HOME È GIÀ LA PROMESSA DI UN RITORNO
A volte leggo una storia che ho scritto magari trent’anni fa
e penso che la farei in modo diverso.
Alice Munro
di Susanna Basso
A volte Alice Munro lo fa. A volte, dopo aver riletto una storia scritta magari trent’anni prima, non si limita a pensare che la farebbe in modo diverso, ma precisamente la riscrive. È accaduto con un racconto il cui titolo – Home – è già la promessa di un ritorno. «Home» infatti è in inglese un luogo e un moto a luogo, una voce dell’andare che, facendo a meno della preposizione, allude a un automatismo del ritorno. E sull’eterno paradigma narrativo del nostos Alice Munro assume una prospettiva speciale attraverso questa operazione di ritorno a casa nella scrittura.
L’ordinaria odissea di chi torna per senso del dovere, quasi a dispetto della nostalgia, si articola in questo racconto in tappe senza imprevisti, a bordo di modesti autobus dai sedili scomodi, diretti verso una campagna autunnale che nulla ha di mitico e che ciononostante è, per chi narra, «quel che ho sempre immaginato di voler avere davanti agli occhi l’istante prima di morire»: Itaca, decisamente, non le colonne d’Ercole.
Il racconto (Munro 1973), che reca una data di fine stesura, 12 novembre 1973 , e una dedica allo scrittore John Metcalf, comparve nel 1974 in Helwig e Harcourt (1974, 133-153), ma non fu inserito in nessuna delle due raccolte immediatamente successive della stessa Munro, vale a dire Munro 1974 e Munro 1978, quasi a indicare una parziale insoddisfazione da parte dell’autore.
Trentatré anni dopo, in compenso, quella stessa storia è inclusa nella raccolta autobiografica The View from Castle Rock (Munro 2006). Munro torna su un testo vecchio al quale assegna un posto dentro un libro molto speciale nell’ambito della sua produzione, un libro che per la prima volta accoglie in modo più esplicito l’ipotesi di sovrapporre l’io narrante alla vicenda esistenziale del narratore. A quarantadue anni Munro produce un testo che racconta un ritorno a casa. A settantacinque, recupera quel testo e lo colloca al cuore della seconda sezione di A View from Castle Rock, quella appunto intitolata Home, «A casa».
Tuttavia, il tempo trascorso tra le due stesure fa succedere cose che smantellano la struttura del testo con la delicata grazia di una partita a shanghai, alleggerendo la linea di trasmissione lungo la quale la storia raggiunge il lettore. Maestra di segreti, più o meno svelati, Alice Munro sa bene che tornare a casa è sempre riaccostarsi alla banalità del proprio interminabile segreto. Uguale per tutti e non per questo universale, all’origine dei nostri amori e dei nostri imbarazzi mescolati insieme, della nostra volontà di difesa di un mondo, e della vergogna di essere stati i primi a tradirlo.
Vediamo allora in che cosa si “traduce” il passare di trent’anni nelle parole di un grande scrittore alle prese con un doppio ritorno, quello narrato dalla storia e quello che riguarda invece la scrittura.
Prima di tutto il testo del 1973, mai tradotto in italiano, scandisce la vicenda in una quadrilogia temporale: l’azione è preceduta dalla precisazione del giorno della settimana in cui si svolge. Comincia il venerdì e si conclude, anzi si risolve, il lunedì. La versione recente evita di segmentare il narrato; la protagonista torna a casa durante il fine settimana, è chiaro, ma si inserisce in un flusso di tempo che non ammette pause. Sono le ore eterne e brevi di chi rimette piede in quel terreno minato di cui conosce in sogno ogni intima insidia. Inutile tentare l’ordine pari del giorno e della notte, di luce e buio: a casa, i paragrafi di tempo seguono una punteggiatura propria.
Il primo cambiamento lessicale a colpirmi ha l’apparente inconsistenza di un avverbio. Mentre ascolta controvoglia il solito sproloquio sui modesti orrori di incidenti verificatisi per inesperienza e stupidità degli automobilisti locali, la protagonista commenta: «Idioti!», che nella prima stesura è pronunciato coldly, con freddezza, mentre nella seconda è detto shortly, bruscamente, come a voler liquidare l’argomento. Si è passati dunque dal distacco alla brevità, un bel salto, quanto a effetto sul lettore. Ma subito dopo aver scelto il nuovo avverbio, Munro inserisce tre righe di testo assai significative e del tutto assenti nella versione del 1973. Ecco di seguito i due passaggi seguiti dalla traduzione.
«Idiots,» I say coldly (Munro 1973, 134).
«Che idioti,» commento fredda.
«Idiots,» I say shortly. It’s not just that I have no sympathy with the gravel-runners, the blind drunks. It’s that I think this conversation, my stepmother’s expansion and relish, may be embarassing for my father. Later I’ll understand that this probably isn’t so. (Munro 2006, 287)
Che idioti,- commento brusca. Non è solo che non mi inteneriscano le sorti di ubriachi fradici e appassionati di testa-coda sulla ghiaia. È che conversazioni simili, con il gusto e l’enfasi di cui le carica sua moglie, temo possano mettere in imbarazzo mio padre. Capirò in seguito che probabilmente non è vero (Basso 2007, 253).
La prospettiva è cambiata, si è spostata avanti di trent’anni: la figlia quarantenne che ritorna a casa ha ora anche gli anni dei genitori che sta andando a trovare. Comprende verità più longeve.
Da qui in poi, da questa breve intrusione di un narratore successivo, il testo subisce una rivoluzione silenziosa che ne stravolge gli equilibri. Attraverso un gioco fatto quasi esclusivamente di punti a capo che sfoltiscono la pagina agli occhi di chi legge, Munro affronta la descrizione della casa, autentica protagonista del racconto cui, del resto, dà il titolo. La casa dunque è almeno tre case: quella di un tempo, quella del ricordo e quella del presente narrativo. Tavoli, luci, chiazze sulla tappezzeria, un melo, una porta rosicchiata: sono cambiate tante cose, compreso il rapporto della voce narrante con la propria commozione, ormai tenuta in vita un po’ artificialmente per assecondare, si può dire, l’aspettativa del padre.
In questa parte del racconto il vecchio testo fa ampio uso sia del passato frequentativo introdotto dall’ausiliare would, sia del costrutto temporale used to, che esprime non solo l’abitudine ma anche la verità di una situazione nel passato; il testo del 2006 cancella la sfumatura nostalgica intrappolata in queste formule verbali e passa al presente indicativo negativo. Non leggiamo che cosa la protagonista un tempo osservava, cercava, rimpiangeva, ma quello che non osserva, non cerca e non rimpiange più.
I used to go into the front rooms and rummage around looking for old photographs, and sheet music. I would sit at the piano where mice were nesting – banished now by Irlma – and try to play the opening of the Moonlight Sonata. I would go through the bookcase looking for my old Latin Poetry… (Munro 1973, 136).
Una volta andavo in soggiorno a frugare ovunque in cerca di fotografie vecchie e spartiti. Mi sedevo al piano dove i topi avevano fatto il nido – quello che ormai Irlma ha eliminato – e provavo a suonare l’inizio della Sonata al Chiaro di Luna. Passavo in rassegna lo scaffale cercando i miei vecchi Lirici latini…
I don’t go into the front room now, to rummage in the piano bench for old photographs and sheet music. I don’t go looking for my old high-school texts, my Latin poetry… (Munro 2006, 290).
Non ci vado più in soggiorno, a frugare dentro lo sgabello del piano in cerca di foto vecchie e spartiti. Non mi metto più a cercare i vecchi libri di scuola, i lirici latini… (Basso 2007, 256).
A leggerle affiancate, queste frasi tanto simili dicono inequivocabilmente due modi del sentire, due diverse autorevolezze nell’affrontare la grammatica della verità. Non è un caso che il vecchio pianoforte sparisca, e con esso il riferimento malinconico al Chiaro di Luna di Beethoven; non è un caso che i lirici latini abbiano perso la lettera maiuscola: a impedire lo scivolamento nei languori del ricordo è stato senza dubbio il tempo e il modo del verbo. Certe parole, certe ridondanze vengono smascherate dal rigore della struttura grammaticale e non trovano più nascondigli nella proposizione.
La casa rammodernata che ospita il padre e la matrigna fodera letteralmente la casa della madre rinnovando ogni volta il ricordo della sua assenza dominante, della sua trascorsa malattia. E anche qui, che trasformazione, dalla prospettiva filiale della versione del 1973, dove si legge:
She was dying for many years of Parkinson’s disease, which was an illness so little known to us, and so bizarre in its effects, that it did seem just the sort of thing she might have made up, out of perversity, and her true need for attention, and stranger dimensions to her life. The attention was what I was bound not to give, not to be blackmailed into giving (Munro 1973, 136).
Ci mise degli anni a morire di morbo di Parkinson, un male a noi talmente poco noto e talmente bizzarro a livello di sintomi, da sembrare proprio il genere di cosa che avrebbe potuto inventarsi, per il suo perverso e autentico bisogno di attenzione, di una vita dai contorni più straordinari. Quell’attenzione che mi sentivo in dovere di negarle, al cui ricatto sentivo di dovermi sottrarre.
a quella più matura e più distributiva del 2006:
The disease she had was so little known then, and so bizarre in its effects, that it did seem to be just the sort of thing she might have contrived, out of perversity and her true need for attention, for bigger dimensions in her life. Attention that her family came to give her out of necessity, not quite grudgingly but so routinely that it seemed – it sometimes was – cold, impatient, untender (Munro 2006, 291).
Il male che aveva era talmente poco noto allora, e talmente bizzarro a livello di sintomi, da sembrarci proprio il genere di malattia che avrebbe potuto escogitare per un suo perverso e autentico bisogno di attenzione, di una vita dai toni amplificati. E quell’attenzione la famiglia gliela concedeva per forza, senza vero e proprio rancore, ma in modo tanto scontato da apparire – da essere, talvolta – fredda, impaziente, priva di slancio (Basso 2007, 257).
Alla vecchia tensione madre-figlia si sostituisce la consapevolezza di un peso (parola di cui Munro, nelle sue tante storie, declina una rosa di sinonimi: load, burden, charge, duty, mishap, care, worry, trouble) condiviso con il resto della piccola comunità domestica. Ci sono anche gli altri, c’è un po’ meno io.
Il padre, dal canto suo, che nel vecchio racconto aveva abbandonato quasi ogni lettura ma che ancora amava sfogliare il suo Atlante Geografico Larousse, nella versione nuova consulta l’Atlante Storico che la figlia gli ha spedito. La geografia ha lasciato il posto alla storia, alle mappe del tempo.
Anche al personaggio della seconda moglie del padre la storia recente riserva cambiamenti: c’è più respiro nella descrizione del suo aspetto fisico, una curiosità più generosa nei confronti dei suoi modi. Gli scarti sono di poco conto, in verità, ma ne esce una donna un po’ diversa, degna di uno scambio di battute in più, per esempio sulla varietà del cibo che Irlma costantemente prepara e somministra a tutti.
Se prima si leggeva:
Irlma puts out coffee cups, a plate of soda crackers and graham crackers, cheese and butter, bran muffins, baking powder biscuits, bread, squares of home-made spice-cake with boiled icing.
“It’s not a lot but it’ll have to do» (Munro 1973, 137).
Irlma tira fuori le tazze da caffè, un piatto di cracker bianchi e integrali, formaggio, burro, focaccine di crusca, biscotti secchi, pane, e fette di pan di spezie fatto in casa con la glassa di zucchero a velo.
– Non è granché ma ci si dovrà accontentare.
ora leggiamo:
Irlma sets out coffee mugs, a plate of soda crackers and graham crackers, cheese and butter, bran muffins, baking-powder biscuits, squares of spice cake with boiled icing.
«It’s not a lot,» she says,. «I’m getting lazy in my old age.»
I say that will never happen, she will never get lazy.
«The cake is even a mix, I’m shamed to tell you. Next thing you know it’ll be boughten.»
«It’s good,» I say. «Some mixes are really good.»
«That’s a fact,» says Irlma (Munro 2006, 292).
Irlma tira fuori i tazzoni da caffè e un piatto di cracker bianchi e integrali, formaggio, burro, focaccine di crusca, biscotti secchi e fette di pan di spezie con la glassa di zucchero a velo.
– Non è granché,- dice. – Invecchiando divento pigra.
Io ribatto che questo è escluso, pigra non lo diventerà mai.
La torta è addirittura di quelle dei pacchetti, mi vergogno a dirlo. Ancora un po’ e le prendo bell’e fatte.
È buona – faccio io. – Certe miscele preparate sono ottime.
Questo è poco ma sicuro – dice Irlma (Basso 2007, 258).
Non è soltanto questione di attardarsi per qualche riga di testo sulla vecchia matrigna; è comparsa anche una sintonia. Quel pan di spezie non più fatto in casa complica il personaggio di Irlma e inaugura tra le due donne la possibilità di una conversazione. È Irlma anzi il personaggio che subisce la metamorfosi più rilevante nel testo del 2006; Irlma che ha guadagnato una diversa dignità estetica e sintattica; Irlma che è definita a mezza voce dal padre e poi addirittura dalla protagonista-narrante «a wonder», un fenomeno.
E così via, un piccolo smottamento dopo l’altro, fino alla grande svolta, quella che davvero innalza la storia a un livello diverso. La versione del 1973 conteneva paragrafi più o meno corposi di testo segnalati dal corsivo. Si trattava di appunti di scrittura, commenti alla porzione di racconto appena conclusa. Mi soffermerò solo sul primo e l’ultimo di questi inserti scomparsi, perché mi paiono sufficienti a chiarire il percorso di scrittura, a riassumere la storia di questa storia.
Nel primo dunque si dice:
Too slow as usual, all that approach with the three buses and then the house, too much house with the wall paper and plastic chair-cushion kind of thing, hardly anything yet about the people in it. Also the bit about Mother, who probably doesn’t belong here at all, but I can’t come within reach of her without being invaded by her, then trying to say too much too fast to get her finished with. Even now I am tempted to put in my dream about her (Munro 1973, 137).
Troppo lungo, come sempre, tutto l’avvicinamento con i tre autobus e poi la casa, troppa casa, con dettagli tipo la tappezzeria e i cuscini di plastica sulle sedie, e in compenso quasi niente sulle persone che ci abitano. Anche il pezzo su Mamma, che probabilmente non dovrebbe stare qui affatto, solo che non riesco ad accostarmi a lei senza farmi risucchiare, e a quel punto cerco di dire troppo troppo in fretta, per farla finita. Anche adesso ho la tentazione di inserire subito il sogno su di lei.
È la voce invadente di un narratore che commenta la propria stessa scrittura, fingendo insoddisfazione sul risultato per sortire un ulteriore effetto-sorpresa. Un giochetto poco pulito nei riguardi del lettore che non deve aver convinto Alice Munro trent’anni e un centinaio di storie dopo. E’ responsabilità dell’autore spogliare il testo del fragile compiacimento sul testo. Quello che è «estraneo» via, parafrasando Beckett.
E a maggior ragione risulterà necessario eliminare il lungo corsivo dell’epilogo che inizia con la frase:
I don’t know how to end this (Munro 1973, 151).
Non so come finire tutto questo.
E si conclude con una convocazione del lettore:
Outside that, the dark of these country nights which I am always now surprised to rediscover, and the cold which even then must have been building into the cold of that extraordinary winter, which killed all the chestnut trees , and many orchards.
You can see the scene, can’t you, you can see it quietly made, that magic and prosaic safety briefly held for us, the camera moving out and out, that spot shrinking, darkness. Yes. That’s effective.
I don’t want any more effects, I tell you, lying. Idon’t know want I want. I want to do this with honour, if I possibly can (Munro 1973, 153).
E fuori, il buio di certe sere in aperta campagna, che sono sempre stupita di riscoprire adesso, e il freddo che anche allora doveva aver cominciato ad accumularsi nel gelo di quell’inverno straordinario che fece morire tutti i castagni, e anche molti frutteti. La vedi, no, la scena costruirsi silenziosamente, vedi il senso di magica e banale sicurezza sospendersi un istante a nostro beneficio, la telecamera allontanarsi sempre di più, il luogo rimpicciolirsi, calare il buio. Sì. Funziona.
Basta, non voglio più espedienti, ti dico, mentendo. Non so che cosa voglio. Voglio fare quello che faccio con onore, se solo ci riesco.
Tutto ciò sparisce e il testo si interrompe con la consegna al lettore del ricordo, nudo.
Outside of that, the dark of the country nights when few cars came down our road and there were no outdoor lights.
And the cold which even then must have been gathering, building into the cold of that extraordinary winter which killed all the chestnut trees, and many orchards (Munro 2006, 315).
E fuori, il buio delle sere in aperta campagna quando passavano ben poche macchine sulla nostra strada e non esistevano le luci da esterni.
E il freddo, che già allora doveva aver cominciato ad accumularsi, per trasformarsi nel gelo di quell’inverno straordinario che fece morire tutti i castagni, e anche molti frutteti (Basso 2007, 278).
Non può sfuggire l’assenza della sorpresa nella versione recente, mi pare. E’ così naturale riscoprire il buio di quelle «sere in aperta campagna, quando passavano ben poche macchine sulla nostra strada». La fenomenologia del ricordo ha distillato parole limpide e asciutte. Come dichiara Munro in Home 1973, l’autore vuole fare quel che fa con onore, se possibile. Anni dopo, in Home 2006, l’autore trova risposta al vecchio proposito, e sembra facilissimo, una volta che lo si legge sulla pagina. L’onore consiste nel cancellare l’intrusione del proposito stesso, per lasciare che il racconto si depositi, parola per parola, nella mente di chi legge.
Non ho tradotto il racconto del 1973, fatta eccezione per i brani offerti qui anche in italiano per ragioni di simmetria linguistica con Home 2006, ma riflettere su queste due storie quasi uguali e affatto diverse non poteva non trasformare i passaggi di ogni cambiamento in indizi chiave per il mio percorso. Sapere che l’autore trasforma in shortly l’avverbio che prima era coldly amplifica il senso della seconda scelta rendendola essenziale alla interpretazione del testo.
Sarebbe perfetto disporre sempre di almeno due versioni di un testo da tradurre; sono certa che la qualità della nostra attenzione e la cura dedicata alle parole aumenterebbero di molto, mettendoci in condizione di fare quel che facciamo con onore.
Purtroppo scopro rileggendo la mia traduzione che il vantaggio di questo doppio testo a fronte non sempre è bastato, non mi ha impedito, ad esempio, un errore piccolo e grave allo stesso tempo. Ne voglio dare conto perché ha a che fare con il lavorio intenso e profondo contenuto in questa storia. Riporto anche in questo caso le due versioni del passaggio e la traduzione della seconda in italiano.
The town, unlike the house, stays very much the same, nobody is renovating or changing it. Nevertheless it has faded, for me. I have written about it and used it up. The same banks and barber shops and town hall tower, but all their secret, plentiful messages drained away. Not for my father, perhaps. He has lived here, nowhere else; he has not escaped things by this use (Munro 1973, 143).
A differenza della casa, il paese è rimasto più o meno lo stesso, nessuno si prende la briga di ristrutturarlo o cambiarlo. Eppure ai miei occhi è sbiadito. Ne ho parlato nelle cose che scrivo, fino a consumarlo. Le stesse banche, il barbiere, la torre del municipio, ma tutta la segreta molteplicità delle cose che avevano da dire si è prosciugata. Non per mio padre, forse. Lui è vissuto qui, e solo qui; non è sfuggito alle cose…
The town, unlike the house, stays very much the same – nobody is renovating or changing it. Nevertheless it has changed for me. I have written about it and used it up. Here are more or less the same banks and hardware and grocery stores and the barbershop and the Town Hall tower, but all their secret, plentiful messages for me have drained away. Not for my father. He has lived here and nowhere else. He has not escaped things by such use (Munro 2006, 301).
A differenza della casa, il paese è rimasto più o meno lo stesso: nessuno si prende la briga di ristrutturarlo o cambiarlo. Eppure ai miei occhi è diverso. Ne ho parlato nelle cose che scrivo, fino a consumarlo. Ecco qui, grossomodo le stesse banche e la ferramenta e gli alimentari e il barbiere e la torre del municipio, solo che ormai per me è finito il segreto che custodivano, si sono dissolte le cose che avevano da dire. Non per mio padre. Lui è vissuto qui, e solo qui. Non è sfuggito alle cose, non le ha consumate per l’uso(Basso 2007, 266).
Sarebbe bastato notare, nell’ultima riga, il passaggio da this use a such use: il dimostrativo generico «questo» che si precisa in «simile, cosiffatto». Avrei evitato di indebolire il senso di una affermazione sulla necessità di fare della scrittura uno strumento di fuga dalle cose. Avrei detto: «Non per mio padre. Lui è vissuto qui, e solo qui. Non è sfuggito alle cose attraverso quell’uso».
Perché non si tratta di consumare le cose per l’uso, bensì di sfuggire alle cose attraverso l’uso che la scrittura fa del reale. Due pensieri sottili e diversi, illuminati da un aggettivo perduto.
Se potessimo accogliere ogni dettaglio di uno scritto per quello che è, vale a dire la testimonianza di un percorso continuamente selettivo e perciò continuamente creativo, sentiremmo l’onere del nostro lavoro tradursi in onore invisibile, come quello lasciato sottotraccia dal ritorno A casa di Alice Munro.
Appendice
Our house was of a decent size. We didn’t exactly know when it had been built but it had to be less than a century old, because 1858 was the year the first settler had stopped at a place called Bodmin – which had now disapperaed – built himself a raft, and come down the river to clear trees from the land that later became a whole village. …
Our house would not have been one of the first in that early settlement, because it was covered with brick, and they were all just wood, but it had probably gone up not long afterward. It turned its back on the village, facing west across slightly downsloping fields to the hidden curve where the river made what was called the Big Bend. Beyond the river was a patch of dark evergreen trees, probably cedar but too far away to tell.
Casa nostra era discretamente grande. Non sapevamo con esattezza quando fosse stata costruita, ma doveva avere meno di un secolo perché il 1858 fu l’anno in cui il primo colono si era fermato in una località– ormai scomparsa – chiamata Bodmin e, dopo essersi fabbricato una zattera, aveva seguito il corso del fiume abbattendo gli alberi di un territorio sul quale in seguito sorse un intero villaggio. …
Casa nostra non doveva essere stata tra le prime costruzioni dell’insediamento, perché era foderata di mattoni a differenza delle altre che erano tutte e solo di legno, ma non doveva neppure essere stata edificata molto tempo dopo. Dava le spalle al villaggio e affacciava a ovest su una distesa di prati in lieve discesa fino a un’ansa nascosta del fiume che veniva chiamata Big Bend . Di là dal fiume si ergeva una macchia di sempreverdi, cedri probabilmente, ma troppo distanti per poter dire con certezza.
In un recente articolo apparso sul settimanale New Yorker (September 19, 2011) Alice Munro torna ancora una volta a casa. Il pezzo si intitola Dear Life e reca il sottotitolo A Childhood Visitation. Non si tratta di un racconto, e Munro ci tiene a precisarlo; il senso, anzi, dello scritto sembra essere quello di tornare una volta per tutte al luogo che negli anni ha abitato tante sue storie. L’iterata urgenza di riprendere un discorso, l’impossibilità di «sfuggire alle cose» raccontandole, come si legge in Home, arriva al lettore con inedita forza e limpidezza.
A ottant’anni, Alice Munro trova il bandolo di una sua stessa matassa narrativa e punta uno sguardo fermo sulla casa della sua infanzia che è correlativo oggettivo di sua madre e della sua relazione con lei. La declinazione di un grumo di sofferenza e di vergogna prodotto dalla malattia invalidante della madre approda a una consapevolezza ulteriore, incredibilmente nuova. Nei racconti, la casa è il luogo che registra il declino e poi l’assenza del personaggio della madre di figlie sempre diverse ma anche sempre uguali.
Nel nuovo testo, Munro semplicemente ribalta i termini dell’assenza e denuncia il proprio venir meno, la propria incapacità di figlia di esserci, in quella casa, accanto a quella madre, soprattutto alla fine.
I did not go home for my mother’s last illness or for her funeral. I had two small children and nobody in Vancouver to leave them with. We could barely have afforded the trip, and my husband had a contempt for formal behaviour, but why blame it on him? I felt the same. We say of some things that they can’t be forgiven, or that we will never forgive ourselves. But we do – we do it all the time.
When my mother was dying, she got out of the hospital somehow, at night, and wandered around town until someone who didn’t know her at all spotted her and took her in. If this were fiction, as I said, it would be too much, but it is true.
Non tornai a casa negli ultimi tempi della malattia di mia madre e nemmeno per il funerale. Avevo due bambine piccole che non avrei saputo a chi affidare, a Vancouver. Probabilmente non potevamo neanche permetterci i costi del viaggio, senza considerare che mio marito detestava le formalità; ma perché scaricare la colpa su di lui? La pensavo così anch’io. Ci ripetiamo spesso che esistono cose imperdonabili, o delle quali non ci perdoneremo mai. Non è vero: non facciamo altro.
Una sera, verso la fine, mia madre riuscì in qualche modo a scappare dall’ospedale e si mise a vagare per il paese finché una persona che non la conosceva affatto la vide e la riportò indietro. Se l’avessi scritto in un racconto, come ho detto, sarebbe stato troppo, invece è vero.
Se si è scrittori (e forse non solo) si è condannati a consumare il tema del ritorno a casa, nel tentativo di esorcizzare quello mancato, l’imperdonabile ritorno mai avvenuto. Se si è scrittori (e forse solo in questo caso) si ha il potere di insistere nella propria ricerca della verità e la grazia di offrirne il risultato ai lettori.
Bibliografia
Helwig e Harcourt 1974: New Canadian Stories, edited by David Helwig and Joan Harcourt, Oberon Press, Ottawa 1974
Munro 1973: Alice Munro, Home, in Helwig e Harcourt 1974, pp. 133-153
– 1974, Something I’ve Been Meaning to Tell You (McGraw-Hill Ryerson, Toronto 1974)
– 1978: Who Do You Think You Are, Macmillan, Toronto 1978
– 2006: The View From Castle Rock, McClelland & Stewart, Toronto 2006
Basso 2007: Susanna Basso, La vista da Castle Rock, Einaudi, Torino 2007 (traduzione da Munro 2006)