Benjy non gioca a golf

L’IMPRESA DI TRADURRE THE SOUND AND THE FURY DI FAULKNER

di Andrew Tanzi

Sin dalla sua pubblicazione nel 1929, The Sound and the Fury di William Faulkner esercita un grande fascino su critici, studiosi e appassionati di letteratura, i quali ancora oggi si prodigano per districare i viluppi mentali dei fratelli Compson.

La sfida posta al traduttore differisce però da quella affrontata dagli altri esperti di letteratura: il traduttore non può proporre, sostenere o avversare diverse interpretazioni dello stesso testo. A fronte delle differenze culturali e dell’anisomorfismo linguistico, cioè dello scarto per così dire naturale tra una lingua e un’altra, il traduttore è, infatti, obbligato a negoziare (Eco 2003, 10) fra prototesto (il testo originale) e metatesto (la traduzione) fino a giungere a un’unica resa. Un residuo traduttivo più o meno marcato è perciò inevitabile.

La traduzione di un romanzo può però anche gettare nuova luce sui significati più profondi dell’opera originale. Diversamente dal critico letterario generico, il cui studio descrive l’originale a grandi linee, il traduttore (e così il critico della traduzione) basa il proprio lavoro sullo studio di microsfumature e fatti minimi (Osimo 2004a, 40).

Intessendo la lingua della traduzione con le parole di un autore di un’altra cultura, sarà possibile mostrare il testo da un nuovo punto di vista, determinato tanto dalle caratteristiche uniche della lingua e della cultura di arrivo quanto dalle tendenze deformanti del traduttore (Berman 2004, 280-289). Ciò è particolarmente vero per la traduzione di opere di elevata complessità (più avanti si veda, a questo proposito, il riferimento a Bleikasten 2000) quali sono i romanzi modernisti.

In questo saggio saranno analizzati una serie di estratti di The Sound and the Fury (che viene citato dall’edizione Norton del 1994: Faulkner 1994), messi a confronto con la seconda traduzione italiana più recente, L’urlo e il furore, pubblicata la prima volta nel 1980 dalla Mondadori che affidò a Vincenzo Mantovani il rifacimento del lavoro fatto per la stessa casa editrice, e con lo stesso titolo, da Augusto Dauphiné nel 1947. Da allora la traduzione è stata più volte riedita, negli ultimi anni col marchio (da tempo mondadoriano) Einaudi, spesso col corredo di interventi di firme illustri: Attilio Bertolucci, Fernanda Pivano, Emilio Tadini. In questo articolo mi avvarrò dell’edizione Einaudi 1997. Per questioni di spazio limiterò la mia analisi alla sezione di Benjy; sarà evidente come, non sempre ineluttabilmente, la maggior parte della poetica di Faulkner vada purtroppo a formare un grande residuo traduttivo nella versione italiana, seppure nelle mani di un traduttore esperto e apprezzato.

Il modello cronotopico di Torop

Ci soccorre il concetto di rumore semiotico, quell’insieme di fattori che impediscono al messaggio di giungere intatto al destinatario, e comportano una perdita di parte dell’informazione. Il residuo traduttivo può consistere almeno parzialmente in questa perdita. Il rumore semiotico si produce in ogni trasferimento interlinguistico di informazioni (Osimo 2004b, 11) e spesso è la causa principale del residuo traduttivo, anche nelle traduzioni più accurate. Eppure, si potrebbe riuscire a creare una traduzione in cui si conservi quasi interamente il remainder bleikasteniano del prototesto:

The ‘remainder’ is what in language which is endlessly seething beneath rules, that which disrupts codes, overturns paradigms, and overflows all boundaries. Small wonder, then, that the linguists want to exclude it from their neat systems, for including it would seriously threaten the very objectives of their whole endeavor. Small wonder, too, that they are embarrassed by literature, that is, language in motion, language at work. Writing at its most inventive and transgressive is a perpetual return and reminder of the ‘remainder’, and along with Joyce, Stein, Céline, Beckett, and Gadda (not to mention poets), Faulkner assuredly belongs with the handful of writers of our century who have explored it with the greatest daring (Bleikasten 2000, 65)

[Con remainder si intende quella parte della lingua che scalpita sotto la superficie delle regole, sconvolge tutto ciò che è codificato, rovescia i paradigmi e trascende ogni confine. Nessuna meraviglia, quindi, che i linguisti vogliano escluderlo dai loro sistemi ordinati, giacché la sua inclusione comporterebbe una grave minaccia per il raggiungimento dei loro scopi. E nessuna meraviglia che si sentano a disagio al cospetto della letteratura: ossia, la lingua in divenire, la lingua all’opera. La scrittura all’apice dell’inventiva e della trasgressione è un ritorno e rimando perpetuo al remainder e, assieme a Joyce, Stein, Céline, Beckett e Gadda (per non parlare dei poeti), Faulkner appartiene senz’altro a quella manciata di scrittori del nostro secolo che lo hanno esplorato con maggior coraggio]

Una possibile strategia per identificare gli elementi costitutivi del remainder è applicare al testo un metodo di analisi sistemico; a questo proposito descriverò in breve il metodo cronotopico ideato da Torop (Torop in Osimo 2004a, 91-93; ma vedi anche Torop 2000). Come prima cosa si individuano le dominanti del prototesto (le componenti primarie attorno a cui si focalizza un testo) e le sottodominanti, insieme al lettore modello. Il passo successivo consiste nell’individuare le parole e le espressioni chiave del prototesto per determinarne la macrostruttura soggiacente e le sue componenti linguistiche. Queste componenti di solito si dividono in parole concettuali, espressioni funzionali e campi espressivi. Le parole concettuali sono parole che esprimono direttamente concetti essenziali per definire le dominanti e le sottodominanti del testo; la loro manipolazione altera i contenuti del testo. Le espressioni funzionali (chiamate anche parole-ponte o dettagli allusivi) sono parole e locuzioni disseminate nel testo per collegare zone testuali fisicamente distanti; la loro manipolazione crea un’alterazione della struttura del testo. I campi espressivi consistono nelle parole, locuzioni, frasi e forme grammaticali che sono caratteristiche idiomorfe dello stile dell’autore; la manipolazione dei campi espressivi si ripercuote sulla poetica del testo. Ovviamente il modello cronotopico può essere usato anche per trovare gli elementi deittici del testo, i riferimenti intertestuali e i realia (Osimo 2001, 74-79 e 92). Come dice Berman, quindi, scavare a fondo nella lettera è fondamentale per il traduttore, così come lo è per l’autore del testo:

Labor on the letter in translation is more originary than restitution of meaning. It is through this labor that translation, on the one hand, restores the particular signifying process of works (which is more than their meaning) and, on the other hand, transforms the translating language (Berman 2004, 276-289).

[Nell’ambito della traduzione, scavare nella lettera non significa tradurre letteralmente. Significa cercare dentro la parola ciò che permette di dare concretezza alla congettura che si sta profilando nella mente; significa vincere i limiti del proprio lessico e scoprire la ricchezza della propria lingua.]

Vedremo nei paragrafi successivi come, nella traduzione italiana di The Sound and the Fury, questo «scavare a fondo nella lettera» sia stato spesso ignorato.

Dominanti, sottodominanti e lettore modello

A costituire il tema centrale in The Sound and the Fury sono le incursioni dell’autore nelle menti dei personaggi: menti apatiche, turbate, ciniche e spigolose che disorientano e confondono il lettore. Le voci dei singoli personaggi rispecchiano la loro psiche e, quindi, i loro tormenti interiori. Questi aspetti sono espressi in modo brillante da Faulkner grazie all’uso particolare della sintassi, alle scelte lessicali e alla punteggiatura. La confusione – elemento chiave del romanzo modernista – è creata dalle numerose associazioni mentali dei personaggi, spesso – all’inizio, almeno – imperscrutabili anche al lettore più navigato. Queste associazioni mentali hanno senso solo nella psiche dei personaggi e vengono ulteriormente distorte da continue analessi e prolessi. L’effetto alienante è enorme, soprattutto nella parte dedicata a Benjy. La dominante fa perno dunque sulle violazioni che Faulkner compie delle norme sintattiche, lessicali e di punteggiatura.

La sottodominante principale è il suono: molti verbi del romanzo, infatti, non indicano atti linguistici specifici, se non quelli che riguardano la produzione di suoni indistinti. I verbi enunciativi sono pochi (say il più frequente), mentre sono molti i verbi come moan, bellow, cry, whine, così come hush e sing: verbi che suggeriscono un ritorno a una condizione mentale e a un modo di esprimersi primitivi, caotici.

Il lettore modello di The Sound and the Fury non è necessariamente in grado di capire o addirittura tenere il passo con tutte le acrobazie linguistiche di Faulkner e con le sue incursioni nelle menti tormentate dei personaggi. Il lettore modello, però, sarà impaziente di affrontare la sfida posta dal romanzo di Faulkner e di scavare nelle sue profondità più recondite.

Parole concettuali, espressioni funzionali e campi espressivi

The Sound and the Fury abbonda di parole concettuali, espressioni funzionali e campi espressivi che ci offrono nuove prospettive sulla psiche delle voci narranti del romanzo. La prima parola concettuale è il verbo hit, che ricorre ben sei volte solo nella prima pagina. Il verbo allude alla percezione del mondo di Benjy. Possiamo forse ipotizzare – e poi, più avanti, ne abbiamo la certezza – che ciò che vede è un gruppo di persone intente a giocare a golf. Ma agli occhi di Benjy sono solo un gruppo di persone che colpiscono: non una palla o qualcos’altro, colpiscono e basta.

I could see them hitting. […] They took the flag out, and they were hitting. Then they put the flag back and they went to the table, and he hit and the other hit […] He hit. […] They were hitting little, across the pasture (Faulkner 1994, 3).

Nella versione italiana il verbo hit in tutte le sue forme è tradotto con addirittura tre verbi diversi: giocare, colpire e tirare:

Li vedevo giocare. […] Loro tolsero la bandiera e colpirono la palla. Poi rimisero a posto la bandiera e raggiunsero la piazzuola, e prima tirò uno e poi l’altro. […] Tirò. […] Tiravano piano, in fondo al pascolo (Mantovani 1997, 3).

Anche se i tre verbi presi separatamente potrebbero essere traduzioni accettabili del verbo hit, in questo caso non esiste una spiegazione accettabile del perché in italiano siano usati ben tre verbi quando Faulkner ne usa uno solo. «Tirare», inoltre, viene usato qualche riga più in basso per tradurre il verbo to throw. In Faulkner Benjy distingue tra due azioni diverse: colpire e tirare. Nella versione tradotta in italiano, invece, le due azioni si confondono e all’atto del colpire viene aggiunto un dettaglio assente nell’originale. Un’altra grave alterazione della voce narrante di Benjy è causata dall’introduzione degli oggetti per i verbi transitivi usati, nell’originale, in modo intransitivo. Questo elemento è fondamentale per caratterizzare la percezione unica che Benjy ha del mondo circostante.

Se l’uso avverbiale di little provoca un residuo traduttivo pressoché inevitabile, lo stesso non può dirsi dell’uso della parola table per indicare il green. Dentro questa parola si nasconde un importante riferimento intratestuale: il fatto che Benjy adoperi una parola domestica – di solito usata per indicare un oggetto intorno al quale le persone si riuniscono ai pasti – anticipa un riferimento al modo, che emergerà nel seguito del romanzo, in cui i Compson sono caduti in disgrazia. Così come il table del campo da golf è piatto e con niente sopra, così lo è anche il tavolo della cucina della famiglia Compson. La parola è anche indicativa dell’abitudine di Benjy di ricorrere al nome di oggetti più comuni, da sempre facenti parte della sua realtà quotidiana, per descrivere cose di cui non conosce il nome.

Altri esempi di parole concettuali sono i verbi enunciativi say e whisper. Mentre il secondo verbo occorre soprattutto nella parte di Benjy (e anche piuttosto di rado), il primo è una costante presente in tutto il romanzo. Il verbo say rimanda alla percezione piatta del mondo circostante delle prime tre voci narranti; solo nel quarto capitolo troviamo un unico shouted come verbo enunciativo, e non stupisce che sia nella parte di Dilsey (Faulkner 1994, 167). La traduzione italiana tende a seguire l’originale, discostandosi notevolmente dalla tendenza più comune nell’editoria italiana di riempire quasi ogni romanzo tradotto di tutti i verba dicendi presenti nel dizionario. Nella sezione di Jason ci sono le uniche eccezioni. In linea con il suo idioletto e il tono a volte da cantastorie, Jason usa sistematicamente il presente della terza persona singolare del verbo to say (anche quando il soggetto è lui stesso, ovvero I says), anche se sta raccontando eventi nel passato. Qui la versione italiana oscilla tra i verbi enunciativi «dire» e «fare»:

“Have you got your band on?” she says. […] “There, there,” Uncle Maury says, patting her hand, talking around his mouth (Faulkner 1994, 124).

– Ti sei messo il nastro? – fa lei. […] – Su, su, – dice zio Maury, dandole dei colpetti sulla mano, parlando a bocca piena (Mantovani 1997, 176).

Sembra che le occorrenze di «dire» e «fare» nella sezione di Jason non seguano uno schema particolare. Tuttavia, in questo caso, i riferimenti intratestuali non ne risentono molto. Si potrebbe anche sostenere che abbiano fatto uno sforzo per mantenere un equilibrio tra «fare» e «dire» per conservare, in qualche modo, i riferimenti intratestuali e, allo stesso tempo, trasmettere meglio l’oralità della narrazione di Jason.

Ho già citato l’importanza dei verbi che riguardano il suono. Tra questi, il più difficile da affrontare nella traduzione di The Sound and the Fury è moan. A causa delle numerose occorrenze nel romanzo, il verbo dovrebbe essere considerato sia una parola concettuale, sia un’espressione funzionale. È un verbo indicativo non solo del dolore di Benjy, ma anche del fatto che la famiglia Compson sia ormai diventata un lamento unico, poiché i suoi componenti ormai aprono la bocca solo per piangersi addosso. Il moan che riecheggia in tutto il romanzo è anche quello di una creatura in punto di morte: forse un’epoca, forse di un modo di vivere. In un commento sulla traduzione mantovaniana di The Sound and the Fury, e in particolare sulla resa di Shut up that moaning (Faulkner 1994, 3) con «Smettila di frignare» (Mantovani 1997, 4), Mamoli Zorzi osserva che

È davvero una libertà offensiva nei confronti del personaggio di Benjy usare il verbo «frignare», invece del verbo «gemere» (o un sinonimo). Se Benjy è un “bambino” di trentatré anni, egli è anche il personaggio che riassume ed esprime tutto il dolore umano, figura tragica che Faulkner rispetta profondamente. Se Faulkner non usò un verbo come to fret (questo sì equivalente a «frignare»), ma il verbo to moan, perché mai dovremmo sceglierlo in italiano, davvero prendendoci una libertà non consentita nella caratterizzazione di questo tragico personaggio creato da Faulkner? (Marcolin/Zorzi 2000, 30).

Questa argomentazione è inesatta sotto almeno due punti di vista. La battuta incriminata è pronunciata da Luster, il quale non manca di piccoli atti di crudeltà nei confronti di Benjy, come quando lo provoca ripetendo il nome di Caddy. Nella sua bocca sembra molto più appropriata e credibile la battuta «Smettila di frignare» che non l’improbabile e ambiguo «Smettila di gemere». Impossibile, in secondo luogo, condividere l’affermazione secondo cui «frignare» sarebbe l’equivalente di fret. Il problema della traduzione di moan è legato semmai alla sua polisemia: difficile trovare un traducente italiano che funzioni bene tanto in bocca a Luster quando si rivolge a Benjy, quanto nelle diverse occorrenze in cui viene usato da altri personaggi o dal narratore extradiegetico per descrivere i lamenti delle persone durante il funerale di Damuddy. Forse il migliore compromesso per mantenere sia i numerosi rimandi intratestuali sia, per quanto possibile, la ricchezza semantica dell’originale, è il verbo «lamentarsi», anche se è chiaro che in bocca a Luster questo verbo perde di mordente. Di fatto, nell’italiano si fa di nuovo ricorso a un’ampia sinonimizzazione, impiegando traducenti quali «gemere», «frignare», «lamentarsi» e altri ancora.

Più in generale, la sezione di Benjy è caratterizzata da un lessico relativamente semplice. Si nota in particolare l’uso preponderante dei verbi di movimento basilari come, go e stop: una restrizione di termini dettata da un chiaro intento autoriale, ossia di rimarcare la percezione limitata, e comunque quasi sempre quantitativa e non mai qualitativa, che ha Benjy delle azioni altrui. Questi verbi in italiano sono stati resi di volta in volta con «seguire», «tornare», «camminare», «raggiungere», «riprendere a camminare», «passare», «allontanarsi» (Schiavi 2000, 66). Di fatto, questa tendenza deformante del traduttore fa sì che la voce italiana di Benjy si allontani non poco dalla sua voce faulkneriana.

Tra le espressioni funzionali del testo spicca fence. Il fence è per Benjy un punto di riferimento fondamentale: è lì vicino, nei pressi del cancello, che aspetta Caddy, è lì che resta impigliato quando gioca con gli altri bambini, è da lì che osserva ciò che una volta era un lotto di terreno della famiglia. Il fence è anche sinonimo dei limiti alla sessualità di Benjy: non a caso da piccolo resta impigliato in un chiodo che sporge dal fence, un evento che anticipa la castrazione che subirà da grande per aver cercato di toccare le ragazze che passavano vicino al fence. La ricorrenza frequente e sistematica di questa parola conferisce ai quattro capitoli e a quello di Benjy in particolare un fortissimo elemento di coesione interna, come a ricordarci che i Compson, da qualunque punto di vista li si guardi, sono imprigionati all’interno di una barriera che essi stessi hanno eretto. Nell’italiano, però, fence viene tradotto indifferentemente con «steccato», «palizzata», «recinto», «muro», «assi», indebolendo così la coesione interna del testo e falsando di nuovo il personaggio di Benjy: com’è possibile che una persona dal lessico estremamente limitato, costretto a ricorrere a circonlocuzioni per descrivere oggetti quotidiani, disponga invece di almeno cinque termini diversi per uno stesso oggetto?

Omissioni e aggiunte

Abbiamo già notato che la traduzione italiana tende a ignorare le deviazioni dall’inglese standard e le riscrive in italiano standard, con l’aggiunta di materiale esplicativo. I verbi transitivi usati in modo intransitivo (I could see them hitting, he hit and the other hit), l’uso avverbiale degli aggettivi (they were hitting little, across the pasture), le circonlocuzioni per indicare gli oggetti di cui il personaggio non sa il nome (the curling flower spaces, where the flag was, the flower tree) in italiano sembrano perdere la loro incisività: «Dallo steccato, tra i buchi dei fiori arricciati, li vedevo […]. Tiravano piano, in fondo al pascolo» (Mantovani 1997, 3).

Gli esempi citati sono tutti presi dalla sezione di Benjy; non sorprende affatto che, proprio in questa parte, il traduttore annulli completamente gli impulsi più radicali del Faulkner scrittore: raggiungere, esplorare e coltivare i territori linguistici vasti e sconosciuti che la langue vorrebbe cancellare, o almeno proibire. Ma l’impressione generale è che non si sia quasi sforzato di preservare il remainder di Faulkner. Non ci sono giustificazioni per la traduzione di una frase come They took the flag out, and they were hitting (Faulkner 1994, 3) con «Loro tolsero la bandiera e colpirono la palla» (Mantovani 1997, 3).

È presente, inoltre, una grave omissione nella parte in cui Caddie e Benjy entrano nella stanza di Caroline Compson. La madre malata è distesa a letto con una pezzuola imbevuta di canfora sulla fronte (Ross e Polk 1996, 27). Questa è la frase di Faulkner: We went to Mother’s room, where she was lying with the sickness on a cloth on her head (Faulkner 1994, 26).

Il concetto di «malattia», una parola pregnante nel romanzo, è sconosciuto a Benjy: identifica quindi la malattia con qualsiasi cosa sia «sul» panno, in questo caso la canfora. Capisce le cose in base a come le vede e si riferisce a esse secondo lo stesso principio, senza mai mettere in relazione causa ed effetto. Nella traduzione italiana questa caratterizzazione viene persa: «Andammo nella stanza della mamma, dove lei era coricata con un impacco sulla testa» (Mantovani 1997, 36). Il residuo rispetto all’originale è evidente: non vi è traccia della sickness e la frase è resa in italiano standard, con addirittura una deviazione del registro dovuta all’uso dell’aggettivo «coricata».

Punteggiatura

Vorrei ora dedicare qualche parola anche alla punteggiatura nella sezione di Benjy. Qui Faulkner non usa mai punti interrogativi: Benjy sente delle parole ma non riesce a capire se formino domande o affermazioni. Vediamo un esempio:

“What is it.” Caddy said “What are you trying to tell Caddy. Did they send him out, Versh.”
“Couldn’t keep him in.” Versh said. “He kept on until they let him go and he come right straight down here, looking through the gate.”
“What is it.” Caddy said. “Did you think it would be Christmas when I came home from school. Is that what you thought. Christmas is the day after tomorrow. Santy Claus, Benjy. Santy Claus. Come on, let’s run to the house and get warm.”

Riesce soltanto a distinguere tra il dire e il sussurrare; la sua percezione dei discorsi delle altre persone si misura in termini di quantità (volume) e non di qualità (inflessione). La versione italiana, invece, presenta punti di domanda alla fine di ogni frase interrogativa.

– Che c’è? – disse Caddy. – Che stai cercando di dire a Caddy? Sono stati loro a mandarlo fuori, Versh?
– Impossibile tenerlo in casa, – disse Versh. – Ha continuato finché non l’hanno fatto uscire, e allora è venuti subito qui a guardare dal cancello.
– Che c’è? – disse Caddy. – Credevi che quando io fossi tornata da scuola sarebbe stato il giorno di Natale? Era questo che credevi? Natale è dopodomani. Babbo Natale, Benjy. Babbo Natale. Dài, corriamo a casa a scaldarci.

Si potrebbe sostenere questa scelta facendo notare che in inglese una domanda è subito riconoscibile dalla struttura sintattica, mentre invece in italiano no. Tuttavia, lo scopo principale della sezione di Benjy è quello di confondere. Perché non mantenerlo anche nella traduzione? Se il lettore italiano dovesse addirittura essere più confuso di quello inglese, allora potremmo dire che la traduzione italiana ha semmai guadagnato qualcosa rispetto all’originale. E, invece, sono stati aggiunti i punti interrogativi e la percezione unica che Benjy ha del mondo viene di nuovo distorta.

Il titolo

Infine vorrei spendere qualche parola sul titolo originale del romanzo, tratto, come è noto, dal Macbeth di Shakespeare:

Life’s but a walking shadow; a poor player,
That struts and frets his hour upon the stage,
And then is heard no more: it is a tale
Told by an idiot, full of sound and fury,
Signifying nothing.

Purtroppo la polisemia di sound rende la parola intraducibile in italiano. Se infatti «urlo» e «strepito» rimandano al lamento di Benjy, vanno persi rimandi altrettanto fondamentali all’acqua (sound nel senso di «stretto»), all’esplorazione interiore (sound nel senso di «sonda», un rimando quindi al monologo interiore e al flusso di coscienza), alla permanenza (sound nel senso di «solido», un rimando quindi al personaggio di Dilsey ma, per un altro verso e volendo azzardare una lettura in chiave ironica, anche all’incapacità dei Compson di sbloccarsi e adattarsi al mondo moderno), alla salute fisica e mentale (sound nel senso di «sano»). Quest’ultimo rimando apre a molteplici interpretazioni: chi è il personaggio «sano» dell’opera di Faulkner? E in relazione a che cosa lo giudichiamo sano? È più sano Quentin, che studia a Harvard e finisce per togliersi la vita, oppure Benjy, intelligente poco più di un neonato ma in grado di trovare la serenità d’animo necessaria per continuare a vivere in pace con il mondo? Come vuole la tradizione modernista, è una domanda aperta: potremmo trovare argomenti a sostegno di qualsiasi risposta. Purtroppo l’anisomorfismo linguistico rende di fatto impossibile una traduzione del titolo che sia del tutto soddisfacente e nella traduzione italiana L’urlo e il furore, radicato ormai nella tradizione italiana e di cui non è quindi responsabile Mantovani, si perde quasi tutta la profondità del titolo originale.

Riferimenti bibliografici

Berman 2004: Antoine Berman, Translation and the Trials of the Foreign in The Translation Studies Reader, edited by Lawrence Venuti, Routledge, London & New York

Bleikasten 2000: André Bleikasten, Faulkner, Language and its “Remainder”, in Masiero Marcolin e Mamoli Zorzi 2000

Eco 2003: Umberto Eco, Dire quasi la stessa cosa. Esperienze di traduzione, Bompiani, Milano

Faulkner 1994: William Faulkner, The Sound and the Fury, New York, Norton

Mantovani 1997: L’urlo e il furore, Torino, Einaudi (la prima edizione è del 1980)

Masiero Marcolin e Mamoli Zorzi 2000: William Faulkner in Venice, a cura di Pia Masiero Marcolin e Rosella Mamoli Zorzi, Marsilio, Venezia

Osimo 2001: Bruno Osimo, Propedeutica della traduzione, Hoepli, Milano

Osimo 2004a: Bruno Osimo, Traduzione e qualità. La valutazione in ambito accademico e professionale , Hoepli, Milano

Osimo 2004b: Manuale del traduttore, Hoepli, Milano (seconda edizione)

Ross e Polk 1996: Stephen Ross and Noel Polk, Reading Faulkner – The Sound and the Fury, University Press of Mississippi, Jackson

Schiavi 2000: Giuliana Schiavi, Soldier’s Pay e The Sound and the Fury, in Mamoli Zorzi 2000

Torop 2000: Peeter Torop, La traduzione totale, a cura di Bruno Osimo, Guaraldi Logos, Modena (traduzione di Peeter Torop, Total’nyi perevod, Izd.vo Tartuskogo Universiteta, Tartu 1995)