di Sara Ventroni
autrice di Walt Whitman, Contengo moltitudini, Ponte alle Grazie, Milano, 2020 (da Leaves of grass, Deathbed Edition, 1891-1892) (reperibile all’indirizzo https://whitmanarchive.org/published/LG/index.html)
Il titolo scelto per questo tascabile florilegio, Contengo moltitudini, è un omaggio alla natura incontenibilmente espansiva del poeta di Mannahatta (I am large, I contain multitudes) ma anche il giocoso biglietto da visita dell’antologia: nello spazio ristretto di novantacinque pagine ho infatti cercato di offrire una selezione quanto più varia – le «moltitudini» di intonazioni e di umori – delle Leaves of Grass, l’opera che per trentasei lunghi anni cresce intorno all’esistenza di Walt Whitman come un’ostinata rampicante sempreverde. I versi in lingua originale, presenti nel testo a fronte, sono tratti dalla cosiddetta Deathbed Edition (l’edizione del letto di morte, del 1891-1892).
Per non soccombere ai tempi, strettissimi, di consegna della traduzione, è stato vitale imprimere al lavoro un ritmo ben cadenzato, tenendo sempre accesa la percezione della “distanza” (delle lingue, delle epoche) e la consapevolezza che ogni testo tradotto sarà, per sua natura, “non-originario” (immagine che preferisco all’ingiudicabile concetto di “fedeltà/infedeltà all’originale”). Ho cercato, insomma, di fare in modo che i limiti oggettivi giocassero a mio favore nell’affrontare la mole ingombrante di un classico come Whitman, distribuendone il peso giorno per giorno (almeno un testo, la mattina presto, prima di ogni altra attività; ma allodola o civetta è questione di attitudine, e di abitudine) evitando così di rimanerne sepolta.
Dei numerosi dubbi e ostacoli, e delle soluzioni adottate, specifiche o di impostazione generale, posso dare solo qualche cenno: per rendere – sul piano prosodico – la varietà dei registri e degli stili narrativi whitmaniani occorreva modulare attentamente l’accentazione italiana e le sue peculiarità fonosillabiche (l’italiano è una lingua vocalica, poco sfumata in chiusura: abbondano uscite piane e tronche) così diverse da quelle americane. Ho tentato di non connotare il flow di Whitman con ritmi impropri, cercando una giusta misura tra le sequenze marcate, da marcetta (versi parisillabi) e l’andamento lasco e allungato, senza però fare ricorso sistematico ai canonici intarsi della metrica italiana narrativa (endecasillabi, settenari e quinari). Per affrontare la presenza di termini gergali, localismi, coloriture, forestierismi, in un’edizione italiana che non prevede note, ho lasciato aperte tre strade: la traduzione (es. Cuff con «negro»), la parafrasi (es. Tuckahoe con «virginiano mangiapatate») preferendo, nei casi in cui la parafrasi si rivelava impraticabile (es. Hoosier; Badger; Buckeye) segnalare in corsivo il termine originale. Per i dubbi lessicali apparentemente più semplici, di sfumatura (i più frequenti) non ho optato per espressionismi d’effetto decidendo tuttavia, nei casi in cui mi sembrava che un termine, ricorsivo in Whitman, assumesse una particolare tonalità di contesto, di trovare soluzioni più specifiche (es. rude con «forastico») rispetto a opzioni corrette ma forse troppo fruste (es. rude con «rude») anche se ampiamente proposte dai migliori traduttori italiani.
Infine, sempre per cenni, la questione delle questioni della traduzione: quanto ingombra la voce di me che traduco? La domanda, come è ovvio, non ha una risposta puntuale, ma va posta subito e tirata fuori alla bisogna, come uno spillo sulla coscia quando il tic, il vezzo, la soluzione più familiare sembrano prendere la mano. E la presenza del testo a fronte (indiscutibile risorsa per i lettori) almeno in questo caso ha agito benevolmente, come una sorta di spettro vigile. La voce del vecchio bardo che soffia il suo idioma nativo nell’orecchio del lettore e, si spera, fin dentro il “non-originario” della pagina accanto.