Censura e veleni fascisti

Le traduzioni di Agatha Christie degli anni Trenta

 

 

di Francesco Spurio

Agatha Christie continua a essere un’autrice con grande seguito di lettori. Ma solo relativamente da poco i suoi libri hanno cominciato a essere offerti dalla Mondadori, che da sempre ne detiene i diritti per l’Italia, in traduzioni più rispettose dell’originale. Fino agli anni Ottanta si sono continuate a ristampare e a mandare in libreria le versioni delle sue prime opere compiute negli anni Trenta, che erano tutto fuorché integrali e presentavano vistosi tagli sia nei dialoghi sia nelle parti descrittive. I suoi lettori attuali rimarrebbero certo sconcertati. Ancora oggi su una bancarella dell’usato o su eBay un lettore potrebbe facilmente imbattersi in un’edizione mondadoriana ridotta e acquistarla ritenendola erroneamente integrale.

Tuttavia, gli estimatori della Christie si consolino e non si stupiscano più di tanto poiché la «regina del giallo» è in ottima compagnia: le opere di altri nomi prestigiosi come Erle Stanley Gardner, Ellery Queen, Rex Stout, Margery Allingham e S.S. Van Dine non hanno infatti ricevuto un trattamento migliore. Del resto, il concetto di traduzione integrale è sempre stato piuttosto labile e variamente interpretato nel mondo dell’editoria di massa del nostro paese. Lo dimostrano non soltanto i tagli operati sui testi originali, ma anche la pratica assai diffusa di rimaneggiarne o addirittura riscriverne interi brani. Se infatti alcune di queste operazioni erano (e sono) in parte motivate da chiare esigenze editoriali, quali ad esempio la necessità di ridurre il numero delle pagine per contenere i costi e garantire un prezzo di copertina moderato (elemento essenziale per i gialli, distribuiti in edicola), altre invece erano diretta conseguenza del particolare periodo storico in cui le traduzioni furono realizzate. Il genere poliziesco, fatta eccezione per qualche sporadica pubblicazione antecedente, giunse nel nostro paese nel 1929, in piena dittatura fascista, con il varo da parte di Arnoldo Mondadori della collana «I Libri Gialli».

Per l’epoca si trattava di una piccola rivoluzione in un settore, quello della narrativa di consumo, che vedeva la predominanza di autori italiani. Il regime non aveva infatti mai incoraggiato la pubblicazione di autori stranieri (soprattutto britannici, americani o francesi) ed era particolarmente avverso proprio ai romanzi polizieschi in quanto li considerava immorali per le tematiche trattate nonché espressione di un mondo, specialmente quello anglosassone, i cui valori potevano corrompere gli animi più impressionabili. Ciononostante il genere conobbe un successo travolgente conquistandosi ben presto estimatori in ogni classe sociale e livello culturale. Forse fu proprio questa grande popolarità, a spingere il regime, sempre più insofferente per i più basilari diritti di libertà, a imporre verso la metà degli anni Trenta pesanti limitazioni alle case editrici che pubblicavano traduzioni.  Sull’argomento esiste ormai un’abbondante letteratura, di cui ci offre un sintetico panorama Natascia Barrale su questo stesso numero di «Tradurre». Nelle traduzioni dei romanzi, quindi, non dovevano infatti comparire accenni al suicidio (onde evitare pericolosi atti emulativi), scene o riferimenti di tipo sessuale, affermazioni che sminuissero o ridicolizzassero il popolo italico. Inoltre, gli editori dovevano impegnarsi a pubblicare anche un certo numero di opere di autori italiani, all’epoca pressoché assenti dal mondo del poliziesco. Contemporaneamente, nell’industria editoriale si andava affermando anche una certa idea di come dovesse essere presentato al lettore il romanzo tradotto: trattandosi di un’opera il cui principale scopo era di illustrare uno o più crimini, svelandone le motivazioni e smascherandone l’autore, tutto ciò che era avvertito come «estraneo» alla pura indagine poliziesca era spesso condensato o eliminato del tutto, in tal modo appiattendo e «normalizzando», come oggi si dice, quanto di letterariamente più ricercato potesse trovarsi nel testo originale. Lunghe descrizioni di ambienti o stati d’animo, riflessioni di natura filosofica, storica o sociale, come pure arguti doppi sensi o battute di spirito erano di solito considerati d’ostacolo alla lettura, che doveva essere resa il più possibile scorrevole e soprattutto non doveva distogliere l’attenzione del lettore dalla risoluzione dell’enigma. Qualità letteraria, addio.

Quanto ad Agatha Christie e ai suoi romanzi apparsi in Italia negli anni Trenta, tra i titoli che risultano particolarmente penalizzati da operazioni censorie di matrice fascista e manomissioni editoriali volte a sfrondare e semplificare il testo vanno citati Murder on the Orient Express (pubblicato in italiano con il laconico titolo Orient Express) e Lord Edgware Dies (Se morisse mio marito), le cui edizioni originali sono rispettivamente del 1934 e del 1933. Già nelle pagine iniziali del primo, ad esempio, un semplice accenno al suicidio di un ufficiale dell’esercito viene eliminato e trasformato in un incidente molto diverso e dall’esito senz’altro meno tragico: nella traduzione di Alfredo Pitta, datata 1935, la frase «a very distinguished officer had committed suicide» (Christie 1933, 11) diventa infatti «un distintissimo ufficiale si era perso in un’escursione nel deserto» (Pitta 1935, 5). Tra gli altri stravolgimenti operati nella versione italiana spiccano poi il cambiamento di nazionalità di due personaggi del romanzo che da italiani diventano anglosassone l’uno e brasiliano l’altro: è il caso del criminale Cassetti (alias Samuel Edward Ratchett), trasformato in O’Hara, e del commesso viaggiatore Antonio Foscarelli, ribattezzato Manuel Pereira. Scelte simili erano motivate perlopiù dal fatto che i personaggi di un romanzo giallo, genere considerato come si è detto potenzialmente amorale e diseducativo, non dovessero essere di origine italiana, in particolare quando venivano raffigurati come pericolosi criminali (è il caso di Cassetti).

Un altro interessante aspetto che caratterizza l’edizione italiana è la traduzione di tutte le espressioni francesi pronunciate dall’investigatore belga Hercule Poirot. Più che di una scelta in linea con i dettami fascisti volti a limitare il più possibile l’utilizzo e la circolazione di parole ed espressioni straniere nella lingua italiana scritta e orale, si trattava probabilmente in questo caso del frutto della preoccupazione che l’ignoranza delle lingue straniere nel pubblico cui erano rivolti i «Libri Gialli», non a caso diffusi in edicola, costituisse un ostacolo insuperabile alla lettura.

Se però si vuole avere un’idea più precisa di quanto profondamente la propaganda fascista riuscì a condizionare il lavoro di traduzione, basta rivolgere l’attenzione alle prime pagine di Lord Edgware Dies, tradotto da Tito N. Sarego e, come si ricorderà, apparso nei «Libri Gialli» nel 1935 col titolo Se morisse mio marito. Nel presentare infatti l’attrice Carlotta Adams, nella traduzione si mettono in bocca a Poirot e al suo fedele compagno di avventure Hastings frasi palesemente antisemite che non trovano traccia alcuna nel testo originale. La Christie si limita a descrivere, per bocca di Poirot, l’attrice come una donna scaltra e attratta dal denaro:

Miss Adams, I think, will succeed. She is shrewd and that makes for success. Though there is still an avenue of danger – since it is of danger we are talking. – You mean? – Love of money. Love of money may lead such a one from the prudent and cautious path (Christie 1933, 6).

Nell’edizione italiana, ben prima che si scatenasse la campagna razziale sul modello nazista, si rispolvera invece il risaputo cliché dell’ebreo gretto e avido, creando dal nulla uno sproloquio lungo ben nove righe. Si fa in modo che Poirot dapprima domandi a Hastings «Si sarà accorto, spero, che è ebrea?», per poi constatare che «quando ci si mettono, questi ebrei, sanno arrivare molto in alto … e costei non manca certo di attitudini». Nella libera «reinterpretazione» italiana, è invece attribuito a Hastings il seguente commento: «A dire il vero non ci avevo fatto caso, ma l’osservazione del mio amico mi aprì gli occhi e notai anch’io sul bel volto bruno le inconfondibili stigmate della sua razza» (Sarego 1935a, 7-8).

Oltre a simili rielaborazioni di chiara ispirazione fascista, queste e altre edizioni italiane di opere straniere appaiono alquanto diverse da quelle originali per alcuni motivi a cui ho già in parte accennato. Risultano infatti molto evidenti, già nei primi capitoli, quegli interventi di sintesi o eliminazione di frasi e capoversi che sono la cifra di numerose traduzioni del periodo. Ad esempio, nel primo capitolo di Orient Express risalta un taglio di ben sette righe e in particolare di un’osservazione fatta dallo stesso Poirot che appare alquanto significativa poiché getta una luce particolare su una strana conversazione tra il colonnello Arbuthnot e Miss Debenham («Rather an odd little comedy that I watch here» (Pitta 1935, 17)). Si tratta di un piccolo ma significativo indizio che permetterà ai lettori più accorti di capire come quello non sia affatto l’incontro fortuito in treno di due estranei. Qualche pagina prima, invece, la propensione a sforbiciare il testo si unisce purtroppo a un totale travisamento del suo significato. Si confronti infatti il capoverso

Five o’clock in the morning is an awkward time to board a train. There was still two hours before dawn. Conscious of an inadequate night’s sleep, and of a delicate mission successfully accomplished, Poirot curled up in a corner and fell asleep (Christie 1934, 14).

con la traduzione:

Imbarazzante salire in treno alle cinque del mattino, due ore prima dell’alba; Poirot pensava di non poter dormire a lungo, raggomitolato come si era messo, in un angolo; si era invece assopito quasi subito» (Pitta 1935, 8-9).

Sorvoliamo pure su quell’opinabile «imbarazzante» iniziale (qui awkward è traducibile semmai con «scomodo») e sulle parti omesse (l’accenno alla missione compiuta dall’investigatore): non si può che rimanere attoniti di fronte all’interpretazione fuorviante attribuita nella traduzione a «conscious of an inadequate night’s sleep», frase che indica semplicemente come Poirot fosse consapevole di non aver dormito abbastanza la notte precedente.

La sostituzione di intere parti del testo con frasi riassuntive in parte inventate è invece particolarmente evidente in Se morisse mio marito. Ad esempio, i tre capoversi del primo capitolo in cui Hastings comincia a narrare il caso investigativo che lo vedrà impegnato a far da spalla a Poirot sono condensati in appena qualche riga nella versione italiana. Anziché tradurre l’originale, si preferisce infatti ricorrere alla fantasia inserendo informazioni non contemplate dall’autrice: ne è un esempio la frase «however that may be, it was his genius that discovered the truth of the affair» (Christie 1933, 1), trasformata in «comunque, io, che gli ero sempre accanto come la sua ombra, posso assicurare che, senza il suo genio investigativo, nessuno al mondo ne sarebbe mai potuto venire a capo» (Sarego 1935a, 3). L’intento esplicativo e chiarificatore che si cela probabilmente dietro la creazione dell’inciso «che gli ero sempre accanto come la sua ombra» è l’ennesima manifestazione di come  il fine della traduzione sembri essere quello di riscrivere l’originale nei contenuti oltre che nella forma.

Talvolta i tagli sono talmente ampi da mutilare irrimediabilmente l’opera. È il caso di The Murder of Roger Ackroyd, probabilmente uno dei più celebri romanzi con Hercule Poirot come protagonista. Il romanzo fu proposto nei «Libri Gialli» nello stesso 1930, nella versione di Giuseppe Motta, col titolo Dalle nove alle dieci, che in seguito venne riavvicinato alla lettera dell’originale con L’assassinio di Roger Ackroyd. Basta aprire il volume a caso e confrontarlo col testo inglese per rendersi conto di quante e quali alterazioni l’opera abbia subito nel passaggio da una lingua all’altra. Soltanto nel terzo e quarto capitolo si contano infatti ben ventidue eliminazioni di frasi o capoversi. Tra queste, all’incirca a metà del terzo capitolo spicca il taglio di una pagina pressoché intera di dialogo tra Poirot e il dottor Sheppard (da «Not the Porcupine Oilfields?» a «By the way I should like to ask you» (Christie 1926, 27-28)), in cui l’investigatore belga offre al lettore un’acuta descrizione del suo interlocutore: «But you are a man of middle age, a doctor, a man who knows the folly and the vanity of most things in this life of ours» (letteralmente: voi siete invece un uomo di mezza età, un dottore che conosce la follia e la fatuità di molte cose di questa nostra vita).

Nel quarto capitolo, questa ben oliata tecnica del «taglia e cuci» porta ad accorciare altre parti di dialogo utili a caratterizzare situazioni e personaggi. Assente nell’edizione italiana è ad esempio la richiesta che Mrs Ackroyd rivolge al dott. Sheppard affinché si interessi alle disposizioni testamentarie del fratello per capire se questi ha tutelato la posizione della nipote, Flora (Christie 1926, 42-43). Poco più avanti, non viene tradotta la descrizione dei rapporti tra Ackroyd e il maggiore Blunt (da «A lot of people know Hector Blunt» a «is a permanent remainder of the friendship» (43-44)). Emblematica risulta poi l’errata traduzione della richiesta che Flora rivolge al maggiore («I wish you’d tell me about these African things. I’m sure you know what they all are» (44) con «Mi piacerebbe sentire qualcuna delle vostre avventure africane» (Motta 1930, 27). Interpretare «African things» come «avventure africane» rappresenta innanzitutto un travisamento dell’originale, dal momento che in realtà Flora con quell’espressione si riferisce ad alcuni oggetti presenti all’interno del cassetto di un tavolino. In secondo luogo, tale espressione crea una certa confusione nel lettore allorquando anche nella nostra versione il maggiore, anziché iniziare a narrare aneddoti del suo passato come ci si aspetterebbe, si avvicina insieme alla giovane donna al suddetto tavolino: «They bent over it together» (Christie 1926, 44), ossia, correttamente, «Entrambi si chinarono su di esso» (Motta 1930, 27). Questo dimostra soltanto come sintetizzare e condensare un testo siano operazioni alquanto complesse e basti quindi una svista per originare incongruenze del tutto assenti nel testo di partenza.

Esempi di questo tipo si trovano anche ne I sette quadranti (The Seven Dials Mystery, del 1929), un altro romanzo della Christie piuttosto sacrificato nella sua prima versione italiana del 1936, compiuta da Enrico Piceni. Particolarmente emblematico è il modo in cui viene riprodotta nella nostra lingua una delle scene iniziali che si svolge a mattina inoltrata nella casa signorile di campagna teatro delle vicende narrate, quando l’affittuaria della tenuta, Lady Coote, si rivolge in modo concitato a Tredwell, il maggiordomo, per domandargli se uno degli altri ospiti della casa, il signor Wade, sia finalmente sceso a far colazione (Christie 1929, 11). Nella versione italiana, in cui vengono tradotte soltanto le prime e le ultime battute scambiate dai due personaggi, il lettore non soltanto non riesce a capire chi sia mai questo signor Wade citato con tanta enfasi («Oh, mio Dio! – esclamò Lady Coote – il signor … il signor …; – Wade, Milady» (Piceni 1936, 8)), ma non comprende nemmeno che nesso vi sia tra costui e l’esclamazione pronunciata subito dopo da Lady Coote («Ma è molto tardi!»). Sfugge inoltre il motivo dell’agitazione di quest’ultima, provocata (come risulta chiarissimo dall’originale inglese) dal dispiacere che avverte ogniqualvolta i suoi ospiti, tra cui appunto il signor Wade, non si presentano puntuali a tavola. Il lettore dovrà pertanto attendere svariati capoversi prima che anche nella versione italiana vengano chiariti l’identità e il ruolo di questo apparentemente enigmatico personaggio, il quale, oltre a essere uno dei bizzarri villeggianti che popolano la dimora, sarà anche il primo a cadere vittima di un omicidio. Che dire poi del taglio di un’intera pagina del secondo capitolo (Christie 1929, 19-20) in cui si entra nel vivo di un’immancabile partita a bridge che coinvolge Wade, Lady Coote e il marito, Sir Oswald? Pur non essendo essenziale all’intreccio in sé, questa scena permette di presentare al lettore il personaggio di Sir Oswald e assume i contorni di un divertente siparietto matrimoniale quando costui, dopo aver punzecchiato la moglie rimproverandole a più riprese la sua inettitudine al gioco, si vede ricordare in contraccambio che le è debitore di ancora dieci scellini, somma da aggiungere alle otto sterline vintegli in precedenza.

Spesso, purtroppo, a farne le spese sono proprio gli intermezzi e le battute ironiche con cui l’autrice vivacizza la narrazione. Sempre in The Seven Dials Mystery, ad esempio, nel definire la reazione di Lady Coote di fronte ai ritardatari, una delle sue ospiti, soprannominata Socks («Calzini»), usa un’espressione divertente e al tempo stesso molto efficace che, ahimè, risulta totalmente assente nell’edizione italiana: «She gets more and more like a hen that wants to lay an egg and can’t» (Christie 1929, 12), ossia assomiglia sempre più a una gallina che vuole deporre un uovo e non ci riesce. Assente risulta anche gran parte dello spassoso dialogo iniziale (9-10) tra Lady Coote e il temibile capo-giardiniere, MacDonald, il quale con i suoi modi bruschi terrorizza la povera donna rifiutandosi di farle avere l’uva da lei richiesta perché «no properly fit for picking yet» (non ancora pronta per essere raccolta), salvo poi accondiscendere alla stessa richiesta quando, qualche pagina più avanti (33-34), a rivolgergliela sarà la proprietaria della tenuta, Helen Caterham, detta «Bundle». Piccole ma significative variazioni, probabilmente dovute anche all’assenza di strumenti di conoscenza del parlato quotidiano inglese, si notano poi nelle descrizioni dei personaggi: nel terzo capitolo (28), Mrs Coker viene definita in modo piuttosto colorito come «the old trout that lives with Lorraine» (la vecchia strega che vive con Lorraine), frase che nella traduzione italiana viene riscritta in modo piatto e convenzionale: «la dama di compagnia che vive con Lorraine» (22). Quando qualche riga prima la stessa Lorraine viene classificata come «a corker» (una bomba o una cannonata), il traduttore rinuncia all’impresa, inserendo a posto della definizione, probabilmente ritenuta ardita, alcuni laconici puntini di sospensione.

Vi sono poi, invece, anche casi, oltre al già citato Se morisse mio marito, in cui le traduzioni non si limitano a impoverire il testo sottraendone alcune parti, ma anzi tendono ad arricchirlo qua e là con inserti o precisazioni a dir poco «creative». Nella versione italiana di The Sittaford Mystery (Un messaggio dagli spiriti, traduzione di Tito N. Sarego, 1935), ad esempio, vengono immaginate cose evidentemente rimaste nella penna dell’autrice, quasi come se compito della traduzione fosse quello di andare oltre il testo di partenza, intravedendo fra le righe particolari ritenuti pertinenti, ma di fatto assenti. Nella pagina di apertura, una cameriera vestita in modo impeccabile («a neatly clad parlourmaid» (Christie 1931, 7)) viene descritta con indosso «un grembiule ricamato e crestina di pizzo» (Sarego 1935b, 153); poco più avanti, se nell’originale inglese (Christie 1931, 8) il maggiore Burnaby si alza per aggiungere un ciocco al fuoco prima di tornare alla sua poltrona («He put the log expertly in the right place and returned once more to the armchair his hostess had indicated»), nella traduzione, invece, dispone «con mano esperta un bel ceppo sulle brage rosseggianti» e torna «a sprofondarsi nella comoda poltrona che la padrona di casa gli aveva offerta» (Sarego 1935b, 154). Più avanti, dopo essersi soffermato a meditare sulle sue ospiti, il maggiore si riscuote riprendendo la conversazione con loro («He roused himself to the necessity of conversation» (Christie 1931, 10)), mentre in italiano leggiamo che «La voce sonora della madre lo strappò alle sue divagazioni sull’estetica femminile» (Sarego 1935b, 155). La tendenza a reinventare il testo talvolta sfugge di mano ottenendo come prevedibile risultato quello di stravolgere completamente le scelte dell’autrice. Non si riesce a comprendere come mai la signora Willett, descritta come una donna per niente stupida, all’apparenza un po’ svampita ma in realtà scaltra ( «she did not look a fool. She was a tall woman with a rather silly manner – but her physiognomy was shrewd rather than foolish» (Christie 1931, 9)), si trasformi improvvisamente in una «bella donna, alta, formosa, dagli occhi vivaci e dal contegno risoluto, quasi virile» (Sarego 1935b, 155). Del resto, sfugge a ogni logica anche l’interpretazione di una frase pronunciata dal signor Garfield poco dopo essere stato gentilmente accompagnato in casa della signora Willet dal suo giovane amico, il signor Rycroft. La frase «As he says, my young friend very kindly piloted me here, – said Mr Rycroft […]» (Christie 1931, 12) non trova infatti alcuna corrispondenza con la versione italiana: «Sì, proprio – gracchiò il professore con una vocetta fessa – è un gran buon ragazzo, il nostro Ronnie; e forte come un toro» (Sarego 1935b, 157).

Da queste e numerosissime altre osservazioni che si potrebbero aggiungere continuando a comparare gli originali con le edizioni italiane emerge un quadro alquanto sconsolante dello stato in cui versava il concetto di traduzione negli anni precedenti al secondo conflitto mondiale. Approvando e incoraggiando radicali operazioni di editing, il mondo editoriale nostrano dimostrava una scarsa considerazione di fondo non solo nei confronti degli autori stranieri e delle loro opere che prescindeva da qualunque diktat fascista, ma anche dei lettori, sull’ignoranza linguistica dei quali evidentemente si contava. Una scarsa considerazione che, a ben vedere, non si limitò soltanto a quel periodo ma continuò per diversi decenni (prova ne sono, come ho già avuto modo di dire, le continue ristampe di quelle prime traduzioni) interessando oltre al giallo anche tutti gli altri generi di narrativa popolare, dalla fantascienza allo spionaggio, dall’horror al romanzo rosa.

Bibliografia

a. Testi originali

Christie 1926: Agatha Christie, The Murder of Roger Ackroyd, Collins, Glasgow 1926 (Berkley Books, New York 2004).

— 1929: Agatha Christie, The Seven Dials Mystery,Collins, Glasgow 1929 (HarperCollins, London 1994).

— 1931: Agatha Christie, The Sittaford Mystery, Collins, Glasgow 1931 (HarperCollins, London 1994).

—1933: Agatha Christie, Lord Edgware Dies, Collins, Glasgow 1933 (Berkley Books, New York 1984).

— 1934: Agatha Christie, Murder on the Orient Express, Collins, Glasgow 1934 (Fontana, London 1988).

b. Traduzioni (tra parentesi le edizioni da cui si traggono i passi citati)

Motta 1930: Giuseppe Motta, Dalle nove alle dieci, Mondadori, Milano 1930 (1969: traduzione di Christie 1926).

Piceni 1936: Enrico Piceni, I sette quadranti, Mondadori, Milano 1936 (1970: traduzione di Christie 1929).

Pitta 1935: Alfredo Pitta, Orient Express, Mondadori, Milano 1935 (1970: traduzione di Christie 1934).

Sarego 1935a: Tito N. Sarego, Se morisse mio marito, Mondadori, Milano 1935 (1979: traduzione di Christie 1935).

— 1935b: Tito N. Sarego, Un messaggio dagli spiriti, Mondadori, Milano 1935 (1952: traduzione di Christie 1931).