Antonio Prete
All’ombra dell’altra lingua. Per una poetica della traduzione
Bollati Boringhieri, Torino 2011, pp. 138, € 16,00
di Giulia Baselica
Densa silloge di pensieri e di riflessioni, frutto di profonde e vaste letture, di arduo e paziente confronto con una pratica per sua natura infinita, di costante e instancabile interrogarsi: così si presenta il saggio che Antonio Prete dedica all’amplissimo e multiforme tema della traduzione.
Numerose sono le definizioni del concetto di traduzione offerte al lettore come altrettante proposte di meditazione. La prima, incipit del libro, è un suggestivo rimando a un’idea forse di rado considerata, nonostante la sua nobile origine: «Tradurre è trasmutare una lingua in un’altra lingua». L’atto del tradurre è, innanzi tutto, ‘trasmutare’. È Dante a impiegare il verbo ‘transmutare’ nel Trattato primo, capitolo VII, del Convivio. Tradurre è dunque ‘cambiare di posto’ a una lingua, secondo l’accezione originaria, ma anche ‘mutare’, ‘cambiare aspetto’, secondo valenze acquisite successivamente dal termine. Prete ci dice, infatti, che si può cogliere una relazione di tipo analogico fra metafora – che sposta, traspone e disloca – e traduzione e fra traduzione e metamorfosi, atto di trasformazione orizzontale «da una lingua all’altra, da uno stile nell’altro stile, da un tempo nell’altro tempo». Trasmutare dopo il vertere latino, nel senso iniziale di ‘voltare’, ‘girare’ e poi di ‘raccontare’ – insito nel termine ‘versione’ – e prima del ‘traducere’ introdotto da Leonardo Bruni nel trattato De interpretatione recta, fraintendendo il significato di un passo di Aulo Gellio. Il significato, il fine, nonché parte della natura dell’atto di tradurre si rivelano nei termini che lo designano: traducere, trasmutare, vertere alludono allo spostamento, alla trasformazione, alla narrazione.
La traduzione è accoglienza, ospitalità è «allo stesso tempo accogliere con la propria lingua un libro in cammino e aggiungere un nuovo tempo, una nuova stazione, al cammino del libro». Suasiva e intensa è l’immagine del movimento connaturato a ogni lingua, in ogni opera, quindi in ogni traduzione, che è dunque sempre provvisoria – Prete non afferma che la traduzione invecchia – un momento più o meno duraturo, reso possibile dalla vita dell’originale, il quale, osserva l’Autore rimandando al compito del traduttore di benjaminiana memoria, rivolge alla superbia del traduttore un primo, tacito, monito.
La dislocazione dei testi, delle lingue, delle culture resa possibile dalla traduzione rinvia alla realtà della migrazione: chi emigra porta con sé un patrimonio di lingua, di cultura, d’identità e tenta di stabilire un rapporto con gli abitanti del paese di accoglienza, con i rappresentanti della cultura con cui si porrà a confronto. Chi accoglie l’emigrato deve, a sua volta, ottemperare ai doveri dell’ospitalità tra i quali, precisa Prete, si colloca l’apprendimento della nuova lingua: la lingua, appunto, d’arrivo.
Se si accoglie l’altro, se lo si comprende nella sua totalità e complessità si pongono all’istante, e per sempre, i presupposti del dialogo, cui la traduzione dà vita: la parola tradotta si identifica nella risposta, nella corrispondenza – che esclude l’appropriazione e il diritto di possesso e, anzi, rispetta l’altro da sé – e rende «familiare lo straniero» senza alcuna assimilazione. Si tratta di una corrispondenza di percezione di «senso e di suono, di immaginazione e di riflessione, di emozione e di adesione sensibile». Parrebbe di cogliere, nelle parole di Prete, un’eco del concetto affascinante e chimerico, discusso e continuamente evocato, dell’«effetto equivalente». La traduzione è quindi negazione della condanna di Babele, è, deve essere invito a vedere sia gli elementi che uniscono o accomunano le lingue e le culture, sia quelli peculiari a ogni lingua e a ogni cultura.
Interessante l’affermazione «la più limpida interpretazione di un testo è la sua traduzione». Ogni traduzione è l’espressione di un’esegesi, di un’interpretazione: Steiner definisce il percorso compiuto dal traduttore dal momento della scelta del testo da tradurre a quello del compimento della traduzione «moto ermeneutico».
Forse non del tutto chiara e convincente è l’idea che «i limiti, e i vizi, dell’interpretazione – sovrimpressione, assimilazione, riduzione didattica, proiezione ideologica – sono esorcizzati, o tenuti a bada, dalla necessità che ogni particolare del testo originale sia fisicamente presente nella lingua del traduttore». L’interpretazione e, prima ancora, la lettura di un testo, addirittura di una parola, è emanazione di una soggettività connotata da un vissuto, da un’esperienza, spesso accompagnati da una personale teoria semantica o da inconsapevoli idiosincrasie o attrazioni che attengono alle parole e alle immagini che esse suscitano. Tali riflessioni inducono a interrogarsi sulla possibilità, o sull’opportunità, di ricorrere a un punto di vista esterno al testo, alla traduzione, quindi all’autore e al traduttore: il punto di vista della teoria. Antonio Prete vi allude con l’espressione «il fantasma della teoria», che a sua volta ricorda l’idea de Le démon de la théorie, saggio di Antoine Compagnon pubblicato nel 2008 e dedicato al confronto tra letteratura, teoria e senso comune. Così la teoria della traduzione può apparire come una sorta di fantasma, spettro od ombra, appartenente a una realtà altra e capace di assumere ogni volta sembianze diverse e indicare vie non sempre affidabili o davvero percorribili. Ma lo spirito che fa avvertire la sua presenza nelle pagine di Antonio Prete si chiama Giacomo Leopardi, che «si colloca davvero, sorprendentemente, nel cuore della riflessione a noi contemporanea» e che accompagna, silenzioso Virgilio, l’Autore e quindi il lettore, lungo il percorso compiuto «all’ombra dell’altra lingua». Utile è la teoria se, al pari del traduttore, fa propria la virtù dell’umiltà, rinunciando, cioè a ogni pretesa, quindi illusione, di scientificità e di assolutezza. Se pone al centro della sua riflessione l’atto e l’esperienza della traduzione e la sua singolarità; se, infine, la teoria si fa storia, in tal modo accettando di appartenere sì al campo della linguistica e dell’ermeneutica, ma anche a quelli dell’antropologia e a tutte le discipline che fanno dell’uomo e delle culture di cui è espressione l’oggetto delle sue indagini. Innumerevoli sono i suggerimenti bibliografici inerenti alla teoria della traduzione disseminati nei capitoli e nei paragrafi che compongono il testo. In tal senso il saggio di Antonio Prete è un’autentica biblioteca di libri sulla traduzione.
Non è un caso che l’auctoritas di continuo evocata sia Leopardi, e non soltanto per i numerosi studi che l’Autore ha dedicato al poeta recanatese, la dimensione della poesia è infatti quella che qui accoglie in sé tutte le altre dimensioni letterarie. Il discorso sulla traduzione nelle sue più varie declinazioni e digressioni contempla frequenti riferimenti alla traduzione della poesia, colti dall’esperienza dell’Autore, traduttore di Baudelaire e poeta lui stesso.