di Giulia Baselica
Nel settimo centenario della morte di Dante il lettore russo dispone di ben quattro traduzioni integrali della Divina Commedia, tutte pubblicate nel Novecento: una in epoca sovietica – la celeberrima versione di Michail Lozinskij (1939-1945), insignita del premio Stalin nel 1946 – e tre negli anni novanta, immediatamente dopo la dissoluzione dell’Urss: quelle di Aleksandr Il’jušin (1995), di Vladimir Lemport (1997) e di Vladimir Marancman (1999). È dunque interessante osservare che alla canonica traduzione di Lozinskij seguono in rapidissima successione tre versioni, l’una dall’altra notevolmente diverse in termini di ricezione e di approccio traduttivo, due delle quali (quelle di Il’jušin e Marancman) concepite negli anni della perestrojka, epoca in cui la letteratura si liberava, finalmente, «dal monologismo in cui era imbrigliata» (Piccolo 2017, 10). Se in epoca sovietica Dante, così come Petrarca e Boccaccio, figurava fra i classici stranieri più diffusamente pubblicati e letti, appunto in traduzioni canoniche, gli anni compresi fra il 1985 e il 1991 favorirono, evidentemente, una inedita libertà ispirativa e progettuale, generando nuove, talvolta audaci, riletture e reinterpretazioni dei monumenti della letteratura universale. Gli esiti si collocano nel decennio – ormai comunemente definito «epoca di transizione» (Piccolo 2017, 9) – che si estende dalla dissoluzione dell’Urss (1991) all’inizio dell’era putiniana (1999).
La versione di Michail Leonidovič Lozinskij (1886-1955) segna un punto d’arrivo – «la migliore traduzione mai realizzata dall’epoca dei primi sperimentali tentativi settecenteschi» (Etkind 1967) – nella storia delle traduzioni russe del poema dantesco e, nel contempo, indica l’origine di una feconda riflessione che nei successivi cinque decenni produrrà altri esiti, ognuno precisamente connotato da una peculiare lettura del testo originale e, naturalmente, da uno specifico orientamento traduttivo.
Nella storia della ricezione russa dell’opera di Dante il valore letterario e culturale della versione di Lozinskij è forse assimilabile a quello che la traduzione montiana dell’Iliade (1807-1809) rappresenta nella storia della ricezione italiana del poema omerico. Al pari di Monti, Michail Leonidovič ebbe in sorte di «operare la sintesi delle acquisizioni positive che si erano venute definendo» (Jens 1999, 14) nel corso del secolo precedente.
Fu Maksim Gor’kij a richiamare l’attenzione sulla assoluta necessità di commissionare una nuova traduzione della Divina Commedia: l’ultima traduzione in versi, realizzata dalla poetessa Ol’ga Čumina (1858-1909), era stata pubblicata tra il 1900 e il 1902, negli stessi anni in cui veniva data alle stampe la nota versione di Dmitrij Min, medico e poeta traduttore, composta tra la prima metà degli anni quaranta e la seconda metà degli anni sessanta dell’Ottocento. Dal 1932 Gor’kij collaborava con la redazione di Academia, la casa editrice che nei suoi sedici anni di attività (1922-1937) pubblicò circa mille titoli, prendendo a modello l’esperienza delle maggiori imprese editoriali di inizio secolo e ispirandosi alla collana «Pamjatniki mirovoj literatury» (Monumenti della letteratura mondiale) della casa editrice Sabašnikov, oltre che al progetto editoriale Vsemirnaja literatura (Letteratura mondiale) ideato dallo stesso Gor’kij nel 1919 e attivo fino al 1927. Tra i volumi licenziati da Academia figurano la Vita nova (1934), a cura di Abram Efros, e il Decameron (cinque edizioni dal 1927 al 1933) nella traduzione di Aleksandr Veselovskij (Krylov, Kirčatova 2004).
Prima di Michail Lozinskij nessuno si era cimentato nella gravosa impresa (Etkind 1967) di tradurre le tre cantiche dantesche secondo un rigoroso progetto strutturale, che prevedeva l’impiego di un preciso schema metrico, nonché l’utilizzo di un lessico adeguato e coerente. Tale impresa impegnò il traduttore dal febbraio del 1936 al novembre del 1943 (Etkind 1974). Nel 1939 fu pubblicata la sua versione russa della cantica dell’Inferno e, nelle disumane condizioni di vita determinate dall’assedio nazista di Leningrado, Lozinskij continuò e portò a termine il suo lavoro: nel 1944 diede alle stampe la traduzione del Purgatorio e, nel 1945, del Paradiso.
L’archivio del traduttore custodisce la ricca e preziosa testimonianza del meticolosissimo lavoro preparatorio da lui compiuto: le decine di cartelle contenenti appunti, disegni, relazioni, liste indicano che Lozinskij non iniziò la traduzione commissionata senza aver studiato approfonditamente le peculiarità del contesto storico e le particolarità culturali che verosimilmente avrebbero trovato riflesso o esplicito riferimento nel poema. L’importante artcicolo di Efim Etkind, Archiv perevodčika. (Iz tvorčeskoj laboratorii M. L. Lozinskogo) (L’archivio del traduttore. Dal laboratorio artistico di M. L. Lozinskij), (Etkind 1959), al quale attingo per queste notizie, rivela che la sezione dedicata allo studio dell’opera di Dante contiene interessanti documenti, che permettono non soltanto di intuire la maniera in cui negli anni staliniani lavorava un traduttore, bensì anche di circostanziare uno specifico momento della storia della riflessione teorico-pratica sulla traduzione. La cartella riservata alla bibliografia dantesca contiene un prezioso schedario che dà conto dello stato della dantologia sovietica degli anni trenta e quaranta: le schede raccolte riportano i nomi delle biblioteche dell’Unione Sovietica nelle quali all’epoca erano conservati volumi e riviste in russo e nelle principali lingue europee, con le relative collocazioni. Oltre allo schedario la cartella custodisce la corrispondenza che Lozinskij intrattenne con gli studiosi e gli specialisti della storia d’Italia e della letteratura italiana e le meticolose trascrizioni dei giudizi che Marx ed Engels avevano espresso in merito a Dante e al suo poema. Le svariate cartelle dedicate ai volumi su Dante comprendono sinossi di monografie incentrate sul poeta: studi generali o settoriali inerenti alla sua opera e alla sua epoca, alla storia d’Italia e alla cultura medievale italiana. Vi sono copiose trascrizioni dal volume italiano contenente Il Comento alla Divina Commedia e gli altri scritti intorno a Dante di Giovanni Boccaccio (1918); puntuali sintesi delle monografie di Michele Barbi, Dante. Vita, opere e fortuna (1933), e di Ernesto Giacomo Parodi, Poesia e storia nella “Divina Commedia”. Studi critici (1920), oltre che dei saggi di Gaetano Salvemini (in lingua inglese) Florence in the Time of Dante (1936), e di Henri Hauvette, Dante. Introduction à l’étude de la “Divine Comédie” (1911); nonché accurate analisi di decine di altri volumi di storia, filosofia e storia dell’arte.
Se, da un lato, l’archivio testimonia la vastità degli interessi scientifici del traduttore: dall’escatologia islamica nella Commedia – tema trattato nel saggio di Miguel Asín Palacios, La escatología en la Divina Comedia – alla questione delle rappresentazioni astronomiche, esaminata da Edward Moore nel saggio The Astronomy of Dante, dall’altro dimostra che Michail Leonidovič, affrontando l’arditissima impresa, si dedicò agli studi dantologici in varie lingue.
Altre cartelle includono svariati materiali preparatori e fonti inerenti agli ambiti più diversi: raccolte di commenti esplicativi ai passi di difficile interpretazione; di risorse documentarie utili per evitare errori di comprensione (vi è conservato, per esempio, il disegno di un veliero sul quale è riportata la nomenclatura delle vele e degli alberi); di minuziose annotazioni derivanti dalla lettura di traduzioni precedenti, in particolare delle versioni, parziali, di Dmitrij Min, pubblicate nel 1855, e integrate con proprie osservazioni, non di rado polemiche, e con nuove, argomentate interpretazioni; di rilievi, suggerimenti e osservazioni dei revisori della sua traduzione e di altri studiosi, consultati nel corso dei dibattiti all’Unione degli scrittori a Mosca e a Leningrado e alla facoltà di Lettere dell’Università di Leningrado. Altre cartelle ancora custodiscono materiali inerenti alla prosodia dantesca e alle sue particolarità, suddivisi in sezioni dedicate ai vari tipi di disposizione della rima nei versi. La documentazione qui raccolta contempla anche un’accurata sinossi della monografia, in inglese, di Alfonso De Salvio The Rhyme Words in the Divina Commedia (1929). Il riscontro del serrato confronto con il testo originale è testimoniato da ulteriori fascicoli, recanti, ognuno, una eloquente denominazione: lexica (spiegazioni inerenti a espressioni oscure); dubia (passi di difficile interpretazione); meditanda (soluzioni traduttive provvisorie).
Fondamentale è l’interesse che Lozinskij volge allo studio delle multiformi potenzialità espressive della lingua russa, ponendo a confronto gli esiti letterari derivati dall’impiego di uno stesso termine da parte di poeti e scrittori di epoche diverse, come Deržavin, Puškin, Turgenev, Dostoevskij. Utilizzando le risorse della lingua poetica russa, Lozinskij ricostruì la ricchezza lessicale, semantica e ideologica dello stile di Dante, riproducendone i vari registri – il linguaggio popolare, lo stile solenne, i fraseologismi di uso quotidiano – e imponendo a sé stesso il compito di imparare a pensare in terzine (Etkind 1967).
Ancora oggi la Božestvennaja komedija di Michail Lozinskij è considerata una irripetibile impresa – che il traduttore compì strutturando un nuovo idioletto, una lingua poetica modellata sulla produzione letteraria dell’«età d’argento» (ultimi decenni dell’Ottocento – primi due decenni del Novecento) – oltre che, nel contempo, oggetto di riflessione critica. L’esito di Lozinskij, tuttavia, rappresenta un episodio isolato nella storia della traduzione poetica in Russia e, nell’intento di rendere in russo tutte le peculiarità dell’originale, il traduttore operò scelte lessicali e morfosintattiche del tutto estranee alla cultura poetica dei lettori: Lozinskij, conservò, infatti, dell’originale, sia la struttura ritmica sia lo schema metrico (Sedakova 2017). L’adesione, estrema, alle istanze del testo di partenza – traducendo, poeticamente, poesia – determina, inevitabilmente, una riformulazione, cioè una traduzione perifrastica che priva il testo in lingua d’arrivo dell’immediatezza e dell’imprevedibilità proprie degli accadimenti rappresentati nell’originale dantesco (Sedakova 2017).
Alla traduzione di Lozinskij, ma circa mezzo secolo dopo, segue la versione di Aleksandr Anatol’evič Iljušin (1940-2016), caratterizzata dal verso sillabico – esperimento traduttivo mai tentato prima, se si eccettuano le terzine dantesche tradotte da Stepan Ševyrëv (1806-1864) all’inizio dell’Ottocento – e da svariati registri linguistici . Iljušin rende la commistione di arcaismi e neologismi – cifra stilistica che, secondo il traduttore, identifica la Commedia – ricorrendo a termini e a espressioni in slavo ecclesiastico, tuttavia non sempre comprensibili al lettore russo privo di cognizioni filologiche, e a neologismi non di rado inattesi o, addirittura, audaci (Andreev 2008). Anche questa traduzione, in realtà, similmente a quella di Lozinskij, è di carattere estraniante (Venuti 1995) in quanto, idealmente, induce il lettore a confrontarsi con gli elementi appunto estranei alla propria cultura in esso contenuti. Il traduttore sovietico aveva conferito il carattere di estraneità alla propria versione elaborando una sostanza lessicale semanticamente aderente all’originale e, soprattutto, forzando la struttura sintattica del verso russo per adeguarla al modello dantesco.
L’esito della strategia adottata da Iljušin produce, tuttavia, una sostanziale contraddizione (Andreev 2008), che può essere più compiutamente intesa se collocata nel contesto del dibattito teorico novecentesco, animato da due orientamenti contrapposti. Secondo Ivan Kaškin e Kornej Čukovskij il fine della traduzione è di rendere e trasmettere le impressioni che il testo originale aveva prodotto nel lettore a esso contemporaneo; mentre Brjusov, Lozinskij e Gasparov sostengono che la traduzione deve comunicare l’impressione da essa suscitata nel proprio coevo destinatario. Nel primo caso, dunque, la distanza cronologica tra l’opera originale e il lettore si annulla; nel secondo essa viene ristabilita con l’ausilio dei mezzi a disposizione del traduttore (Andreev 2008). È del tutto evidente che soltanto il lettore contemporaneo di Dante potesse rilevare la commistione di linguistica e stilistica di antico e nuovo, mentre per il lettore attuale, se privo di specifiche competenze filologiche, tutto ciò che della lingua dantesca non è divenuto norma letteraria appare come arcaismo. Il lettore della traduzione di Iljušin diventa, quindi, idealmente, un contemporaneo di Dante. Tuttavia, il verso sillabico utilizzato dal traduttore produce una interessante contrapposizione: il lettore provvisto degli adeguati strumenti filologici evoca immediatamente l’epoca premoderna, prepuškiniana della letteratura russa, dominata dalla personalità di Antioch Kantemir (XVIII secolo) o da quella di Simeon Polockij (XVII secolo), l’epoca che ancora attendeva il verso tonico-sillabico, poi introdotto da Vasilij Trediakovskij e da Michail Lomonosov (metà XVIII secolo). Tale percezione retrospettiva del linguaggio poetico, correlato a una determinata tradizione letteraria, interessa anche l’odierno lettore italiano, che considera la lingua poetica di Dante come espressione di una fase della storia della lingua letteraria italiana precedente alla fase petrarchesca, canonico riferimento per il sistema normativo della poesia italiana. In termini di distanza temporale e culturale la ricezione del dettato dantesco è analoga per entrambi i lettori, russo e italiano (Andreev 2008), ma per ognuno di essi il contesto linguistico, letterario e storico e i modelli stilistici di riferimento evocati, nella loro evidente asimmetria, sono profondamente diversi.
La Divina Commedia di Iljušin occupa un posto di rilievo nella storia della letteratura straniera tradotta in Russia, collocandosi in un periodo caratterizzato da una notevole proliferazione di traduzioni e, contestualmente, da un pubblico non interessato al valore intrinseco della traduzione, alle sue specificità o al rapporto che essa intrattiene con l’originale (Pil’šikov 1999). Per la sua versione della Commedia Aleksandr Iljušin fu insignito di importanti onorificenze da parte delle istituzioni italiane: dalla fiorentina Società dantesca italiana, nel 1996, e dal Centro dantesco dei Frati minori conventuali di Ravenna nel 1999.
La sua versione in versi sillabici – che risponde sia all’intento di restituire al poema la sua originaria equiritmicità, sia all’aspirazione a ridestare il verso sillabico russo, di uso consueto nel XVII secolo e, occasionalmente, nel XVIII (Kalašnikova 2015) – non è tuttavia accolta con favore unanime dai critici, almeno non da coloro i quali guardano alla fase sillabica della storia della versificazione russa come a un episodio marginale e addirittura rovinoso e che considerano l’opera di Iljušin come l’esito di un intento stravagante o postmoderno (Pil’šikov 1999). Altri, invece, vedono in Iljušin il poeta-traduttore incline non alla letteralità, bensì alla mimesi poetica (Šapir 2000). Aleksandr Anatol’evič si proponeva di rendere il verso sillabico russo simile a quello italiano, sostenendo, inoltre, che se la Divina Commedia è un’opera arcaica, nello stile della versione russa la sua arcaicità deve avvertirsi distintamente, magari mediante il ricorso a slavismi e allo stile alto, mentre nella traduzione di Lozinskij tale carattere non risalta adeguatamente (Kalašnikova 2015).
Forse meno nota delle precedenti, e a queste seguita quasi immediatamente, è la traduzione di Vladimir Sergeevič Lemport (1922-2001), scultore, pittore, traduttore e attore. Animato dall’intento di conferire alla Commedia russa il vigore del verso dantesco, basandosi sulle edizioni francesi, e di emendare le numerose imperfezioni a suo dire contenute nelle versioni di Lozinskij, Lemport si propose, in meno di un anno di lavoro, di liberare il poema dantesco pokrov ložnoj klassičnosti («del velo di ingannevole classicità») (Umnov 1997) e di realizzare una versione agevolmente fruibile. Secondo Lemport le allegorie dantesche riprodotte da Lozinskij risultano del tutto incomprensibili al lettore odierno, il quale, verosimilmente, cede alla tentazione di rinunciare alla lettura del poema (Lemport 1997). Peculiare tratto distintivo del lavoro di Lemport è il commento figurativo – le illustrazioni realizzate dal traduttore stesso – che ai personaggi e alle situazioni di cui sono protagonisti conferiscono un realismo attualizzante.
A Vladimir Georgevič Marancman (1932-2007) si deve l’ultima traduzione russa della Divina Commedia finora pubblicata, ispirata dall’intento di offrire al lettore una traduzione comprensibile senza l’ausilio di commenti e di note esplicative – una traduzione creativa, finalizzata all’ avvicinare l’originale al lettore ancora estraneo alla cultura di cui il testo è espressione (Gasparov 2001) – generata dal principio in base al quale si traduce non soltanto nella lingua di una determinata nazione, bensì anche nella lingua di una determinata epoca (Marancman 2006).
Vladimir Georgevič individua i fondamenti teorici delle proprie strategie traduttive da un lato considerando gli esiti prodotti dalla versione di Lozinskij – non del tutto precisa e connotata da uno stile oscillante dalla marcata arcaizzazione al patetismo – e di Iljušin – caratterizzata da uno stile artificiosamente antico-russo – e, dall’altro, «assumendo come postulato (…) che tradurre implica un processo decisionale e che (…) nessuna decisione può essere presa senza criteri» (Salmon 2020, 58). Innanzi tutto l’esattezza della traduzione assicura non soltanto la verità delle parole, bensì anche la verità dei sensi: il filo di Arianna che guida il traduttore attraverso i labirintici meandri del testo è infatti costituito dal significato lessicale, dalla fedeltà all’intonazione, dalla tipicità delle immagini del testo dantesco, infine dall’autenticità dei tropi. Nella versione russa della Commedia il contrasto tonale che differenzia l’eloquio di Dante da quello di Virgilio deve essere percepibile: il lavoro del traduttore di testi classici, in generale, è assimilabile all’intervento del restauratore, che riporta alla luce le linee e i colori originali, liberando la tela dalle reiterate ridipinture e rivelandone l’intensa e innocente primigeneità. Nonostante il giuramento di fedeltà all’originale e nonostante l’indispensabile, intrinseca all’atto del tradurre, costante tensione verso l’esattezza, gli scostamenti sono inevitabili, così come incontrastabili sono, in ogni epoca storica, i tentativi di rinnovamento se non, addirittura, di attualizzazione della traduzione dei testi classici (Marancman 2006). La traduzione, tuttavia, non deve identificarsi nell’assimilazione di un testo alloglotto e storicamente lontano, alla forma mentis della contemporaneità, precisa Marancman, e richiamando l’insegnamento di Lichačëv, ricorda che accostarsi all’arte antica come all’arte di altri paesi esclusivamente secondo la prospettiva del proprio tempo, cercando in essa soltanto ciò che è prossimo alla propria cultura, significa impoverirne, smisuratamente, l’eredità estetica (Lichačëv 1971). La traduzione ne možet predstavljat’ tekst kak archaičeskij raritet, no i ne dolžen byt’ zerkalom, v kotorom čitatel’ ne vidit ničego, krome sobstvennogo lica (Marancman 2006, 24: «non può presentare il testo come un’arcaica rarità, ma non deve neanche essere lo specchio nel quale il lettore non vede null’altro se non il proprio volto» – traduzione mia).
Gli intenti di ognuno dei quattro traduttori qui ricordati paiono rinviare alle riflessioni intorno al problema della ritraduzione esposte negli anni sessanta da Vil’elm Levik, poeta e traduttore, il quale si interroga sulla questione della ritraduzione dei classici, prendendo in esame alcuni frammenti delle versioni russe di King Lear, Hamlet, Romeo and Juliet e di alcuni sonetti shakespeariani realizzate dal già citato Michail Lozinskij, da Boris Pasternak e Samuil Maršak. Egli osserva che per identificare la nuova fisionomia dello Shakespeare russo è indispensabile stabilire e dimostrare i limiti o, addirittura, i difetti delle sue precedenti versioni, considerando il presupposto essenziale, quello cronologico: mutano, con il tempo, la ricezione e l’interpretazione delle singole frasi dei passi oscuri e di quelli di immediata comprensione. Ma soprattutto muta la poetica della cultura ricevente e, di conseguenza, anche lo stile della traduzione (Levik 1966), ed è in virtù di tali trasmutazioni che nel 1964 il Faust di Goethe, grazie a Pasternak, rinasce a nuova vita (Aseev 1964). Il problema dell’equivalenza traduttiva è quindi, già in epoca sovietica, consustanziale al dibattito sulla ritraduzione, come problema pratico (ricerca e individuazione delle adeguate corrispondenze lessicali e morfosintattiche) e, contestualmente, teorico (selezione delle strategie traduttive individuate e categorizzate dagli studiosi con metodi descrittivi) determinato dall’esigenza di rinnovare e approfondire la conoscenza dei classici stranieri (Montella 1978).
Le quattro traduzioni novecentesche della Commedia non colmano, tuttavia, una non trascurabile lacuna (Sedakova 2017): l’assenza, nella cultura russa, di una traduzione interlineare, e non in versi, del poema dantesco. L’esito della versione poetica di un poema si identifica, inevitabilmente, in una riformulazione, in una perifrasi, ancorché poetica, e priva, come si è già osservato, dell’immediatezza che connota il testo originale. La realizzazione di una versione interlineare, letterale e in prosa, rappresenta nondimeno un’impresa complessa: innanzi tutto per il fondamentale requisito della leggibilità, ostacolato dalla ricorrente intraducibilità del verbo dantesco, a sua volta causata dalla mancanza di adeguati traducenti in lingua russa; in secondo luogo per l’irriproducibile essenzialità dello stile dantesco che induce il traduttore a tentare di introdurre, nella traduzione stessa, chiose e precisazioni, adottando soluzioni ipertraduttive (Newmark 1981), con l’ineludibile conseguenza di conferire alla traduzione un carattere perifrastico (Sedakova 2017). La traduzione interlineare, sorta di glossario disposto orizzontalmente e organizzato in unità discrete (Steiner 1975) e assimilabile a una trascrizione semantica dell’originale (Nida 1964) è però resa possibile in misura del grado di similarità strutturale tra le due lingue, poiché le loro differenze morfosintattiche e lessicali determinano, proporzionalmente, il grado di intelligibilità dell’esito traduttivo (Gutt 1991). Assumendo, poi, la visione metafisica di Walter Benjamin, si può assegnare alla traduzione interlineare ideale, con la sua letteralità estrema, il compito di illuminare tutti i significati del testo originale (Benjamin 1923).
Bibliografia
Traduzioni russe della Divina Commedia pubblicate nel Novecento
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Opere consultate
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– 1967: Efim Etkind, Ot redakcii (Dalla redazione), in Dante Alig’eri, Božestvennaja komedija, (Divina commedia), per. M. L. Lozinskogo, Moskva, Nauka, 1967, pp. 5-6
– 1974: Efim Etkind, Tvorčestvo M. L. Lozinskogo (L’opera di M.L. Lozinskij), in Bagrovoe svetilo. Stichi zarubežnych poėtov v perevode Michaila Lozinskogo (L’astro rosso. Versi di poeti stranieri nella traduzione di Michail Lozinskij), Moskva, Progress, 1974, pp. 5-22
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Venuti 1995: Lawrence Venuti, The Translator’s Invisibility. A History of Translation, London, Routledge (edizione italiana: Lawrence Venuti, L’invisibilità del traduttore, trad. di Marina Guglielmi, Roma, Armando, 1999)
Opere citate nel testo
Miguel Asín Palacios, La escatología en la Divina Comedia, Madrid, E. Maestre, 1919 (edizione italiana: Miguel Asín Palacios, L’escatologia islamica nella Divina Commedia, trad. di R. Rossi Testa e Y. Tawfik, Parma, Pratiche, 1993
Michele Barbi, Dante. Vita, opere e fortuna, Firenze, Sansoni, 1933
Giovanni Boccaccio, Il comento alla Divina Commedia e gli altri scritti intorno a Dante, a cura di Domenico Guerri, Bari, Laterza, 1918
Alfonso De Salvio, The Rhyme Words in the Divina Commedia, Paris, H. Champion, 1929
Henri Hauvette, Dante. Introduction à l’étude de la “Divine Comédie” (Dante. Introduzione allo studio della Divina Commedia), Paris, Hachette, 1911
Edward Moore, The Astronomy of Dante (L’astronomia di Dante), in Studies in Dante, Oxford, at the Clarendon Press, 1903, pp. 1-108
Ernesto Giacomo Parodi, Poesia e storia nella “Divina Commedia”. Studi critici, Napoli, Perrella, 1920
Gaetano Salvemini, Florence in the Time of Dante, Cambridge, Massachussets, The Medieval Academy of America, 1936 (edizione italiana: Gaetano Salvemini, Firenze ai tempi di Dante, in Studi in onore di Armando Sapori, Milano-Varese, Istituto Editoriale Cisalpino, 1957, pp. 469-482)