 voll.;
Milano, Il Saggiatore, 1983, 2 voll.;
con un’introduzione di Giuseppe Ricuperati, Torino, Utet libreria, 2007 e 2019

Prime traduzioni europee

Tedesca: Die Krise des europäischen Geistes 1680-1715, di Harriet Wegener, Hamburg, Hoffmann-Campe, 1939;
Spagnola: La crisis de la conciencia europea (1680-1715), di Julián Marías, Caracas-Madrid, Ediciones Pegaso, 1941;
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